Mia madre e mia sorella mi vedevano solo come un bancomat non si sono mai davvero interessate a me.
Sono cresciuto in una famiglia che non aveva nulla di un vero focolare. Eravamo solo in tre: mia madre, mia sorella maggiore e io. Mio padre? Un fantasma del passato, un nome sul mio certificato di nascita. Non lho mai conosciuto, e ogni volta che provavo a parlarne, mia madre cambiava discorso, come se fosse un argomento proibito.
Così restavamo solo noi tre io, mia madre e mia sorella, Beatrice. Lei aveva cinque anni più di me, ma in realtà mi sentivo sempre come se i ruoli fossero invertiti: io ero quello maturo e responsabile, mentre lei era la principessa viziata di casa.
Mia madre ladorava. Beatrice aveva sempre i vestiti più belli, i regali più costosi, tutto quello che desiderava. Io? Mi toccava accontentarmi dei suoi vestiti vecchi, logori e spesso troppo grandi. Ricordo ancora quei maglioni con le maniche lunghe che mia madre ripiegava goffamente, dicendomi: “Ti andrà bene ancora un anno o due”.
Il cibo? Se Beatrice aveva fame, poteva servirsi quanto voleva. Se io osavo chiedere un altro po, mi ricordavano con tono secco che mia madre già si sacrificava abbastanza per noi.
Compleanni? Natale? Per me non esistevano davvero. Niente regali, niente gesti daffetto. Solo i sospiri di mia madre, che mi ricordavano costantemente che ero un peso sulle sue spalle stanche.
Avevo capito una cosa: per lei non ero un figlio. Ero solo un fardello.
Il giorno in cui sono diventato il loro bancomat
A sedici anni, avevo già capito che nessuno mi avrebbe mai aiutato. Mia madre e Beatrice erano un duo indistruttibile, e io ero fuori.
Così ho iniziato a lavorare. Dopo scuola, nei weekend, ogni volta che potevo. Ho fatto di tutto: consegnavo giornali allalba, pulivo tavoli in un bar, scaricavo scatole al supermercato.
E, nonostante la fatica, ero orgoglioso. Per la prima volta, avevo soldi miei.
Ma per mia madre era unaltra storia.
“Allora, ora guadagni?” mi chiese una sera, con quel sorriso stranamente dolce.
Annuii, senza immaginare cosa sarebbe successo.
Si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla.
“È ora che contribuisci alle spese di casa.”
Per “casa”, intendeva lei e Beatrice.
Mia sorella non aveva nemmeno pensato di cercare lavoro. Perché avrebbe dovuto? Qualcuno era sempre stato lì per prendersi cura di lei prima mia madre, ora dovevo essere io.
Scappare era lunica opzione
Quando finii il liceo, capii che cera solo una soluzione: andarmene lontano.
Cera ununiversità nella nostra città, ma scelsi apposta una facoltà a centinaia di chilometri. Non era solo una questione di studio, era una questione di sopravvivenza.
Quando annunciai la mia partenza a mia madre, il suo sguardo si gelò.
“Ci abbandoni? Dopo tutto quello che ho fatto per te?”
Stavo per ridere.
Me ne andai e mi trasferii in un piccolo dormitorio universitario. Per la prima volta, assaporai la libertà. Continuai a lavorare questa volta come facchino in una stazione. Era estenuante, ma lo stipendio era buono. Finalmente potei comprarmi vestiti decenti, prendere un caffè senza sentirmi in colpa.
Mia madre e Beatrice? Non mi chiamarono mai.
Non chiesero mai come stessi, se avessi da mangiare, se ce la facessi.
Ma quando tornai per le feste, la prima cosa che mia madre disse non fu “Come stai?” o “Ci sei mancato.”
Mi guardò e sbottò:
“Sembra che tu abbia soldi adesso.”
Non era una domanda. Era unaccusa.
Da quel giorno, ogni mia visita si trasformò in una trattativa senza fine. Avevano bisogno di soldi. Beatrice voleva un telefono nuovo, vestiti nuovi. Non chiedevano pretendevano.
Quando dissi a mia sorella di trovarsi un lavoro, scoppiò a ridere.
“Io? Lavorare? Ma sei serio?”
Leredità che cambiò tutto
Dopo luniversità, trovai un lavoro stabile. Poi, un giorno, accadde linaspettato: la mia azienda mi offrì un appartamento di servizio.
Non era un lusso, ma era il mio spazio.
Quando mia madre e Beatrice lo scoprirono, andarono su tutte le furie.
“Hai un appartamento?! E non ci hai dato niente?!”
Provai a spiegare che era un benefit aziendale. Non vollero saperne.
Poi, il destino diede lultimo colpo.
Mio nonno il padre di mia madre morì.
Non eravamo molto vicini, ma era stato lunico in famiglia a trattarmi con rispetto.
Quando il notaio lesse il testamento, stentai a crederci.
Mi aveva lasciato la sua casa e i suoi terreni.
Quando mia madre e Beatrice lo scoprirono, diventarono isteriche.
“Non è giusto!” urlò Beatrice. “Ho un figlio! Ho bisogno di quella casa!”
Nel frattempo, si era sposata, aveva avuto un figlio e divorziato. E ora pretendeva che vendessi la mia eredità e le dessi i soldi.
Ma avevo già deciso.
Quando glielo dissi, esplosero.
Mia madre mi chiamò egoista.
Beatrice urlò, pianse, mi accusò di essere un fratello ingrato.
Le lasciai sfogare. Poi dissi, con calma:
“Venderò la casa. Ma userò i soldi per comprare un appartamento più grande. Perché sono sposato. E mia moglie aspetta un bambino.”
Silenzio totale.
Non si rallegrarono per me. Non si interessarono alla mia famiglia.
Lunica cosa che contava era che non avessero ottenuto quello che volevano.
Fu lultima volta che ci parlammo.
La famiglia che ho scelto
Vendetti la casa e comprai un appartamento più grande per la mia famiglia.
Mia madre e Beatrice?
Non hanno mai conosciuto mio figlio. Non hanno mai cercato di vederlo.
Ma sai una cosa?
Non mi mancano.
Per la prima volta, so cosa significa avere una vera famiglia.
E non permetterò mai che mio figlio passi quello che ho passato io.






