Ho cacciato via il figlio della mia defunta moglie, dicendo che non era mio dieci anni dopo, la verità mi ha spezzato.
Calciai lo zaino logoro del ragazzo sul pavimento di piastrelle e lo fissai con uno sguardo che sapevo vuoto.
“Vai,” dissi. “Non sei mio figlio. Sofia è morta. Non ti devo nulla. Vattene dove vuoi.”
Non pianse. Non protestò. Abbassò il capo, raccolse lo zanno strappato, si voltò e uscì. Senza una parola.
Dieci anni dopo, quando la verità mi raggiunse, desiderai solo di poter tornare indietro nel tempo.
Mi chiamo Luca. Avevo trentasei anni quando mia moglie, Sofia, morì dinfarto. Ci lasciò il nostro piccolo appartamento a Firenze e un ragazzo di dodici anni, Matteo.
Matteo non era “mio”. Così mi dicevo. Era il figlio di Sofia, nato da una relazione di cui non parlò mai. Quando la sposai a ventisei anni, credevo di essere un uomo buono. Ammiravo la sua forza. Aveva affrontato un cuore spezzato e una gravidanza da sola, crescendo un bambino senza aiuto. Pronunciai le parole nobili: “La accetto, e accetto suo figlio”. Le dissi ad alta voce. Ma non le dissi col cuore.
Lamore che è solo dovere non dura. Si assottiglia. Si raffredda. Diventa una maschera che indossi finché il filo non si spezza.
Davo da mangiare a Matteo. Pagavo le sue uniformi scolastiche. Andavo ai colloqui quando Sofia me lo chiedeva. Facevo tutto ciò che un genitore dovrebbe fare. Ma lo facevo come un impiegato che spunta caselle. Nella quiete, mi ripetevo la verità: è un peso che porto per Sofia.
Quando Sofia morì, il filo si ruppe. Lultimo legame tra me e quel ragazzo svanì. Lui rimase educato, silenzioso, attento a non occupare spazio. Mantenne le distanze anche nella stessa stanza. Forse sapeva già che non lavevo mai davvero accolto.
Un mese dopo il funerale, dissi la frase peggiore della mia vita.
“Vattene. Che tu ce la faccia o no, non è affar mio.”
Mi aspettavo lacrime. Suppliche. Non ebbi né luna né laltra. Se ne andò senza voltarsi. E non provai nulla. Niente rimorso. Niente pietà. Solo una superficie dura e vuota al posto del cuore.
Vendetti la vecchia casa. Mi trasferii. Il lavoro andò bene. Lazienda prosperò. Incontrai unaltra donna. Niente figli, niente passato a complicare le cose. Costruii una vita di linee pulite e ordinate: soldi, cene, sonno, ripeti. A volte, di notte, un pensiero leggero come una falena alla finestra mi sfiorava: dovè finito Matteo? Sta bene? Non aprivo la finestra per lasciarlo entrare. Col tempo, persino quella debole curiosità svanì.
Un ragazzo di dodici anni senza genitori dove va a finire? Non lo sapevo. Mi dicevo che non mi importava. Nei momenti più bui, pensai persino: Se non cè più in questo mondo, forse è meglio. Almeno non resta nessun peso. Rileggo quelle parole ora e rabbrividisco. Allora, mi sembravano limpide e oneste. Erano solo crudeli.
Passarono dieci anni.
Un giovedì pomeriggio, squillò il telefono. Numero sconosciuto.
“Signor Luca?” chiese una voce. “Potrebbe partecipare allinaugurazione della Galleria TPA in Via Roma questo sabato? Cè qualcuno che spera molto venga.”
Stavo per riattaccare. Non frequento artisti. Non vado alle gallerie. Ma prima che potessi farlo, la voce aggiunse: “Non vuole sapere cosa è successo a Matteo?”
Quel nome colpì un punto dentro di me che credevo ormai di pietra. Non lo sentivo da un decennio. La mano mi si bloccò sullo schermo. Deglutii.
“Verrò,” dissi.
**La Galleria**
Lo spazio era bianco e luminoso, pareti pulite, pavimenti lucidi. La gente si muoveva lenta, sussurrava, aveva aria seria. I quadri erano appesi in file ordinate. Molti erano olio su tela pennellate spesse, colori profondi, una distanza che mi respingeva. Leggevo le targhette. Ripetutamente, le stesse tre lettere: TPA.
Quelle iniziali bruciavano. Non sapevo perché.
“Buongiorno, Signor Luca.”
Mi voltai. Un giovane alto e magro, vestito semplicemente, mi fissava. Aveva occhi fermi e scuri. Mi osservava come si osserva la marea misurando se sta salendo o scendendo.
Era Matteo.
Non era più il ragazzino che avevo cacciato nella notte. Era composto, essenziale, quieto nel corpo. Aveva un peso calmo, come un albero che ha imparato a resistere alle tempeste.
“Tu” balbettai. “Come?”
Mi interruppe con dolcezza. La sua voce era bassa e chiara, come il suono di un vetro sfiorato da ununghia. “Volevo che vedesse cosa mia madre ha lasciato in questo mondo. E da cosa si è allontanato.”
Mi condusse a una grande tela coperta da un drappo rosso.
“Si chiama *Madre*,” disse. “Non lho mai mostrata a nessuno. Oggi voglio che la veda.”
Tirai via il drappo.
Sofia mi guardava da un letto dospedale. Pelle pallida. Piccole rughe agli angoli della bocca. Occhi che conservavano una traccia di coraggio. Nella mano, una foto: noi tre durante lunico viaggio insieme, impacciati e quasi sorridenti, la luce del sole sui volti. Le gambe mi cedettero. Mi aggrappai alla cornice per non cadere.
Matteo non alzò la voce. “Prima di morire, teneva un diario,” disse. “Sapevo che non mi amava. Ma speravo che un giorno avrebbe provato. Lo speravo come un bambino spera la pioggia.”
Fece una pausa. Le parole successive spezzarono laria tra noi.
“Non sono il figlio di un altro uomo.”
Non riuscivo a respirare. La stanza divenne troppo silenziosa.
“Sì,” continuò. “Sono suo figlio. Era già incinta quando la incontrò. Le disse che il bambino era di un altro per mettere alla prova il suo cuore. Poi, non seppe come dirle la verità senza perderla. Trovai il diario in soffitta, avvolto in un vecchio scialle.”
Le pareti della galleria si allontanarono. Il pavimento si inclinò. La cosa peggiore che avessi mai fatto non era solo brutta aveva cambiato forma. Non avevo cacciato un bambino che consideravo un peso. Avevo cacciato via il mio stesso sangue.
Matteo mi stava davanti. Non esultava. Non accusava. Non chiedeva nulla. Mi affrontava con la verità e la lasciava pesare da sola.
Mi sedetti su una sedia in un angolo. I rumori della gente si confusero. Le sue parole mi trafissero come coltelli. *Sono suo figlio. Aveva paura che restasse solo per dovere. Scelse il silenzio perché lamava. Se ne andò perché temeva di essere un padre.*
Un tempo mi dicevo nobile per “aver accettato il figlio di un altro”. Quelle parole ora sono amare. Non ero stato gentile. Non ero stato giusto. Non ero stato un padre. Quando Sofia morì, presi un ragazzo in lutto e lo spinsi via dallunica porta rimasta. Ero cieco. Peggio: avevo chiuso gli occhi da solo.
Matte





