Quando compii quindici anni, i miei genitori decisero che avevano assolutamente bisogno di un altro bambino.

Ricordo quando avevo quindici anni: i miei genitori decisero che dovevamo avere un altro figlio. Così nacque mio fratellino Matteo. Tutti ci fecero i complimenti e mi augurarono il meglio, ma io non avevo voglia di festeggiare. È una storia che preferisco non rievocare, eppure la condivido perché è parte del mio passato.

Mia madre, Maria, era contenta di avere una figlia, non tanto per amore ma perché mi considerava una babysitter gratis. Quando Matteo compì un anno, Maria smise di allattarlo da un giorno all’altro e iniziò a lavorare a tempo pieno. La nonna Rosa veniva al mattino a casa nostra; però, quando tornavo da scuola, o dormiva o era già uscita. Matteo era nelle mie cure: piangeva molto e io non riuscivo a calmarlo.

Il tempo per me era inesistente. Dovevo cambiare i pannolini, lavarlo, dargli da mangiare e preparare pasti freschi ogni giorno. Quando i genitori rientravano tardi e vedevano piatti sporchi o vestiti non stirati, mi rimproveravano dicendo che ero pigra e una parassita. Così, solo quando trovavo un attimo, mi metto a fare i compiti, ma non avevo mai tempo per studiare davvero. A scuola andava a gonfie vele; i professori, per pietà, mi assegnavano un 3 che mi procurava ulteriori biasimi.

La lavatrice lava, il lavastoviglie lava, ma tu che fai tutto il giorno? Pensi solo alle feste! mi urlava Paolo, mio padre, mentre mia madre annuiva obbediente. Sembrava avesse dimenticato come fosse passare qualche ora con un bambino irrequieto e fare le faccende domestiche.

Certo, la lavatrice lava, ma bisogna ancora avviarla, stendere i panni e stirare ciò che resta del giorno prima. Il lavastoviglie non potevo accenderlo di giorno perché consumava troppa energia, quindi i piatti dei bambini li lavavo a mano. Nessuno invidiava il mio pulire il pavimento ogni sera; Matteo era un piccolo tornado, strisciava e correva dappertutto.

Le cose si alleggerirono quando Matteo iniziò lasilo. I genitori insistevano perché lo portassi a prendere e lo nutrissi al ritorno a casa. Così, almeno qualche ora del pomeriggio era libera e potevo concentrarmi di più a scuola, riuscendo a superare lesame senza più un 3.

Sognavo di studiare biologia alluniversità di Firenze. Era lunica materia che mi appassionava, ma i miei genitori non volevano saperne nulla.

Luniversità è in centro, ci metteresti unora e mezza di pendolarismo. E quando torni? Matteo deve essere preso e poi ti occuperai di lui. Neanche parlare! mi rispose Paolo.

Incapaci di cedere, decisero per me una scuola professionale di cucina, la più vicina al nostro appartamento a Napoli. Iniziai come pasticcera apprendista. Il primo semestre fu un vero schiaffo al morale, ma poi mi immersi nella preparazione di torte, biscotti e dolci vari, e il lavoro divenne una passione.

Dal secondo anno lavorai parttime nei weekend in un bar vicino casa. Allinizio i genitori si lamentavano perché non ero più in casa, ma io riuscivo a difendere quel poco di tempo per me. Dopo la maturità, fui assunta a tempo pieno.

Non molto tempo dopo, un nuovo capo di cucina arrivò al bar. Iniziammo a vederci anche di sera, e i genitori tornarono a rimproverarmi a più non sai. Più volte Paolo veniva a cercarmi dopo il turno per impedirmi di uscire con Luca, il mio ragazzo. Un giorno organizzarono una riunione di famiglia.

Invitarono nonna Rosa, zia Carla e suo marito. Mi misero al centro della stanza e mi ordinarono di dimenticare fidanzamenti, passeggiate e qualsiasi tipo di chiacchiera.

Sei licenziata dal bar! esclamò zia Carla. Ho trovato per te un lavoro come aiuto cuoco nella scuola di Matteo.

La notizia migliore di oggi! esultò mia madre. Matteo sarà sempre assistito, potrai tornare a casa nel pomeriggio e aiutarci.

Abbandonare il bar, dove ero apprezzata, pagata e dove Luca lavorava, mi sembrava un futuro di mense scolastiche con schnitzel scivolosi e lasagne appiccicose, serate di faccende domestiche e una vita interamente dedicata a Matteo.

Finché tuo fratello non avrà terminato gli studi, non sognare neanche di ragazzi ribadì severamente Paolo.

Il giorno dopo raccontai tutto a Luca e concepimmo un piano. Luca voleva aprire il suo caffè; risparmiava, ma non bastava. Dovevamo chiedere un credito alla banca o trovare investitori. A casa gli dissi che avrei lavorato ancora due settimane; i genitori accettarono di attendere il preavviso.

Il credito non arrivò, ma un conoscente di Luca, gestore di un grande ristorante, gli propose un progetto a Milano. Luca viaggiò per un colloquio, convinse il capo a parlare con me via video. Mentre raccontavo la mia storia, Luca mi mandò dei dolci in una borsa frigo.

Lultimo giorno di lavoro uscii prima, presi la valigia, i documenti e i risparmi, e presi il treno per Milano.

Ora conduco la mia vita, scegliendo le persone a cui dedicarmi, non più quelle imposte. Amo ancora Matteo e spero davvero che un giorno avremo un rapporto sereno. Non serbo rancore verso i miei genitori, ma so bene che, se avessi continuato a vivere sotto lo stesso tetto, sarei rimasta intrappolata nella loro influenza. Non ero abbastanza forte per difendermi, così fuggii. Spero che nella nostra nuova città tutto si sistemi e che, finalmente, possiamo essere felici.

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Quando compii quindici anni, i miei genitori decisero che avevano assolutamente bisogno di un altro bambino.