«Vi godete, mentre noi affondiamo nei debiti»: La mia pensione, la mia famiglia, le mie sofferenze

12 ottobre 2025

Oggi il pensiero di Giulia, la mia unica figlia, mi rimbomba nella testa come un tuono improvviso in una giornata di sole. Sono seduta sul divano del nostro piccolo appartamento a Rimini; la luce filtra dalle persiane e accarezza le foto di famiglia appese al muro. Paolo, mio marito, legge il giornale senza sospettare la tempesta che sta per abbattersi su di me. Stringo il cellulare, le dita mi tremano.

«Giulia, che vuoi dire?» sussurro, cercando di non far trasparire il nodo che mi stringe lo stomaco.

Dallaltro capo del filo sento solo il suo respiro affannoso. «Mamma, non ce la facciamo più. Le bollette salgono, le rette universitarie di Matteo sono un peso insostenibile, e Marco e io lavoriamo come matti, ma non è mai abbastanza. Tu tu sei sempre fuori, al centro benessere, pranzi fuori casa»

Il fiato mi manca. Guardando Paolo, che alza lo sguardo dal giornale e mi fissa con preoccupazione, mi chiedo: «Che cosa sta succedendo?»

Non rispondo subito. Dentro di me scoppia una lotta accesa tra il desiderio di aiutare la figlia e il bisogno, finalmente, di pensare anche a me stessa. Dopo quarantanni di turni in ospedale, notti insonni e finanze tirate al limite, ora che la pensione ci permette qualche piccolo lusso, è giusto rinunciare a tutto?

«Giulia, sai che se possiamo sostenerti lo faremo», ribatte la voce al telefono, ma la sua tonalità si incrina: «Mamma, non è solo questione di soldi! Mi sento sola, ho bisogno di te, di più tempo, più presenza e sembra che tu

ti allontani sempre di più.»

Resto in silenzio, sento il peso delle sue parole schiacciare il petto. Paolo mi prende la mano, cerca i miei occhi. «Dille che domani andiamo a trovarla», mi sussurra.

Annuisco lentamente. «Giulia, domani verremo a pranzo da te. Parleremo con calma.»

Un sospiro di sollievo le sfugge. «Va bene. Grazie.»

Rimetto via il ricevitore e il vuoto mi avvolge. Paolo mi stringe forte. «È ingiusto», mormora allorecchio, «abbiamo dato tutto. Ora non possiamo nemmeno goderci un po di vita?»

Mi allontano un passo, incontro i suoi occhi azzurri costellati di lentiggini. «Forse abbiamo sbagliato qualcosa»

Scuote la testa. «Abbiamo solo fatto il nostro dovere.»

Quella notte non riesco a dormire. Rivivo i ricordi dellinfanzia di Giulia: corse nel parco, compiti fatti insieme al tavolo della cucina, risate durante le vacanze, pochi soldi ma tanta felicità. Quando ho cominciato a sentire che non ero più abbastanza per lei? Quando ho smesso di essere il suo rifugio?

Il giorno dopo arriviamo a casa sua con una torta fatta in casa e un sorriso forzato. Giulia ci accoglie in lacrime, Marco stringe le nostre mani in silenzio. Matteo corre verso di noi: «Nonna, nonno!»

Il pranzo è teso. Marco parla poco, Giulia tenta di essere cortese ma lancia sguardi di rimprovero ogni tanto.

A un certo punto Marco esplode: «Non vogliamo i vostri soldi, ma un po di comprensione! Sembra che tutto il peso sia sulle nostre spalle.»

Paolo resta immobile: «Siamo sempre stati qui! Ma ora dobbiamo pensare anche a noi.»

Giulia ribatte: «Allora perché, quando chiediamo aiuto, sembra un peso per voi? Non capite che siamo esausti?»

Una marea di emozioni mi travolge. Vorrei urlare che anchio sono stanca, che merito un po di tregua dopo una vita di sacrifici. Ma vedo la disperazione negli occhi di mia figlia e il cuore mi si spezza.

«Forse è sembrato che non ci importi più», sussurro. «Ma non è vero. È solo che desideriamo solo un attimo di respiro.»

Il pranzo finisce in silenzio. Torniamo a casa con il senso di sconfitta.

Nei giorni seguenti Paolo si chiude in sé. Non parla più dei nostri viaggi, delle cene fuori. Io trascorro le giornate a pensare a come aiutare Giulia senza annullare del tutto me stessa.

Una sera mi chiama Lucia, la sorella che vive a Bologna. «Ho sentito Giulia, dice che siete in crisi», mi dice senza mezzi termini.

«Non so cosa fare», confesso, le lacrime mi scorrono sul viso. «Mi sento egoista a pensare a me, ma se rinuncio a tutto per loro, mi sembra di morire.»

Lucia sospira: «In Italia è così. I genitori devono essere sempre disponibili, anche quando sono esausti. Ma chi pensa a voi?»

Resto in silenzio.

«Parlate con Paolo», continua Lucia. «E soprattutto, trattate Giulia come una figlia, non come un bancomat.»

Quelle parole rimangono con me.

Il giorno dopo invito Giulia a prendere un caffè al bar sotto casa. Arriva, occhi stanchi, voce rauca. «Mamma, scusa per ieri», dice subito.

Le prendo la mano: «Giulia, ti amo più della vita stessa. Ma anchio sono una persona. Ho bisogno di sentirmi viva, non solo utile.»

Lei abbassa lo sguardo: «Lo so a volte tutto è troppo.»

«Capisco», le rispondo dolcemente. «Dobbiamo trovare un equilibrio. Non sarò sempre la soluzione a tutti i tuoi problemi, ma sarò al tuo fianco come madre.»

Parliamo a lungo, tra lacrime e sorrisi appena accennati.

Ritornando a casa sento il peso sul petto alleggerirsi, ma resta il dubbio che mi tormenta: dove finisce lobbligo genitoriale e dove inizia il diritto alla felicità?

A volte mi chiedo se sia davvero egoista desiderare un po di pace dopo una vita di lei? O è solo la paura di perdere lunicità che ci ha contraddistinto?

Mi chiedo se la pensione debba appartenere solo ai genitori o a tutta la famiglia.

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