Dopo il funerale di mio marito, mio figlio mi disse: ‘Scendi’, ma non aveva idea di ciò che avevo già fatto

**Diario di una madre tradita**

Probabilmente non sopravviveresti a una frase del genere, a meno che non abbia già perso così tanto che non ti rimanga più nulla da strappare via. Prima che ti metti comodo, prenditi un momento per riflettere su questo. E mentre lo fai, dimmi da dove mi leggi e che ore sono.

Vediamo quanti cuori battono ancora stanotte. Ora, spegni le luci, accendi magari un ventilatore per un po di rumore di sottofondo, e iniziamo questa storia. Io rido.

Certo che rido. Penso che stia scherzando. Chi mai farebbe una cosa simile? Chi porta sua madre, appena uscita dal funerale del marito sei giorni prima, ai margini della città e le dice di scendere? Sto indossando un paio di vecchie pantofole.

Quelle di mio marito, Leo, per lesattezza. Le ho indossate in casa da quel giorno. Non mi calzano bene. Non mi sono mai calzate bene. Ma non riuscivo a mettere scarpe vere. Non ancora.

“Stai scherzando?”, gli chiedo. La mia voce è leggera, come se stessimo recitando. Come se facessimo ancora finta.

Allora mi guarda. E in quel momento lo capisco. Non batte ciglio, non trema. Mi porge solo la borsa come se fosse un sacchetto del take-away.

“La casa e la locanda sono mie ora”, dice. “Camilla sta già cambiando le serrature.”

Camilla, sua moglie, con quel sorriso di plastica tirata e quel tono dolce e condiscendente che trasforma ogni frase in una benedizione e un avvertimento insieme. Sbatto le palpebre, come se la strada potesse cambiare, come se allimprovviso sorridesse e dicesse che è stato un errore, un malinteso, uno scherzo di pessimo gusto. Ma non lo fa.

La mia portiera è già aperta. Le mie pantofole sfiorano la ghiaia. E prima che riesca a respirare, lauto fa retromarcia.

“È una follia”, dico. La mia voce non trema. È troppo calma per quello.

“Non puoi semplicemente Sono tua madre, Matteo.” Non risponde. Si limita a dire, voltandosi: “Capirai. Lo fai sempre.” E poi se ne va. Senza valigie. Senza telefono. Senza un piano. Solo una borsa, un cappotto e il rumore degli pneumatici sullasfalto bagnato che si allontana da me come fumo.

Non piango. Non subito. Rimango lì. Schiena dritta. Spina dorsale rigida. Il vento sa di sale e ruggine.

La nebbia mi avvolge, soffice ma pesante, come se volesse memorizzare la mia forma. Guardo i suoi fari posteriori scomparire. E con loro, quarantanni di una vita che ho contribuito a costruire.

Ma ecco cosa mio figlio non ha mai capito. Lui non mi ha lasciata sola. Mi ha liberata.

Pensava di buttarmi via. Quello che ha fatto davvero è stato aprirmi una porta che non sapevo esistesse. Perché non ha idea di cosa ho fatto prima che suo padre morisse.

Abbiamo seppellito Leo solo sei giorni prima. Del funerale ricordo poco, se non lerba che mi inghiottiva i talloni e Matteo che evitava il mio sguardo. Camilla gli si attaccava al braccio come ledera a un palo, soffocante.

Ricordo che si è avvicinata al prete, sussurrando abbastanza forte da farmi sentire: “Non è lucida. È il dolore. Non sta prendendo decisioni razionali.” In quel momento, ho pensato che volesse essere gentile. Pensavo che le sue intenzioni fossero buone.

Ma ora, in piedi nella nebbia, capisco cosera davvero quel momento. Era la prima mossa di un colpo di stato. Leo aveva affidato a Matteo i documenti della locanda.

“Non volevo appesantirlo”, mi dicevo. Aveva già abbastanza preoccupazioni. Volevo solo che Leo avesse dignità nelle ultime settimane. Ma da qualche parte tra i moduli medici e le chiamate allassicurazione, è scivolato qualcosaltro. Qualcosa con il mio nome. Qualcosa di falso.

Non sapevo ancora lintera portata della cosa. Ma ne sapevo abbastanza da sentire un fuoco gelido aprirsi nel petto. Non era solo un tradimento. Era un furto. Di tutto.

Mio marito. La mia casa. La mia voce.

La locanda che Leo e io avevamo costruito da zero, con le mani sporche di vernice e mobili di seconda mano. Il posto che era iniziato con due stanze, un fornelletto e un sacco di speranza. Matteo è sempre stato astuto. Troppo astuto. Da bambino trovava sempre le scappatoie. Ma quellastuzia è diventata velenosa quando si è unito a Camilla.

Quella donna sa trasformare la cortesia in unarma. Ho iniziato a camminare. Non sapevo dove, sapevo solo che non potevo restare ferma. Non in quella nebbia. Non con quelle pantofole. Le ginocchia mi dolevano. La bocca era secca. Ma ho camminato.

Passavo accanto a alberi grondanti, recinti coperti di muschio, fantasmi di tutto ciò che avevo lasciato andare per far crescere mio figlio forte. Al quarto chilometro, qualcosa si è posato su di me. Silenzioso, ma fermo. Loro pensano di aver vinto. Pensano che io sia debole. Sostituibile.

Ma si sono dimenticati di una cosa. Ho ancora il libro dei conti di Leo. Ho ancora la cassaforte. E soprattutto, il mio nome è ancora su quellatto. Non sono ancora morta.

La nebbia mi si appiccicava come sudore. Le gambe bruciavano. Il respiro era affannoso. Ma non mi sono fermata. Non perché non fossi stanca. Lo ero. Dio, lo ero. Ma se mi fermavo, avrei pensato. E se pensavo, mi sarei spezzata.

Passai sotto un cavo elettrico. Un corvo mi osservava dallalto, come se sapesse. Come se capisse.

Ricordai i bigliettini che mettevo nel panino di Matteo. “Sei coraggioso. Sei gentile. Ti voglio bene.” Gli tagliavo i panini a forma di dinosauro. Gli leggevo quattro libri ogni sera. Avevo persino imparato a intrecciargli i capelli come un guerriero. E ora ero spazzatura sul ciglio della strada.

Quel bambino che correva tra le mie braccia dopo un incubo non esisteva più. Sostituito da un uomo che poteva buttarmi via come i giornali del giorno prima. Non ricordo quanti chilometri ho percorso. Sei, forse di più. Ma quando vidi linsegna sbiadita del “Negozio di Dora”, le gambe quasi cedettero.

Dora gestiva quel negozio da quando ero adolescente. Una volta vendeva caramelle dure e giornali. Ora vendeva caffè alla lavanda e biscotti per cani a forma di papere. Aprii la porta. Il campanello suonò. Dora mi guardò dagli occhiali.

“Ginevra”, disse, la voce acuta di preoccupazione. “Hai una faccia terribile.”

“Mi sento terribile”, risposi, le labbra troppo fredde per sorridere. Non aspettò. Mi abbracciò prima che potessi protestare.

“Cosa diavolo è successo?” Guardai i miei piedi. “Ho camminato.”

“Da dove?”

“Dallincrocio.”

Si fermò, gli occhi spalancati. “Sono otto chilometri, Cristo santo!”

“Sei e qualcosa”, mormorai. Mi fece sedere, mi avvolse in una coperta e mi mise tra le mani una tazza di caffè bollente che profumava di salvezza.

“Dovè Matteo?” La mia g

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