A 65 anni ho capito che la cosa più terribile non è restare sola, ma implorare i figli per una telefonata, sapendo di essere un peso per loro

A 65 anni ho capito che la cosa peggiore non è restare sola, ma implorare i propri figli di chiamare, sapendo di essere un peso.

“Mamma, ciao, ho urgentemente bisogno del tuo aiuto.”

La voce di mio figlio al telefono sembrava rivolta a un fastidioso dipendente, non a sua madre.

Laura Bianchi rimase immobile con il telecomando in mano, senza accendere il telegiornale della sera.

“Marco, ciao. È successo qualcosa?”

“No, tutto bene,” sospirò impaziente. “Solo che io e Giulia abbiamo preso un’offerta last minute, partiamo domattina. E il Duca non possiamo lasciarlo da nessuno. Lo tieni tu?”

Il Duca. Un enorme alano bavoso che nel suo piccolo bilocale occupava più spazio di un vecchio mobile.

“Per quanto?” chiese cauta, già sapendo la risposta.

“Una settimana, massimo due. Come va. Mamma, su, chi se non te? Metterlo in un hotel per cani sarebbe una crudeltà. Sai quanto è sensibile.”

Laura guardò il suo divano, rivestito di tessuto chiaro nuovo. Aveva risparmiato per mesi, privandosi di piccoli piaceri. Il Duca lo avrebbe distrutto in due giorni.

“Marco, non è il momento migliore. Ho appena finito di ristrutturare.”

“Che ristrutturazione? Hai cambiato la carta da parati?” La sua voce era piena di irritazione. “Il Duca è educato, basta portarlo a passeggio. Dai, Giulia mi chiama, dobbiamo fare le valigie. Te lo porto tra unora.”

Il tono di chiamata interrotta.

Non le aveva neanche chiesto come stava. Né laveva felicitata per il suo compleanno, la settimana prima. Sessantacinque anni.

Aveva aspettato una chiamata tutto il giorno, preparato la sua insalata speciale, indossato un vestito nuovo. I figli avevano promesso di passare, ma non si erano fatti vivi.

Marco aveva mandato un messaggio: “Mamma, auguri! Sommersi di lavoro”. Elena non aveva scritto nulla.

E oggi, “urgentemente bisogno del tuo aiuto”.

Laura si sedette lentamente sul divano. Non era la questione del cane o del divano rovinato.

Era quella sensazione umiliante di essere solo una funzione. Una pensione gratuita, un servizio di emergenza, lultima spiaggia.

Ricordava quando, anni prima, sognava che i suoi figli diventassero indipendenti.

Ora capiva che la cosa più terribile non era la solitudine. Era aspettare una chiamata col cuore in gola, sapendo di contare solo quando serviva qualcosa.

Implorare attenzione, pagandola con la propria dignità.

Unora dopo, il campanello suonò. Sulla soglia cera Marco, con il guinzaglio del cane. Il Duca entrò di slancio, lasciando impronte di fango sul pavimento pulito.

“Mamma, ecco il cibo e i giochi. Tre passeggiate al giorno, lo ricordi? Dai, corriamo, sennò perdiamo laereo!” Le mise il guinzaglio in mano, un bacio frettoloso sulla guancia, e sparì.

Laura restò ferma nellingresso. Il Duca annusava già le gambe della poltrona.

Dal salotto arrivò il suono di stoffa che si strappava.

Guardò il telefono. Forse chiamare sua figlia? Elena avrebbe capito? Ma il dito rimase sospeso.

Elena non chiamava da un mese. Anche lei era occupata.

In quel momento, Laura non sentì la solita rabbia. Arrivò qualcosaltro. Freddo, lucido. Basta.

La mattina iniziò con il Duca che, per dimostrare affetto, saltò sul letto lasciando due impronte di fango sul copriletto bianco.

Il divano era già strappato in tre punti, e il suo ficus preferito, cresciuto per cinque anni, giaceva a terra con le foglie morsicate.

Laura si versò della valeriana e chiamò Marco. Rispose dopo diversi squilli.

Sullo sfondo, onde e risate.

“Mamma, che cè? Qui è fantastico, il mare è stupendo!”

“Marco, il cane. Sta distruggendo casa. Ha strappato il divano, non riesco a gestirlo.”

“Cioè? Non ha mai fatto danni. Forse lo chiudi? Ha bisogno di libertà. Mamma, non iniziare, dai. Siamo appena arrivati, vogliamo rilassarci. Portalo a passeggio più a lungo, si calmerà.”

“Lho già portato due ore! Tira così che quasi cado. Marco, riprenditelo, ti prego.”

Una pausa. Poi la voce di Marco si fece dura.

“Davvero? Siamo dallaltra parte del mondo. Come faccio? Hai accettato tu. Vuoi che torniamo per un capriccio? È egoismo, mamma.”

“Egoismo”. La parola la colpì come un pugno. Lei, che aveva vissuto per loro, era egoista.

“Non è un capriccio, io”

“Basta, mamma, Giulia ha i cocktail. Divertiti con il Duca. Un bacio.”

Di nuovo il tono di chiamata.

Le mani di Laura tremavano. Chiamò Elena.

“Elena, ciao.”

“Ciao, mamma. È urgente? Sono in riunione.”

“Sì. Marco mi ha lasciato il cane ed è partito. È ingestibile, distrugge tutto.”

Elena sospirò.

“Mamma, Marco te lha chiesto, no? Siamo una famiglia. Se ha rovinato il divano, ne compri un altro. Marco ti rimborserà. Forse.”

“Non è il divano! È il modo in cui mi tratta!”

“E come doveva chiedertelo? In ginocchio? Mamma, basta. Sei in pensione, hai tempo. Che male cè?”

Laura posò il telefono.

Famiglia. Una parola strana.

Per lei significava persone che si ricordano di te solo quando serve, e ti accusano di egoismo se non obbedisci.

Quella sera, la vicina bussò furiosa.

“Laura! Il tuo cane abbaia da tre ore! Chiamo la polizia!”

Il Duca, dietro di lei, abbaiò felice.

Laura chiuse la porta. Guardò il cane, il divano, il telefono. Dentro, una rabbia sorda.

Aveva sempre cercato di essere comprensiva. Ma le sue ragioni non interessavano a nessuno.

Prese il guinzaglio.

“Andiamo, Duca.”

Camminarono nel parco. Il cane tirava, ogni stratton

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