Per loro ero una vergogna, il figlio di pelle scura e mani ruvide che ricordava il fango da cui hanno lottato per uscire. Mio fratello, Riccardo, era il sole di casa: carnagione chiara, capelli lisci e un sorriso pronto che, secondo nostra madre Elena, apre ogni porta. Io ero lombra che gli stava dietro, il ricordo ostinato delle nostre radici povere.
Cambiammo casa, ma non vita. Mentre Riccardo veniva mandato a corsi di inglese e informatica a Milano, a me toccava restare a zappare il piccolo appezzamento che ci dava da mangiare. Sei bravo al campo, Matteo. Forte come un bue, mi diceva papà, cercando di farmi un complimento che finiva sempre per suonare come una condanna. Non ero brillante, né raffinato; ero solo muscolo e due braccia in più.
Mia madre era ancora più dura. Quando tornava dal campo, con i vestiti sporchi di terra e il sudore sulla fronte, stringeva le labbra. Guarda che aspetto, tutta sporca. Sembri un bracciante, non il figlio del padrone, sussurrava, assicurandosi che la sentissi. Vai a lavarti, non sporcare il pavimento che Riccardo ha appena pulito. Riccardo non puliva mai; leggeva libri sul divano, mentre io sentivo lacqua fredda scorrere sulla schiena, lavandomi la terra e lumiliazione.
Lunico che mi guardò negli occhi fu lo zio Roberto, fratello di papà. Era il capro espiatorio della famiglia, un falegname che madre definiva un tipo che non vuole progredire. Un pomeriggio, mentre riparavo una staccionata sotto il sole, lo zio si sedette accanto a me.
Sai perché tua madre preferisce tuo fratello? mi chiese senza giri di parole.
Scossi la testa, la gola stretta.
Perché gli somiglia alluomo con cui avrebbe voluto sposarsi. Tu invece ti assomigli a noi, a chi odora di lavoro e non di profumo costoso. Ma non lasciare che questo ti avveleni, nipote. Il valore di un uomo non sta nei titoli, ma in ciò che costruisce con le proprie mani. Stringette la mia mano, ruvida come la sua.
Il colpo definitivo arrivò il giorno del mio diciottoesimo compleanno. I genitori ci fecero sedere a tavola. Riccardo era appena stato accettato in ununiversità privata di Roma. Mamma piangeva di orgoglio.
Riccardo è il futuro di questa famiglia, Matteo disse papà, senza guardarmi. Lui pensa, non solo suda. Per questo abbiamo deciso di mettere le terre a suo nome, così avrà il capitale per aprire unattività quando finirà gli studi.
Mi sembrò di sentire il suolo svuotarsi sotto i piedi. Quelle terre che avevo coltivato fin da bambino, lunico posto dove il mio sudore valeva qualcosa, venivano strapelate per alimentare i sogni del fratello.
E io? chiesi con voce flebile.
Mia madre mi lanciò lo sguardo più gelido che avessi mai visto.
Hai già un mestiere. Ci sarà sempre chi avrà bisogno di un bracciante forte. Non essere ingrato, è per il bene della famiglia.
Quella notte non chiusi gli occhi. Prima dellalba impacchettai due camicie in una borsa e mi diressi a casa di zio Roberto. Non dissi addio. Per loro, me ne ero già andato da tempo. Lo zio mi accolse senza domande, mi offrì un tetto, un piatto di pasta e un posto nel suo laboratorio. Qui si comincia dal basso, spazzando la segatura mi disse. E io spazzai, con rabbia e dolore, finché le mani non sanguinarono. Imparai il mestiere, la nobiltà del legno, la precisione di un taglio netto. Col tempo la bottega di Roberto crebbe. Non ero più solo lapprendista, diventai suo socio. Fondammo una piccola ditta di costruzioni: prima ristrutturazioni, poi case modeste e infine progetti immobiliari più grandi. Roberto era il cuore, io il motore.
Nel frattempo le notizie di casa arrivavano come echi lontani. Riccardo si laureò con lode, ma il suo business non decollò mai. Spese i soldi della vendita di una parte delle terre in auto di lusso e viaggi. Ippotecò il resto per un progetto truffaldino. Viveva di apparenze, indossando debiti fino al collo. I genitori, ormai anziani, mantenevano la farsa, vendendo lidea di un figlio di successo in crisi.
Zio Roberto è morto due anni fa. Mi ha lasciato tutto, dopo avermi fatto promettere di non dimenticare mai da dove venivo. La sua scomparsa ha lasciato un vuoto enorme, ma anche una fortuna che avevo contribuito a costruire.
Un mese fa ho ricevuto una chiamata. Era papà. La sua voce, prima autoritaria, ora tremava. La banca minacciava di pignorare la casa e le poche terre rimaste. Riccardo era sparito, lasciando un debito che non si poteva pagare.
Matteo, figlio balbettò. Abbiamo bisogno di aiuto. Sei la nostra ultima speranza.
Ieri ci siamo ritrovati al vecchio tavolo della cucina, quello dove mi avevano condannato. Mamma non alzava lo sguardo dal tovagliolo stracciato. Papà sembrava un vecchietto di cento anni. Riccardo non era lì. Un codardo.
So che non abbiamo il diritto di chiederti nulla mormorò mamma, le lacrime scivolando sulle guance rugose. Sono stata una cattiva madre per te. Lorgoglio mi ha accecoda, ma questa è la casa tua, Matteo. La terra di nostro nonno.
La fissai, per la prima volta non più come la donna che mi disprezzava, ma come una sconosciuta sconfitta. Ricordai le sue parole fredde, il disprezzo, la solitudine dellinfanzia. Mi alzai, andai alla finestra e guardai la terra che un tempo era il mio mondo.
Pago il debito dissi finalmente. Un sospiro di sollievo riempì la stanza. Mamma iniziò a singhiozzare un grazie, figlio, grazie.
La interruppi, voltandomi verso tutti e parlando con decisione.
Pagherò il debito e prenderò possesso di tutto. Ma non sbagliate idea. Questa terra non serve a salvarvi. Serve a onorare la memoria dellunico uomo che mi ha visto come figlio, non come asino da soma.
Comprai la terra che mi avevano negato, non per tornare a casa, ma per assicurarmi che non avessero più un rifugio dove ritornare.