Una donna, spezzata dalla perdita del figlio, si era rifugiata nel posto più remoto possibile. Solo grazie al suo cane sentì di nuovo il richiamo del cuore: lui la guidò verso una bambina nascosta nel bosco.
Ginevra posò la lettera di dimissioni sulla scrivania del primario, il dottor Vittorio Romano. Lui si tolse gli occhiali, si strofinò la fronte e la guardò con una tristezza così profonda, quasi paterna, che per un attimo le venne voglia di ritirare tutto.
“Ginevra, ripensaci,” disse con dolcezza. “Magari prenditi solo una pausa? Sappiamo quanto vali.”
Lei scosse la testa.
“Non posso, dottor Romano non qui.”
Il senso di colpa la divorava: come madre, non aveva saputo proteggere suo figlio; come medico, salvarlo. Ogni pianto di bambino nei corridoi dellospedale le trafiggeva il cuore, ogni risata era un silenzioso rimprovero.
Vittorio era un uomo buono, un capo premuroso che sapeva sempre trovare le parole giuste. Ginevra laveva notato da tempo: a volte la guardava con un calore speciale, ma senza mai oltrepassare i limiti. In quel momento, però, i suoi occhi traboccavano di compassione, e questo la faceva sentire ancora peggio.
*Capite? Non esisto più. Quella Ginevra che conoscevate è morta insieme a Matteo.*
Dentro di sé cera solo un vuoto gelido. Avrebbe voluto rannicchiarsi e piangere fino a sfinirsi, ma si limitò a stringere i pugni, le unghie conficcate nei palmi.
“Io devo andare,” borbottò, uscendo di corsa dallufficio prima di scoppiare in lacrime davanti a lui, così umano eppure così distante.
Lunico pensiero che le martellava in testa era scappare. Andare dove nessuno la conosceva, dove non cerano sguardi di pietà o risate di bambini che le ricordavano la perdita. Vendette lappartamento per due soldi, al primo che si presentò, pur di farla finita.
Il treno avanzava lento verso una piccola stazione sperduta tra i boschi. Ginevra scese sul marciapiede di legno, stremata. Due anziane sedute su una panchina la osservarono con curiosità.
“Chi viene a trovare, cara? O si è persa?” chiese una, avvolta in uno scialle colorato.
Ginevra sorrise tristemente.
“Ho seppellito mio figlio. Voglio stare sola.”
Le due donne si scambiarono unocchiata, comprensione negli occhi.
“Un dolore grande, figlia mia. La casa di Lidia è vuotaè andata a vivere col figlio in città. È una bella casa, solida. Ma stare completamente sola può far impazzire. Non chiuderti troppo.”
Le diedero lindirizzo, e Ginevra, ringraziando, si incamminò lungo la strada polverosa verso quella che sarebbe stata la sua nuova “casa”, se così si poteva chiamare.
Lidia la accolse con diffidenza, ma quando seppe il motivo del suo arrivo, si ammorbidì.
“Resta pure. Non chiedo molto. Cè solo Tobia, il nostro gatto. Un po selvatico, ma buon cacciatore. Non maltrattarlo.”
La prima sera in quella casa, impregnata di erbe aromatiche e legno antico, sembrò infinita. Ogni scricchiolio del pavimento, ogni fruscio fuori dalla finestra riportavano alla mente Matteo. Lui avrebbe corso per le stanze, esplorato ogni angolo.
I giorni trascorsero lenti e monotoni. Ginevra puliva, dipingeva, lavavacercando disperatamente di tenere occupate mani e mente. Ma il dolore non se ne andava. La sera, seduta sulla veranda, raccontava a Matteo tutto ciò che aveva fatto, e le lacrime scendevano senza controllo. Lì, in quel posto dimenticato, nessuno la vedevae non le tratteneva più.
Una sera, quando la malinconia le strinse il cuore più del solito, Tobia le si avvicinò in silenzio. Rimase lì un attimo, poi le strofinò la zampa contro la gamba.
Ginevra rimase immobile, poi lo accarezzò. Il gatto fece le fusa, un suono semplice e vivo che le scatenò un nuovo pianto. Lo strinse a sé, nascondendo il viso nel suo pelo ruvido, e pianse finché non si addormentò sulla veranda, abbracciata allunica creatura che osava avvicinarsi.
Qualche settimana dopo, una vicina le portò un cuccioloun bastardino magro e curioso.
“Prendilo, Ginevra, altrimenti lo affogano. Ti farà compagnia e ti terrà al sicuro.”
Lo chiamarono Duca, per il modo altezzoso con cui camminava. Allinizio Tobia lo guardava con sospetto, soffiando e inarcando la schiena, ma presto si rassegnò. Ora dormivano insieme vicino alla stufa, e Ginevra, per la prima volta da mesi, sorrise guardandoli giocare.
I paesani scoprirono che nella casa di Lidia viveva unex dottoressa e iniziarono a bussare alla sua porta per farsi misurare la pressione o fare uniniezione. Ginevra cercava di rifiutare, dicendo di non esercitare più, ma di fronte ai loro sguardi fiduciosi non sapeva dire di no. Li aiutava come poteva, evitando però confidenze.
Ogni giorno andava nel bosco. Duca correva davanti abbaiando a ogni uccello, mentre Tobia, con sorpresa di tutti, li seguiva saltando agilmente sui tronchi caduti. Il bosco laccoglieva senza giudicarlo, senza chiederle nulla in cambio.
*Qui posso respirare,* pensava. *Posso piangere senza nascondermi. Posso essere me stessa.*
E piano piano, molto lentamente, il ghiaccio attorno al suo cuore iniziò a sciogliersi.
Una sera, uninquietudine strana la assalì. Qualcosa di invisibile ma insistente la spingeva verso il bosco più fitto.
“Non oggi,” provò a ignorarlo, ma Duca iniziò ad agitarsi, chiaramente condividendo la sua ansia.
Prese una giacca e una torcia e seguì il cane. Duca la guidò sicuro in un luogo dove non era mai stata prima. In un fosso buio, sotto le radici di un abete, cominciò ad abbaiare freneticamente.
Ginevra puntò la torcia e si bloccò: sul terreno umido giaceva una bambina, priva di sensi.
La raccolse tra le braccia e corse a casa. La piccola era gelida, il polso appena percettibile. Duca e Tobia, sentendo la gravità del momento, non la lasciarono un attimole annusavano i piedi, come per aiutare.
A casa, Ginevra si mise subito al lavoro: la strofinò con alcol, la avvolse in tutte le coperte possibili, le mise le borse dellacqua calda. Passarono due ore prima che la bambina si muovesse e aprisse gli occhiazzurri, pieni di paura.
“Dove sono?” sussurrò.
“Al sicuro,” rispose Ginevra. “Come ti chiami?”
“Sofia il mio papà è un dottore, lui mi salverà.”
Il cuore di Ginevra si strinse.
“Aspetta qui, devo chiamare aiuto,” disse, uscendo dalla stanza per nascondere le lacrime.
Poco dopo arrivò il maresciallo Costa, un uomo robusto sulla cinquantina con una vecchia Fiat scassata. Ascoltò il racconto di Ginevra e scosse la testa.
“Storia





