**Diario di Elena**
Avevo 47 anni quando decisi di adottare. Non un bambino. Non un cane. Nemmeno un gatto.
Quello che adottai fu il silenzio.
Vivevo sola in un piccolo appartamento a Milano, circondata da piante, libri sottolineati e tazze che collezionavo senza sapere perché. Avevo passato la vita a rimandare cose. Lamore, i viaggi, i figli. Cera sempre qualcosa di più urgente. Finché un giorno mi fermai e capii che non avevo più nulla di urgente.
Niente.
Un martedì qualunque, scesi al cassonetto e lo sentii.
Un miagolio.
Leggero.
Insistente.
Spezzato.
Cercai con lo sguardo. Niente.
Poi sollevai il coperchio di un bidone.
E lo vidi.
Un gattino piccolo, sporco, con la coda rotta e gli occhi pieni di cispe. Respirava a malapena.
Non ci pensai. Lo avvolsi nella mia sciarpa e lo portai su.
Lo lavai. Lo asciugai. Gli parlai.
«Non so se sopravviverai, piccolino ma almeno non morirai solo.»
Passai la notte sveglia. Lui, rannicchiato sul mio petto.
Io, stringendolo come se dovessi trattenere qualcosa di più di un gatto.
Contro ogni previsione, il gatto sopravvisse.
E non solo.
Ricominciò a camminare.
A mangiare.
A fare le fusa.
E ogni volta che tornavo dal lavoro, lui correva alla porta.
Anche senza coda.
Anche zoppicando da una zampa.
Lo chiamammo Remo.
Perché remare è difficile quando tutto sembra andare contro.
I mesi passarono.
E con il gatto, arrivò labitudine.
La routine.
Il calore.
Ricominciai a ridere.
A dormire con il corpo rilassato.
A parlare ad alta voce, sapendo che qualcuno mi ascoltava anche se non rispondeva.
Una domenica pomeriggio, mentre Remo dormiva sulle mie gambe, la mia amica Giulia mi chiese:
«Ti rendi conto che non sei stata tu a salvarlo?»
Alzai lo sguardo.
«Cosa vuoi dire?»
«Che quel gatto è arrivato quando ne avevi più bisogno. Quando stavi cominciando a scomparire. È stato il tuo promemoria.»
Abbassai gli occhi.
Remo era lì, con la pancia scoperta, il muso umido, il corpicino attaccato al mio come se fossimo una cosa sola.
E allora capii.
Non lavevo adottato io.
Lui aveva scelto me.
Non tutte le adozioni hanno moduli da compilare.
Alcune hanno solo bisogno di una coincidenza, una ferita e un cuore disposto ad amare ciò che è ancora rotto.
Da allora, ogni volta che qualcuno mi chiedeva perché non mi fossi sposata, avuto figli o formato una famiglia «come ci si aspetta», rispondevo:
«Non tutti adottiamo bambini. Alcuni adottiamo anime.»
E a volte quelle anime miagolano.
«Ci sono esseri che arrivano senza essere chiamati, ma restano come fossero una promessa.»





