Ragazzo Nero Povero Viene Bullizzato Per Le Scarpe Rotte — Quello Che La Sua Insegnante Scopre Su Di Lui Lascia La Classe Senza Parole

La prima campana non ha ancora suonato quando Matteo Rossi entra a testa bassa nella scuola media Leonardo da Vinci, sperando che nessuno lo noti. Ma i ragazzi lo vedono sempre.

“Guardate le scarpe di Matteo!” grida qualcuno, e la classe scoppia a ridere. Le sue scarpe sono sfilacciate ai lati, la suola sinistra penzola come unala. Matteo sente il viso ardere, ma continua a camminare, gli occhi fissi sul pavimento. Sa bene che è inutile rispondere.

Non è la prima volta. La madre di Matteo, Francesca, fa due lavori per pagare le bollette: serve ai tavoli di un ristorante di giorno e pulisce uffici di notte. Suo padre è sparito anni fa. Con ogni scatto di crescita, i piedi di Matteo superano i pochi soldi che sua madre riesce a mettere da parte. Le scarpe sono un lusso che non possono permettersi.

Ma oggi fa ancora più male. È il giorno delle foto di classe. I suoi compagni indossano giubbetti firmati, scarpe nuove e camicie stirate. Matteo ha jeans rattenpati, una felpa sbiadita e quelle scarpe che svelano il segreto che cerca di nascondere: è povero.

Durante lora di ginnastica, le prese si fanno più pesanti. Mentre i ragazzi si schierano per giocare a pallacanestro, uno calpesta appena la suola di Matteo, strappandola ancora di più. Lui inciampa, e le risate ricominciano.

“Non può permettersi le scarpe e crede di saper fare canestro,” dice un altro con un ghigno.

Matteo stringe i pugni, non per linsulto, ma per il ricordo di sua sorella, Ginevra, a casa senza stivali per linverno. Ogni euro va per il cibo e laffitto. Vorrebbe urlare: “Non sapete niente della mia vita!” Ma ingoia le parole.

A pranzo, Matteo siede da solo, allungando il suo panino con la Nutella, mentre i compagni divorano piatti di pasta e patatine. Si tira le maniche della felpa per nascondere gli orli consumati, piega il piede per coprire la suola che penzola.

Alla cattedra, la professoressa Elena Bianchi lo osserva attentamente. Ha visto tanti casi di bullismo, ma qualcosa in Matteospalle curve, occhi spenti, un peso troppo grande per la sua etàla colpisce.

Quel pomeriggio, dopo lultima campanella, gli chiede con delicatezza: “Matteo, da quanto hai quelle scarpe?”

Lui si blocca, poi sussurra: “Da un po.”

Non è una risposta completa. Ma negli occhi di Matteo, la professoressa Bianchi vede una storia più grande di un paio di scarpe.

Quella notte, la professoressa non riesce a dormire. Lumiliazione silenziosa di Matteo la tormenta. Controlla i suoi voti: sono buoni, la frequenza è quasi perfettararo per chi vive in situazioni difficili. Le note dellinfermeria la colpiscono: stanchezza frequente, vestiti consumati, rifiuta la colazione del mattino.

Il giorno dopo, chiede a Matteo di fermarsi dopo le lezioni. Lui è diffidente, ma nella sua voce non cè giudizio.

“È difficile a casa?” gli chiede piano.

Matteo si morde il labbro. Alla fine, annuisce. “Mamma lavora tutto il giorno. Papà non cè più. Mi occupo di Ginevra. Ha sette anni. A volte faccio in modo che lei mangi prima di me.”

Quelle parole trafiggono la professoressa Bianchi. Un ragazzo di dodici anni con le responsabilità di un adulto.

Quella sera, con linfermiera scolastica, si reca nel quartiere di Matteo. Il palazzo ha la pelle scrostata e le ringhiere rotte. Dentro, lappartamento dei Rossi è pulito ma spoglio: una lampada tremolante, un divano sottile, un frigorifero quasi vuoto. La madre di Matteo li accoglie con occhi stanchi, ancora nella sua uniforme da cameriera.

In un angolo, la professoressa nota la “postazione di studio” di Matteosolo una sedia, un quaderno e, attaccato al muro, un volantino su borse di studio. Una frase è circondata da una penna: “Opportunità per merito.”

In quel momento, capisce. Matteo non è solo povero. È determinato.

Il giorno dopo, va dalla preside. Insieme organizzano aiuti discreti: pasti gratuiti, buoni per abiti e una donazione da unassociazione locale per delle scarpe nuove. Ma la professoressa vuole fare di più.

Vuole che i suoi compagni vedano Matteonon come il ragazzo con le scarpe rotte, ma come un ragazzo che porta una storia più pesante di quanto possano immaginare.

Lunedì mattina, la professoressa Bianchi si mette davanti alla classe. “Iniziamo un nuovo progetto,” annuncia. “Ognuno di voi condividerà la sua vera storianon quello che si vede, ma quello che cè dietro.”

Ci sono mugugni. Ma quando tocca a Matteo, cade il silenzio.

Lui si alza, nervoso, la voce bassa. “So che alcuni ridono delle mie scarpe. Sono vecchie. Ma le indosso perché mia mamma non può permettersene di nuove ora. Lavora due lavori perché io e mia sorella possiamo mangiare.”

La classe si irriga.

“Mi occupo di Ginevra dopo scuola. Faccio in modo che faccia i compiti, che mangi. A volte salto i pasti, ma va bene se lei è felice. Studio tanto perché voglio una borsa di studio. Voglio un lavoro che paghi abbastanza così che mia mamma non debba più lavorare due turni. E così Ginevra non dovrà mai indossare scarpe rotte come le mie.”

Nessuno si muove. Nessuno ride. Il ragazzo che lo premeva in giro distoglie lo sguardo, il volto segnato dalla colpa.

Alla fine, una ragazza sussurra: “Matteo non lo sapevo. Mi dispiace.” Un altro mormora: “Anche a me.”

Quel pomeriggio, gli stessi ragazzi che lo prende

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