Decidemmo di andare a trovare i miei genitori quasi sei mesi dopo il matrimonio. Sapevo che sarebbe stata una prova, ma non immaginavo quanto dura. Appena varcammo la soglia, mia madre ci accolse con uno sguardo gelido e parole che mi ghiacciarono il sangue: “Qui si lavora, non si fa festa”. Nella sua voce c’era una minaccia, come se non fossimo arrivati nella casa natale, ma in un campo di lavoro.
La mia Adele, con le sue mani delicate e la grazia cittadina, dun tratto sembrò fragile come un fiore nellerba. Vidi come strinse forte la mia mano quando mia madre le ordinò di pulire il pesce. “Marco, è tua moglie, non una serva!” avrei voluto urlare, ma tacqui. Tacqui perché sapevo che ogni mia protesta avrebbe scatenato ancora più fiamme.
Quei giorni passati in campagna divennero un incubo. Adele lavorava fino a tardi, le dita le tremavano per il freddo mentre lavava i piatti con lacqua del pozzo. La vedevo mordersi il labbro per non piangere ogni volta che mia madre la accusava di pigrizia. “Non sarai mai degna di mio figlio!” risuonava nella mia testa come una maledizione. E io restavo in disparte, incatenato da catene invisibili alla terra dove ero cresciuto.
Le nostre cene erano di patate bollite e pesce, preparati da Adele, ma mia madre non si sedeva mai con noi. Osservava dallangolo, come unombra, aspettando un errore. E quando finalmente ci coricavamo, sentivo Adele piangere nel cuscino. “Mi dispiace mi dispiace per tutto” sussurravo, ma le parole svanivano nel buio.
Tornati a casa, decisi di dire a mia madre: “Non offenderai mai più mia