In quel preciso istante in cui il tempo si fermò e i cuori battevano all’unisono con panico e speranza, una ragazza di diciassette anni da una remota provincia italiana fece l’impossibile: divenne medico, madre, salvatrice e simbolo di come la vera vocazione non nasca negli uffici, ma in un cuore che batte per gli altri.
Quello non era un giorno qualunque. Era il momento in cui si intrecciarono destini, circostanze, paura e miracoli. Un istante che cambiò per sempre le vite di tre neonati, di una donna e di un’intera città. Tutto iniziò sotto la luce tremolante delle lampade fluorescenti nel reparto maternità dell’Ospedale Provinciale di Catanzaro, quello ai margini di un paesino dimenticato da Dio, dove ogni nascita era un evento e ogni morte una tragedia che avvelenava l’aria per anni.
Le luci del corridoio tremolavano, quasi a preannunciare qualcosa di imminente. Il bip dei monitor si fondeva in un’unica, inquietante sinfonia. Le pareti, dipinte di un verde sbiadito, sembravano assorbire sudore, lacrime e preghiere sussurrate in ogni angolo. Le infermiere correvano, i medici gridavano, ma era solo lo sfondo alla tempesta che stava per scatenarsi dietro la porta della sala operatoria numero tre.
Lì, su una barella, veniva trasportata Giulia Marchetti, una donna di ventisette anni che fin dall’inizio della gravidanza aveva sognato dei gemelli. Sognava che si sarebbero tenuti per mano, avrebbero riso all’unisono, che lei avrebbe cantato loro ninne nanne prima di dormire. Ma i sogni non sempre seguono i piani. Gli ostetrici guardavano preoccupati l’ecografia: entrambi i bambini erano in posizione podalica. Significava una cosa sola: senza un cesareo d’urgenza, neanche una possibilità. Non per loro. Non per lei.
L’intervento era previsto per le 18:00. Il dottor Rossi stava arrivando dalla città vicina, ma un incidente sulla stataletre macchine, un incendio, dieci chilometri di codalo aveva bloccato. Mancavano trenta minuti, ma Giulia non li aveva quei trenta minuti. Aveva solo secondi. Secondi che avrebbero deciso se i suoi figli avrebbero visto l’alba.
Nella sala operatoria regnava un caos frenetico. Un’infermiera, in piedi da sette ore, vacillava dalla stanchezza. Gli occhi annebbiati, le mani tremanti. L’ostetrico cercava di calmare Giulia, ma anche lui sentiva che qualcosa non andava. In un angolo, con un camice troppo grande per la sua figura minuta, c’era Beatrice Contidiciassette anni, studentessa del liceo, tirocinante che sognava di diventare chirurgo. Non era lì per un voto o per formalità. Era lì perché sapeva, fin da bambina, che il suo posto era accanto a chi soffriva. Aveva letto manuali di ostetricia, visto centinaia di video di parti, imparato a riconoscere ogni battito, ogni sfumatura del pianto di un neonato. Era come un’artista che studia ogni tratto di un capolavoro per un giorno crearne uno suo.
E quel giorno era arrivato.
Giulia urlò. Non un semplice urloun grido che squarciò le pareti come un presagio di sventura. I monitor impazzirono. Il battito di uno dei bambini crollava. L’altro quasi non si muoveva più. L’anestesista gridò: “Sta svenendo!”ma nessuno osava prendersi la responsabilità. L’infermiera, all’improvviso, cadde a terra. Convulsioni, pallore, svenimentostress, troppe ore di turno. Il caos dilagò. Qualcuno corse a cercare aiuto, altri tentarono di attivare l’ossigeno, ma nessuno faceva l’unica cosa necessaria: far nascere quei bambini. Subito.
E allora, come uscendo da una nebbia, Beatrice fece un passo avanti.
Non esitò. Non si guardò intorno. Il viso era pallido, le labbra tremavano, ma gli occhifermi come il filo di un bisturi. Indossò i guanti. Inspirò profondamente. E, avvicinandosi al lettino, prese la mano di Giulia.
“Mi chiamo Beatrice,” disse piano, ma abbastanza forte perché tutti udissero. “Non sono un medico. Sono una studentessa. Ma ho visto tutto. So cosa fare. Per favore… fidatevi di me. Non abbiamo tempo.”
Giulia la fissò come un fantasma. Occhi pieni di terrore e speranza.
“Ma tu… sei solo una ragazzina…”
“Sì,” annuì Beatrice. “Ma i vostri figli non aspettano una ragazzina. Aspettano la vita. E io posso dargliela. Adesso.”
Assunse la posizione. Le dita, che un attimo prima tremavano, ora si muovevano con precisione chirurgica. Ricordò ogni parola delle lezioni, ogni gesto visto dal dottor Rossi. La posizione podalicauno degli scenari più pericolosi. Rischio di soffocamento, rottura dell’utero, morte. Ma Beatrice non pensava ai rischi. Pensava solo a far sì che quei piccoli esseri nascessero. Vivi.
“Respira, Giulia!” gridò. “Un ultimo sforzo! Ora! Ora!”
E in quel momentocome in un film, come in un sognospuntò una gambina. Beatrice guidò i movimenti con dolce fermezza. Un maschietto. Piccolo, bluastro, maurlò. Il primo suono della vita. Il primo respiro. La prima speranza.
Ma la gioia durò poco. La seconda bambinauna femminuccianon dava segni di vita. Battito a 60. Livello critico. Le restavano meno di un minuto.





