Un mattino ci trovammo su una polverosa strada che si allontanava dal paese. In una mano stringevo la piccola manina di Sonia, nell’altra una valigia leggera, piena non tanto di vestiti quanto di speranze tradite.

L’alba ci sorprese su una strada polverosa, lontano dal paese. In una mano stringevo quella minuscola di Sonia, nell’altra una valigia leggera, piena più di speranze tradite che di vestiti. L’autobus, sussultando, si allontanava dalla fermata, portandoci via da quel luogo dove, poche ore prima, credevo ancora in qualcosa. Partivo senza nemmeno salutare Marco. Lui in quel momento era a pescare, all’alba di cui mi aveva parlato con tanto entusiasmo la sera prima. E mentre guardavo attraverso il finestrino sporco i campi che fuggivano all’indietro, capii una verità semplice e amara: non avevo mai incontrato un uomo per il cui amore valesse la pena lottare. Eppure tutto era cominciato così bene, così accecantemente romantico da togliere il fiato.

Marco era letteralmente irrotto nella mia vita mentre finiva l’università. Non mi dava tregua, mi sommergeva di complimenti, mi guardava con occhi innamorati in cui si scioglievano tutti i miei dubbi. Ripeteva che mi amava, che non poteva vivere senza di me e senza mia figlia Sonia, di quattro anni. La sua insistenza, la sincerità giovanile e la passione sciolsero il ghiaccio del mio cuore, ancora fragile dopo la perdita del mio primo marito. E dopo soli tre mesi iniziammo a vivere insieme nel mio appartamento. Era pieno di progetti e promesse.

“Alice, tesoro,” mi diceva con occhi che brillavano come due laghi senza fondo, “tra un mese avrò la laurea, e subito andremo nel mio paese. Ti presenterò ai miei genitori, a tutta la famiglia! Dirò loro che sei la mia futura moglie! Sei d’accordo?” Mi abbracciava, e il mondo sembrava così semplice e chiaro.
“D’accordo,” rispondevo, mentre nel cuore si accendeva una timida speranza. Parlava spesso di sua madre, una donna buona e ospitale, che amava gli ospiti e sapeva creare calore. Io gli credevo. Volevo così tanto credergli.

Il paese dove Marco era nato ci accolse con il sole calmo della sera. Tutti i parenti vivevano vicini, quasi gomito a gomito. Allora non sapevo che poco distante abitava la bellissima Irina, innamorata di Marco fin dall’infanzia, orgoglio del paese e quella che tutti consideravano la sua sposa perfetta. Non sapevo nemmeno del nonno Tiziano, padre del padre di Marco, che viveva in una vecchia casa e spesso andava dal figlio per farsi il bagno, dato che la sua stufa era ormai cadente. Il nonno Tiziano passava i suoi giorni in pace, spesso fissando la collina fuori dal paese, dove sua moglie riposava sotto una betulla. Sapeva che quel giorno aspettavano ospiti: suo nipote portava la futura moglie.

La sera prima, il nonno Tiziano era andato dal figlio e aveva trovato sua nuora, Gabriella, di malumore.
“Che c’è, di nuovo problemi con Sergio?” le aveva chiesto, pronto a rimproverare il figlio.
Ma Gabriella, vedendolo, aveva sfogato per prima la sua rabbia:
“Buongiorno, nonno. Sai che Marco si vuole sposare? Domani porta qui la sua prescelta.”
“Lo so, Sergio me l’ha detto. E va bene, è ora che il ragazzo si sistemi. Ha finito gli studi, ha un lavoro. Che si faccia una famiglia prima che il vento lo porti via,” aveva detto filosoficamente il nonno.
“Sì, certo,” sbuffò Gabriella, il volto contratto dal rancore. “Ma la prescelta… è più grande di lui di tre anni! E ha una bambina di quattro anni! Come se non ci fossero abbastanza ragazze del paese! La nostra Irina, per esempio, è bellissima, infermiera, lavoratrice… E questa chi è? Non si sa di chi è la bambina, che famiglia ha. Perché deve prendersi questo peso? Avrà i suoi figli! Certo, lei sarà felice di essersi aggrappata a un ragazzo con la laurea…”
“Gabriella, non è giusto intromettersi nella vita dei figli,” provò a dire il nonno Tiziano, ma lei ormai non lo ascoltava più.

