PER LORO ERO LA VERGOGNA… OGGI SUPPLICANO PER LE MIE BRICIOLE

PER LORO IO ERO LA VERGOGNA… OGGI SUPPLICANO PER LE MIE BRICIOLE
Per loro io ero la vergogna, il figlio dalla pelle abbronzata e dalle mani inaspettate che ricordava il fango da cui si erano tanto sforzati di uscire. Mio fratello, Riccardo, era il sole di casa: pelle chiara, capelli lisci e un sorriso facile che, secondo mia madre, “apriva qualsiasi porta”. Io ero l’ombra che lo seguiva, il ricordo ostinato delle nostre umili origini.
Crescemmo nella stessa casa, ma in mondi diversi. Mentre Riccardo veniva mandato a corsi di inglese e informatica in città, a me toccava restare ad aiutare mio padre nel piccolo appezzamento che ci dava da vivere. “Tu sei bravo per la campagna, Matteo. Forte come un bue”, mi diceva mio padre, e anche se voleva sembrare un complimento, nella sua bocca suonava sempre come una condanna. Io non ero intelligente, non ero raffinato; io ero forza bruta, un paio di braccia in più.
Mia madre, Elena, era ancora più crudele. Quando tornavo dal campo, con i vestiti sporchi di terra e il sudore sulla fronte, lei storceva la bocca. “Guardati, tutto impiastrato di fango. Sembri un bracciante, non il figlio del padrone”, sussurrava, assicurandosi che la sentissi. “Vai a lavarti, che sporchi il pavimento che Riccardo ha appena lavato”. Riccardo non lavava mai nulla. Riccardo leggeva libri sul divano, mentre io sentivo l’acqua fredda sulla schiena, a sciacquare via la terra e l’umiliazione.
L’unico che mi guardava negli occhi era mio zio Roberto, il fratello di mio padre. Lui era la pecora nera, un falegname che non aveva mai voluto “far carriera”, secondo mia madre. Un giorno, mentre riparavo una recinzione sotto il sole, mio zio si sedette accanto a me.
“Sai perché tua madre preferisce tuo fratello?”, mi chiese senza mezzi termini.
Scossi la testa, con un nodo in gola.
“Perché lui assomiglia all’uomo con cui avrebbe voluto sposarsi. E tu tu assomigli a noi, a chi sa di lavoro e non di profumo costoso. Ma non lasciare che questo ti avveleni, nipote. Il valore di un uomo non sta nei titoli, ma in quello che costruisce con queste”. E mi strinse le mani, callose come le sue.
La frattura definitiva arrivò il giorno del mio diciottesimo compleanno. I miei genitori ci riunirono a tavola. Riccardo era stato appena accettato in un’università privata della capitale. Mia madre piangeva di orgoglio.
“Riccardo è il futuro di questa famiglia, Matteo”, disse mio padre, senza guardarmi. “Lui pensa, non solo suda. Per questo, abbiamo deciso che la terra sarà intestata a lui. Così, quando finirà gli studi, avrà un capitale per avviare un’attività”.
Sentii il terreno mancarmi sotto i piedi. La terra che avevo lavorato da bambino, l’unico posto dove il mio sudore aveva un senso, mi veniva strappata per finanziare i sogni di mio fratello.
“E io?”, chiesi con un filo di voce.
Mia madre mi lanciò lo sguardo più freddo che le avessi mai visto. “Tu hai già un mestiere. Ci sarà sempre bisogno di braccia forti. Non fare l’ingrato, questo è per il bene della famiglia”.
Quella notte non dormii. Prima dell’alba, misi due camicie in una borsa e andai da mio zio Roberto. Non dissi addio. Perché farlo? Per loro, me ne ero già andato da tempo. Mio zio mi accolse senza fare domande. Mi diede un tetto, un piatto di minestra e un posto nella sua falegnameria. “Qui si comincia dal basso, spazzando la segatura”, mi disse. E io spazzai. Spazzai con rabbia, con dolore, finché le mie mani non sanguinarono. Imparai il mestiere, la nobiltà del legno, la precisione di un taglio pulito.
Con gli anni, la bottega di mio zio crebbe. Non ero più solo il suo apprendista, ma il suo socio. Fondiamo una piccola impresa edile. Cominciammo con ristrutturazioni, poi case modeste, infine progetti più ambiziosi. Mio zio era il cuore, io il motore.
Nel frattempo, le notizie dalla mia famiglia arrivavano come echi lontani. Riccardo si laureò con lode, ma la sua “attività” non decollò mai. Sprecò i soldi della vendita di parte della terra in un’auto di lusso e viaggi. Ipotecò il resto per un investimento truffaldino. Viveva di ap

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