Era l’inverno del 1950 e il freddo penetrava nelle ossa. In una stanza buia, con pareti di mattoni e odore di umidità, una ragazza di appena diciassette anni ansimava…

Era l’inverno del 1950 e il freddo penetrava fino alle ossa. In una stanza buia, con pareti di mattoni e un odore di umidità, una ragazza di appena diciassette anni ansimava, aggrappata alle lenzuola mentre le contrazioni la scuotevano. Era sola, a parte la levatrice, una donna anziana con mani callose e un cuore abituato alla tragedia.
Quando finalmente un grido acuto di neonato spezzò il silenzio, la giovane Fiammetta sentì l’anima tornarle nel corpo.
«È una bambina bellissima», disse la levatrice, avvolgendola in una coperta e posandola sul petto di Fiammetta.
Fiammetta labbracciò goffamente, il corpo ancora tremante e macchiato di sangue, ma nei suoi occhi si accese la tenerezza di una madre per la prima volta. La guardò, certa che nulla e nessuno avrebbe potuto separarla da quella creatura.
Ma l’illusione durò solo qualche secondo.
La porta si aprì con un colpo secco, e la madre, donna Vittoria, entrò come un turbine. Vestita di nero anche se nessuno era morto e con unespressione di disgusto scolpita sul volto.
«Dammela!», ordinò, strappandole la bambina dalle braccia.
«No, mamma! Lasciamela!», gridò Fiammetta, cercando di alzarsi, ormai senza forze.
«Zitta!», la interruppe con una voce fredda come il ghiaccio. «È nata male. Ha quel… quel male dei mongoloidi. Non sopravviverà. Non vale la pena.»
La ragazza urlò, pianse, supplicò con disperazione. Ma sua madre non si fermò. Avvolse la neonata con più forza, uscì dalla stanza e sbatté la porta con un rumore che risuonò come un colpo al cuore di Fiammetta.
Quella notte, rimase con le braccia vuote, gridando un nome che non aveva mai potuto pronunciare.
Passarono gli anni. Nel paese tutti credevano che sua figlia fosse morta alla nascita. Così aveva voluto sua madre. Fiammetta, costretta al silenzio, imparò a vivere con un sorriso finto, mentre il cuore le marciva dentro.
Se ne andò di casa a venticinque anni, senza voltarsi. Non poteva perdonare. Non poteva dimenticare. Ma nemmeno guarire.
Gli anni continuarono a cadere come foglie secche. Fiammetta divenne maestra elementare, viveva sola, senza marito né figli. In fondo, sentiva che una parte di sé era ancora sepolta in quella stanza buia.
Fino a che, una primavera, tornò al paese. Sua madre era morta e con lei, forse, gli ultimi legami di quella catena che la tratteneva.
Camminava per la piazza principale, la stessa dove giocava da bambina. Lodore del pane appena sfornato si mescolava a quello dei fiori appassiti. Fiammetta stava per sedersi su una panchina quando la sentì: una risata infantile, limpida, cristallina, come un sussurro dal passato.
Si girò.
E allora la vide.
Una ragazzina di circa nove anni giocava con una bambola di pezza. Aveva le trecce scomposte, un vestito a fiori rattoppato ai bordi… e occhi a mandorla che brillavano con una dolcezza strana, una luce che scosse qualcosa di profondo in Fiammetta.
Il cuore le martellò nel petto.
Si avvicinò piano, con le gambe che tremavano.
«Ciao, piccola… come ti chiami?», chiese con la voce rotta.
La bambina la guardò, senza paura, curiosa.
«Mi chiamo Speranza», rispose sorridendo.
Fiammetta sentì il mondo fermarsi. Speranza. Era il nome che aveva pensato per sua figlia. Il nome che aveva inghiottito per anni.
Sentì le ginocchia cedere.
In quel momento, una donna anziana con un viso segnato e mani da fornaia si avvicinò alla bambina e le posò una mano sulla spalla.
«La conosce?», chiese a Fiammetta, cauta.
«Io… lho vista e mi è sembrata familiare», balbettò.
La donna abbassò lo sguardo, a disagio.
«Vive con me da quando era piccola. Una signora me la diede, mi disse che sua madre non la voleva, che dovevo nasconderla. Non ho mai saputo la vera storia…»
Fiammetta sentì lanima uscirle dalla bocca.
«Non è vero! Io lamavo! Me lhanno portata via!», gridò, senza più trattenersi.
La fornaia indietreggiò, sorpresa.
La bambina, invece, la fissò in silenzio. Fece un passo verso di lei.
«Tu sei la mia mamma?», chiese, senza drammi, con la brutalità semplice dei bambini.
Fiammetta cadde in ginocchio e scoppiò in lacrime.
«Sì, amore mio… sono la tua mamma. Perdonami per non averti cercato prima. Per non averti trovata.»
La bambina labbracciò senza dire nulla. Il suo corpicino era caldo, reale, suo.
Quel giorno, Fiammetta capì che la vita, a volte, dà una seconda possibilità. Non importava lo scandalo, gli sguardi della gente o gli anni perduti. Aveva ritrovato sua figlia.
E questa volta, nessuno glielavrebbe più portata via.

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