Bolliva di rabbia da giorni, covando in cuore risentimento verso il figlio e verso quell’estranea che aveva osato portarglielo via. E aveva deciso il suo piano silenzioso e velenoso: non si sarebbe sforzata, non avrebbe preparato una tavola imbandita, non avrebbe fatto brillare sorrisi. Che quella cittadina capisse subito che non era né attesa né voluta. Aveva preso Marcoe bastava così.

Arrivammo la sera, stanchi ma ancora pieni di speranza. Marco splendeva di felicità. Era un anno che non tornava a casa, gli mancavano i genitori, il nonno, quei luoghi. La porta si aprì, e sua madre ci accolse. Lui entrò per primo, posò la valigia, mentre io e Sonia restammo sulla soglia, aspettando un invito.
“Figlio mio, Marco, tesoro!” Gabriella lo abbracciò come se temesse di lasciarlo andare, e il suo sguardo, scivolato su di me e la bambina, era freddo e giudicante. “Finalmente a casa! Ora abbiamo un laureato in famiglia!” Sottolineò la parola “tuoi,” guardandomi come per dire: “non come certa gente.”
“Mamma, dov’è papà? E nonno Tiziano?”
“Sono alla stufa. Torneranno presto. Ti aspettavano da tanto,” ripeté ancora, solo “te.”

Poi il suo sguardo cadde su di me, e disse con voce dolce ma piena di veleno:
“E questa sarebbe… Alice? Con la bambina?” Mi scrutò dalla testa ai piedi, lentamente, con disprezzo.
“Be’, entrate, lavatevi le mani. Marco, mostra loro dov’è tutto.”

Fin dalle prime parole capii tutto. Marco, invece, sembrava non sentire né il tono né lo sguardo. Sorridente e felice, mi prese per mano e mi portò a vedere la casa. Intanto tornarono il padre e il nonno. Sergio, marito di Gabriella, era un uomo diretto e schietto, mentre il nonno Tiziano aveva occhi dolci e caldi. Ci abbracciarono tutti e tre con un entusiasmo che non poteva essere finto.

“Avanti, ragazzi, benvenuti!” esclamò Sergio. “Gabriella, apparecchia la tavola, cosa aspettiamo? Gli ospiti sono stanchi e affamati! E anche noi col nonno, dopo un bicchiere, abbiamo bisogno di rimetterci in forze!”

La tavola era apparecchiata con estrema semplicità. Notai Marco alzare un attimo le sopracciglialui sapeva bene cosa sapeva fare sua madre. Io mangiai quasi nulla: un nodo amaro di rancore e cattivi presentimenti mi bloccava la gola. Dentro di me cresceva la delusione verso Marco: perché non mi aveva presentata come la sua futura moglie? Perché permetteva che mi trattassero con disprezzo?

Sergio versò il vino fatto in casa e stava per fare un brindisi, ma Gabriella lo anticipò:
“Beviamo a te, figlio mio! Alla laurea, al nuovo lavoro! Ti auguriamo il meglio, siamo orgogliosi di te!”

Bevvero ancora e ancora. E ogni brindisi era solo per Marco. Come se io e Sonia non esistessimo. E lui… lui splendeva, rideva, parlava con il padre e il nonno, e taceva. Non disse una parola per noi, non provò a cambiare discorso, non mi chiamò la sua amata. Non lo riconoscevo. Dentro di me cercavo di giustificarlo: “Mancava la sua famiglia, si è rilassato. Ma mi ama davvero…”

Solo il nonno Tiziano ogni tanto ci lanciava sguardi dolci e comprensivi, e poi occhiate taglienti verso Gabriella. Lui vede

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Un mattino ci trovammo su una polverosa strada che si allontanava dal paese. In una mano stringevo la piccola manina di Sonia, nell’altra una valigia leggera, piena non tanto di vestiti quanto di speranze tradite.