Il guardaboschi nutriva una lupa scheletrica d’inverno, e d’estate lei si presentò alla sua porta con un sorprendente “regalo”!

Il guardaboschi dava da mangiare a una magra lupa d’inverno, e d’estate lei si presentò alla sua porta con un “dono” inaspettato!
Marzo, specialmente nei rigidi inverni siberiani, non è mai un mese semplice. L’inverno resiste ancora, ma già vacilla: la neve, prima compatta, inizia a sciogliersi, trasformando i sentieri in pericolosi pantani fangosi. Strade che d’inverno erano sicure da percorrere a piedi o con gli sci, ora diventavano quasi impraticabili. È un periodo di transizione, aspro, duro, quando la natura esita tra la vita e il sonno.
Anche per gli animali, marzo è tra i mesi più difficili. Dopo mesi di fame, con le scorte esaurite, molti sono allo stremo. Alcuni continuano a dormire, altri cercano cibo rischiando invano. Solo i più forti sopravvivono, ma anche loro a fatica.
In una delle casupole nascoste tra pini e larici, sedeva Pëtr Emel’janov, un guardaboschi con trent’anni di esperienza. Conosceva ogni cespuglio, ogni svolta del sentiero, ogni soffio di vento. La sua vita era legata alla taiga: ne sentiva il respiro, ascoltava il sussurro degli alberi, leggeva le tracce sulla neve come altri leggono libri.
Stava compilando un rapporto sugli ispezioni invernali quando un suono lo strappò ai suoi pensieri. Non era il vento o il cigolio del legno, ma un ululato profondo, carico di dolore, solitudine, disperazione… e forse speranza.
Pëtr si avvicinò alla finestra. Nella nebbia grigia, a cinquanta metri dalla capanna, c’era una lupa. Giovane ma scheletrica, con il pelo opaco e i movimenti faticosi. Malgrado la fame, però, manteneva una dignità fiera.
“Che ti è successo, bellezza?” borbottò Pëtr.
La lupa non scappò. Lo fissava, emettendo suoli sommessi, non di minaccia ma di supplica. Nel suo sguardo, stanchezza e… fiducia?
Trent’anni di taiga gli avevano insegnato: non interferire con la natura, non nutrire gli animali selvatici. Ma qualcosa in quella lupa lo commosse. Forse il suo sguardo privo di paura, o la fierezza malgrado la debolezza.
Con un sospiro, prese un pezzo di carne di alce dal congelatore e lo posò sulla neve. La lupa esitò, poi lo afferrò e si allontanò per mangiare con calma.
“Da quanto non mangiava…” pensò Pëtr.
Il giorno dopo, tornò. E poi ancora, tutta la primavera. Piano piano, si riprese: il pelo ridivenne lucido, i movimenti sicuri. Ma mantenne sempre le distanze.
“Brava ragazza,” diceva Pëtr. “Sa che deve temere l’uomo.”
A maggio, le visite si fecero rare. A giugno, sparì.
“Beh, vuol dire che sta meglio,” pensò, sentendo quasi la sua mancanza.
Due mesi dopo, in piena estate, sentì un ululato diverso: non triste, ma quasi solenne.
Sulla soglia, la vide: la sua lupa, forte e sana, con due cuccioli pelosi al fianco.
“Ecco perché,” sussurrò. Era incinta quando cercava cibo. Quella carne l’aveva aiutata a crescere i piccoli.
I cuccioli giocavano, curiosi, mentre la madre lo fissava con gratitudine. Un ululato melodioso riempì l’aria, poi sparirono nel bosco.
Non li rivide più, ma a volte, la sera, sentiva ululati lontani.
“Crescono bene,” sorrideva.
I cacciatori raccontavano di una nuova famiglia di lupi nella zona: intelligenti, cauti, che evitavano l’uomo.
“Giusto così,” diceva Pëtr. Ma in segreto era fiero.
Quell’inverno, preparò più carne del solito. Non per i lupi, ormai indipendenti, ma per chiunque altro avesse bisogno.
Perché nella taiga vige una legge: aiutare chi è in difficoltà, uomo o bestia. Il bene torna indietro, a volte nei modi più inaspettati.
E da qualche parte, nel profondo della foresta, una famiglia di lupi ricordava l’odore di quell’uomo gentile, evitando il suo territorio non per paura, ma per rispetto. Perché alcuni meritano gratitudine. E i lupi lo sanno.

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Il guardaboschi nutriva una lupa scheletrica d’inverno, e d’estate lei si presentò alla sua porta con un sorprendente “regalo”!