IL GUARDIANO DEL TRAMONTO

**IL GUARDIANO DEL TRAMONTO**
Mi chiamo Francesco, anche se qui in paese tutti mi chiamano don Francesco. Ho settantadue anni, e la mia vita, come quella di molti vecchi, è fatta di abitudini e ricordi. Vivo da solo, in una casetta di legno ai margini del bosco, in Toscana, dove la nebbia si infila tra le fessure e il vento fischia tra i pini come un antico lamento. Sono passati cinque anni da quando mia moglie, Beatrice, se nè andata in silenzio unalba dinverno. Da allora, il tempo è diventato più lento, più pesante, e le notti più fredde.
I miei figli sono partiti per luoghi lontani, inseguendo i loro sogni e doveri. Allinizio chiamavano ogni tanto, poi i messaggi si sono fatti sempre più rari, finché il silenzio è diventato definitivo. Non li biasimo; la vita va avanti senza guardare indietro, e si impara ad accettare le assenze come parte del paesaggio. Però, ci sono giorni in cui la solitudine è come un cappotto troppo pesante, che mi soffoca e mi grava sulle spalle.
La mia casa è semplice, di quelle che scricchiolano a ogni passo e conservano leco delle voci che un tempo la riempivano. Il giardino, che un tempo fioriva sotto le cure di Beatrice, ora è un terreno incolto, dove erbacce e fiori selvatici lottano per un po di sole. Mi piace sedermi sulla veranda al tramonto, con una tazza di caffè tra le mani, e osservare il bosco che si oscura piano piano. A volte, chiudo gli occhi e ascolto il canto degli uccelli, il sussurro del vento, il lontano abbaiare di un cane da qualche parte.
Fu in uno di quei pomeriggi, quando lodore della terra bagnata riempiva laria e il cielo si tingeva darancione, che vidi per la prima volta la volpe. Era magra, il pelo arruffato e le costole in vista, il muso sporco di fango. Frugava tra i sacchi della spazzatura che avevo lasciato vicino al cancello, muovendosi con cautela, come se temesse di essere scoperta. Rimmasi immobile, a osservarla da lontano, senza fare rumore. Non provai paura né rabbia, solo una strana curiosità.
Non la scacciai. Anzi, quella sera, mentre preparavo la cena, misi da parte un pezzo di pane e un po di carne avanzata e li posai ai margini del giardino, dove lavevo vista. Andai a letto chiedendomi se sarebbe tornata. E tornò. Il giorno dopo, e quello dopo ancora, e ancora. Ogni sera, quando il sole calava e il freddo cominciava a insinuarsi dentro, la volpe appariva in silenzio, si sedeva a pochi passi dalla casa e aspettava il suo pasto.
Allinizio non ci parlavamoovvio, le volpi non parlano, e io non avevo molto da dire. Ma col tempo cominciai a raccontarle cose semplici: del tempo, dei sogni della notte prima, dei dolori che mi tormentavano. Lei mi ascoltava in silenzio, con quegli occhi gialli, profondi, che non giudicano né chiedono. Mangiava piano, senza distogliere lo sguardo, e poi spariva nel buio, come unombra.
Nacque così il nostro rituale. Ogni sera, posando il cibo sullerba, le parlavo come si fa con un vecchio amico. Scoprii che la sua presenza mi faceva bene. Non mi sentivo più così solo; cera qualcuno che aspettava il mio gesto, qualcuno con cui condividere quel momento di compagnia. Cominciai a uscire più spesso in giardino, a curarlo un po, a raccogliere rami secchi e foglie cadute. Sentivo che, in qualche modo, io e la volpe avevamo bisogno luno dellaltra.
Una notte, linverno arrivò con violenza. Il vento urlava e la pioggia batteva sul tetto come se volesse strapparlo via. Usc

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