L’Ultima Possibilità

Era sera, e Beatrice era raggomitolata sul divano, le mani strette sulla pancia. Ogni parte di lei faceva male, un dolore lancinante che le ricordava cosa stava per accadere. Sempre la stessa storia: fitte atroci, poi il sangue, lambulanza, lospedale e quel vuoto dentro. Era un altro aborto spontaneo, non cerano dubbi. Il terzo in due anni, dopo una gravidanza che non era andata avanti e, prima ancora, quellaborto. Quellaborto per cui Beatrice continuava a pagare il prezzo, con limpossibilità di diventare madre.

Afferrò il telefono e chiamò il 118. Mezzora dopo, la caricavano sullambulanza, e lei, tra le lacrime, chiamò Matteo per dirgli che non sarebbe tornata per cena.

“Di nuovo?” le chiese lui, ma Beatrice non riuscì nemmeno a rispondere. Le lacrime le rigavano il viso, lacrime di disperazione e delusione verso se stessa. Quante volte ancora? Perché succedeva sempre la stessa cosa? O forse Beatrice sapeva il motivo. Se solo non avesse ceduto a quel dottore poco raccomandabile anni prima, ora avrebbero un bambino di cinque anni. Invece niente, e forse non ci sarebbe mai stato.

“Fa così male…” sussurrò, ma il dottore si limitò a regolare la flebo e a guardarla con indifferenza.

Due giorni in ospedale, lentissimi. Poi la dimissione, Matteo con un mazzo di rose, tutto come al solito.

“Sei pallidissima,” le disse, e lei rispose con un sorriso spento. Niente di cui essere felici: non riusciva a dargli un figlio, era chiaro.

In macchina, mentre stringeva quelle rose, Beatrice si voltò verso Matteo e disse: “Non voglio più provarci. Non posso darti un bambino.”

“Non dire così, ce la faremo,” cercò di incoraggiarla lui, ma lei scosse la testa.

“Ci credi davvero? Cinque anni buttati. Io ho quasi trentanni, tu quasi trentacinque. Basta, ho finito di illudermi. I medici dicono che non cè speranza, forse è ora di ascoltarli.”

“Bea, avremo dei figli,” insistette Matteo. “Ricordi cosa diceva il professor Mancini? Che cera ancora una possibilità se seguivamo le sue indicazioni.”

“Dovè, il tuo professor Mancini?” ribatté Beatrice, nervosa. “È morto da anni, e quelle indicazioni? Sparite con lui! Basta, Matteo, non voglio più torturarti né torturarmi.”

“Che vuoi dire?” lui aggrottò la fronte, tenendo gli occhi sulla strada.

Beatrice inspirò profondamente e distolse lo sguardo. “Separiamoci. Troverai una donna che ti darà un figlio, tu meriti di essere felice. Io non valgo niente, non riesco nemmeno a tenermi una vita dentro.”

Le lacrime le salivano in gola, ma Matteo le prese la mano e la baciò. “Non dire sciocchezze. Affronteremo tutto insieme. Ci sono coppie che vivono felici senza figli, possiamo farlo anche noi.”

“Ma tu meriti di essere padre,” sussurrò lei.

“Merito di essere felice con te,” la interruppe lui.

Era tutto lui, Matteo: innamorato della sua donna, paziente con i suoi capricci e disposto a sopportare qualsiasi cosa pur di averla accanto. Aveva lottato per conquistarla, affrontato rivali, e quando finalmente laveva sposata, aveva capito che per essere felice non gli serviva altro. Forse solo un piccolo batuffolo di gioia, ma il destino sembrava negarglielo.

Matteo conosceva il passato di Beatrice. Sapeva che prima di lui era stata sposata con un uomo più grande, scelto dal padre, un tiranno che laveva costretta a un matrimonio infelice. Sapeva dellaborto che lei aveva fatto, che laveva lasciata sterile. Non si poteva tornare indietro, ma ormai Beatrice era sua moglie da anni, aveva tagliato i ponti con il padre e sapeva poco perfino della sorella minore, Viola.

