Mamma che cresce il suo bambino con amore mentre il marito non lo accetta.

Ogni mattina mi sveglio al dolce pianto di Sofia. È così piccola, così perfetta. Le sue ditina si stringono al mio dito quando la prendo in braccio, e il mondo sembra ritrovare un senso.

«Buongiorno, amore mio», le sussurro sollevandola dalla culla. «Hai dormito bene?»

Dalla cucina sento i passi pesanti di Marco. È sempre stato un uomo di poche parole, ma da quando è nata Sofia è diventato ancora più distante.

«Parli di nuovo da sola?» dice sulla soglia, con quello sguardo che non riesco a decifrare.

«Non parlo da sola, parlo a Sofia.»

Lui sospira e si passa una mano tra i capelli.

«Giulia, dobbiamo parlare.»

«Dopo», rispondo, cullandola dolcemente. «Prima devo darle da mangiare.»

Lo vedo allontanarsi, e per un attimo sento un dolore al cuore. So che Marco sta affrontando qualcosa di difficile, ma Sofia ha bisogno di me. È così fragile, così dipendente.

Durante il giorno, mentre lui è al lavoro, io e Sofia abbiamo la nostra routine. Le canto ninne nanne, la lavo con cura, le leggo storie. Lei mi ascolta con quegli occhioni luminosi che sembrano capire ogni parola.

«Il tuo papà ti amerà», le dico cambiandole il pannolino. «Ha solo bisogno di tempo.»

Quando Marco torna la sera, trovo sempre una scusa per portarla in unaltra stanza. Lui non la guarda, non chiede di lei. A volte lo sento piangere in bagno e non capisco perché.

Una sera, dopo aver messo Sofia a dormire, trovo Marco sul divano con una foto tra le mani.

«Che cosè?» chiedo.

Lui alza lo sguardo, gli occhi gonfi.

«Ti ricordi di questo?»

È lecografia. La nostra prima ecografia, otto mesi fa. Ricordo quel giorno: lemozione, i progetti, i nomi che scegliemmo insieme.

«Certo che me lo ricordo», dico, sedendomi accanto a lui. «Era quando scoprimmo che sarebbe arrivata Sofia.»

Marco chiude gli occhi e le lacrime gli scendono sulle guance.

«Giulia Sofia non cè.»

«Di che parli? Sta dormendo nella sua stanza.»

«No, amore. Non cè una stanza per lei. Non cè una culla. Non cè Sofia.»

Mi alzo di scatto.

«Sei pazzo! Certo che cè! Lho appena messa a letto!»

Corro verso la camera, ma Marco mi segue. Quando apro la porta, lui accende la luce.

La stanza è vuota. Niente culla, niente pupazzetti appesi, niente vestitini che credevo di aver lavato quella mattina. Solo scatole impolverate e mobili vecchi.

«Sofia», sussurro.

«Abbiamo perso Sofia sei mesi fa, Giulia», dice Marco con la voce spezzata. «A 32 settimane. Non ricordi? Il cordone ombelicale i medici dissero che non potevano fare nulla.»

I ricordi tornano come frammenti di vetro: lospedale, i monitor spenti, le mie braccia vuote.

«Ma io la tengo in braccio ogni giorno la nutro mi sorride»

Marco mi abbraccia mentre crollo.

«Hai tenuto in braccio una coperta, amore. Parlavi a una coperta. Ti ho vista cullarla, cambiarle il “pannolino”. Ho aspettato che ricordassi, che tornassi da me.»

Guardo le mie braccia vuote e per la prima volta in mesi le sento davvero vuote. Il peso che credevo di sentire, i sussurri che credevo di udire, tutto svanisce come fumo.

«Sofia la mia Sofia»

«So che fa male», sussurra Marco. «Fa male anche a me, ogni giorno. Ma dobbiamo andare avanti insieme, senza di lei, ma insieme.»

Quella notte piango per la prima volta dal funerale che non ricordavo. Piango per la mia bambina che non è mai tornata a casa, per mio marito che mi ha visto perdermi in un sogno e ha aspettato paziente che tornassi, per tutti quei mesi rubati al vero dolore.

Ma piango anche di sollievo, perché finalmente posso iniziare a guarire.

E Marco è qui, ad aspettarmi, come sempre.

*Oggi ho capito che il dolore non si supera fingendo. Va attraversato, anche se fa a pezzi il cuore.*

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