LA CASA SULL’ALBERO
Il vecchio noce era storto, ma resisteva ancora nel cortile della scuola rurale di Montalcino. Nessuno ricordava quando fosse stato piantato, ma tutti concordavano che era “più vecchio del preside”.
Marco, il custode, se ne prendeva cura come fosse un nonno di legno. Ogni autunno raccoglieva con pazienza le foglie e, in primavera, controllava che i rami non avessero chiodi arrugginiti di vecchie altalene o assi dimenticate.
“Questo albero ha visto più ricreazioni di tutti noi messi insieme”, diceva spesso.
Un giorno, nella prima settimana di scuola, arrivò Beatrice, una bambina di nove anni appena trasferita in paese. Parlava poco e rimaneva sempre in un angolo del cortile, disegnando da sola sul suo quaderno. Marco se ne accorse.
“Non giochi con gli altri?” le chiese.
“Non mi conoscono,” rispose senza alzare lo sguardo. “E non so se voglio che mi conoscano.”
Marco non insistette, ma quella stessa sera si mise al lavoro. Usò assi vecchie, corde e strumenti presi in prestito. Ogni giorno, dopo che i bambini se ne andavano, saliva sul noce e aggiungeva un nuovo dettaglio: una ringhiera, una finestrella, una piccola panca.
Dopo una settimana, aveva costruito una casetta sull’albero, nascosta tra i rami più bassi.
Quando Beatrice arrivò una mattina, Marco la chiamò:
“Voglio mostrarti una cosa.”
Lei lo seguì con un po’ di diffidenza. Vedendo la porticina di legno incastonata tra i rami, rimase senza parole.
“È per te… se vuoi,” disse lui. “Qui puoi disegnare, leggere o semplicemente pensare. Nessuno salirà senza il tuo permesso.”
Beatrice entrò, posò il quaderno sulla panca e guardò dalla finestra rotonda. Da lì, il mondo sembrava diverso: più piccolo, più sicuro.
Poco a poco, iniziò a invitare altri bambini. Prima una compagna che le prestò un pastello, poi un bambino che le insegnò a fare aeroplanini di carta. La casetta sull’albero divenne un piccolo rifugio di amicizia.
Un giorno, un temporale colpì il paese con forza. I rami del noce si agitavano come volessero strapparsi. Marco, preoccupato, corse nel cortile per assicurarsi che la casetta resistesse.
Beatrice apparve bagnata fradicia.
“Sta bene?” chiese, quasi urlando nel vento.
“Credo di sì, ma è meglio non salire.”
Passata la tempesta, la casetta era ancora lì, anche se una parte del tetto si era rotta. Marco sospirò sollevato, ma prima che potesse ripararla, i bambini della scuola si organizzarono. Ognuno portò qualcosa: cartoni, stoffe, vernice, corde. Insieme, ricostruirono il rifugio.
Sulla parete, dipinsero una frase che Beatrice scrisse con mano ferma:
“Qui c’è sempre posto per uno in più.”
Con gli anni, la casetta sull’albero vide passare molte generazioni. Marco invecchiò, e Beatrice crebbe, partì per la città e diventò architetto.
Dieci anni dopo, tornò al paese per visitare la nonna. Passò dalla scuola e vide che il noce era ancora lì, con la casetta intatta, anche se un po’ più consumata.
Trovò Marco seduto su una panchina.
“Sapevo che saresti tornata,” disse sorridendo.
“Sono venuta a ringraziarti,” rispose lei. “Credo che qui sia stata la prima volta in cui mi sono sentita a casa.”
Marco la guardò con orgoglio.
“Non era la casetta, Beatrice. Eri tu. Avevi solo bisogno di un posto per ricordartelo.”
Quel giorno, Beatrice promise che, ovunque fosse andata, avrebbe sempre creato spazi in cui le persone potessero sentirsi al sicuro.
Perché la casetta sull’albero non era solo legno e chiodi: era la prova che, a volte, un piccolo gesto può cambiare un’intera vita.