“Non mi stupirei se un giorno costringesse anche lei a sposare qualche farabutto per i suoi interessi,” pensava Beatrice.

Viola aveva ventidue anni, era bella e intelligente come la sorella maggiore, ma si piegava alla volontà del padre molto più di quanto avesse mai fatto Beatrice. Il padre aveva cresciuto le figlie da solo, le ex mogli non avevano avuto voce in capitolo. Lui tirava i fili come un burattinaio, decideva tutto per loro.

Beatrice era scappata a ventiquattro anni, aveva incontrato Matteo e tagliato ogni legame con il padre. Da allora, lui le aveva vietato di vedere Viola, per cui quando una sera la sorella minore bussò alla sua porta, Beatrice rimase senza parole.

“Che succede?” chiese subito, senza notare subito la pancia prominente di Viola.

“Sono scappata da papà,” singhiozzò la ragazza, abbracciandola forte. Era passata poco più di una settimana dallultima ospedalizzazione di Beatrice, e ora questo colpo di scena.

“Cosa voleva fare?”

“Voleva… Voleva che abortissi.”

“Dio mio, sei incinta!” esclamò Beatrice, osservando la sorella. “E di chi?”

“Non importa. Bea, non importa. È stato per amore. Lui è sposato, non vuole il bambino. Papà ha detto che se non abortivo, mi avrebbe portata a forza dal dottore.”

Beatrice pianse con la sorella. Viola era così fragile, indifesa, così cara. Non si vedevano da cinque anni, e Viola era diventata una donna bellissima. Ma la dipendenza dal padre rovinava tutto, e Beatrice era certa che dopo qualche giorno la sorella sarebbe tornata da lui. Non poteva permetterlo.

Matteo accolse Viola senza problemi. Lui non si opponeva mai alle decisioni di Beatrice, la amava troppo per contraddirla, e lei non ne approfittava mai.

Ma dopo una settimana, Viola annunciò di voler tornare dal padre.

“Non ti lascerò andare!” urlò Beatrice, afferrandole le braccia. “Vuoi che faccia del male a te e al bambino? Se non pensi a te, pensa almeno a tuo figlio!”

“È troppo tardi per abortire, non può costringermi,” rispose Viola. “Nessun dottore mi toccherebbe alla ventunesima settimana.”

“Ma può indurti un parto prematuro!” ribatté Beatrice. “Potrebbe metterti qualcosa nel tè e farti partorire. Sai cosa significa? Io sì!”

Le lacrime di Beatrice convinsero Viola a restare, ma la sorella continuava a sentirsi in colpa verso il padre.

Viola partorì a luglio, e subito dopo volle tornare a casa. Beatrice prese il bambino e lo strinse.

“Non ti lascerò portare mio nipote da quel mostro! Vuoi che cresca come lui? Se vuoi andare, va, ma Leonardo resta con me.”

Viola scrollò le spalle.

“Tanto a papà non interessava altro che tornassi senza il bambino. Tu per lui sei morta, tientelo pure questo marmocchio urlante.”

Beatrice capiva che era la depressione post-partum. Tra un mese, forse più, Viola sarebbe tornata. Ma intanto le piaceva troppo tenere in braccio quel piccolo fagotto che odorava di latte e faceva versetti.

“Sai che prima o poi lo rivorrà,” le disse Matteo.

“Lo so,” rispose lei, ma dentro si sentiva a pezzi. Legalmente, quel bambino di tre mesi non era suo, e non cera garanzia che il padre non si presentasse a reclamarlo.

E infatti accadde. Il padre chiamò Beatrice, urlando minacce al telefono:

“Se non mi restituisci mio nipote, vi faccio a pezzi, te e il tuo ometto.”

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