Tutto sembrava normale crescendo i tre gemelli – finché uno di loro non ha iniziato a dire cose inspiegabili

Tutto sembrava normale nella crescita dei nostri tre gemelli, finché uno di loro non iniziò a dire cose inspiegabili.

Li abbiamo cresciuti allo stesso modo, ma un giorno uno dei tre cominciò a parlare di cose che nessun bambino di sette anni dovrebbe conoscere.

Fin dallinizio, la gente rideva dicendo che non avremmo mai saputo distinguerli. Per questo gli regalammo dei papillon: uno blu, uno rosso e uno verde acqua. Tre gemelli identici, con lo stesso modo di camminare, un linguaggio segreto tra loro e la strana abitudine di finirsi le frasi a vicenda. Era come allevare ununica anima divisa in tre corpi.

Ma poi Enrico quello col papillon verde acqua cominciò a svegliarsi in lacrime. Non per i brutti sogni, ma per quello che lui chiamava “ricordi”.

“Vi ricordate la vecchia casa con la porta rossa?” chiese una mattina.
Noi non la ricordavamo. La nostra casa non aveva mai avuto una porta rossa.

“Perché non vediamo più la signora Langella? Mi dava sempre le caramelle alla menta.”
Non conoscevamo nessuno con quel nome.

Poi arrivò la notte in cui sussurrò: “Mi manca la Fiat verde di papà, quella con il paraurti ammaccato.”
Non avevamo mai avuto una Fiat.

Allinizio ridevamo, pensando fosse fantasia. Ma il tono di Enrico non era scherzoso. Parlava con calma e sicurezza, come se stesse ricordando la sua stessa vita passata.

Presto iniziò a disegnare. Pagina dopo pagina, sempre lo stesso luogo: una casa con la porta rossa, tulipani nel giardino ed edera che si arrampicava sul camino. I suoi fratelli lo trovavano “figo”. Lui, invece, sembrava triste, come se avesse perso qualcosa di prezioso.

Un giorno, mentre frugavo tra le scatole in garage, mi chiese del suo vecchio guantone da baseball.
“Tu non giochi a baseball, amico,” gli dissi.
“Sì, invece,” rispose piano. “Prima della caduta.” Si toccò la nuca.

Allora lo portammo da un medico. Il pediatra ci indirizzò a uno psicologo. La dottoressa Bianchi ascoltò attentamente e disse che i ricordi di Enrico non erano una semplice fantasia. “Alcuni li chiamano memorie di vite passate,” spiegò. “Controversa come teoria, sì, ma reale per il bambino.”

Non volevo crederci. Ma poi la dottoressa Leone, una ricercatrice, chiese a Enrico durante una videochiamata:
“Come ti chiamavi prima?”
“Daniele,” rispose. “Daniele Riva o forse Rivo. Vivevo in Lombardia. In una casa con la porta rossa.”

Raccontò di essere caduto da una scala mentre sistemava una bandiera. Trauma alla testa. Dolore. Buio.

Qualche giorno dopo, la dottoressa Leone ci chiamò. Aveva trovato un documento: Daniele Riva, Brescia, Lombardia. Morto nel 1987 a sette anni, frattura cranica per una caduta.

La foto che ci mandò mi fece quasi fermare il cuore. Il bambino somigliava a Enrico. Gli stessi riccioli. Gli stessi occhi.

Dopo, Enrico sembrò più tranquillo, come se avesse chiuso un capitolo. Smise di disegnare. I ricordi strani svanirono. Tornò a giocare con i suoi fratelli, ridendo come prima.

Ma poi arrivò una lettera. Senza indirizzo del mittente. Dentro, una foto di una casa con la porta rossa, tulipani in giardino, edera sul camino. Una firma tremolante: *Pensavo vi sarebbe piaciuto vederla. La signora Langella*

Non avevamo mai parlato di lei con nessuno. Tranne con Enrico. E con la dottoressa Leone, che poi era sparita senza lasciare traccia.

Anni dopo, quando Enrico compì quindici anni, trovai una scatola da scarpe sotto il suo letto. Dentro, una sola biglia, blu con spirali verdi. Sul fondo, un biglietto scritto a mano da un bambino: *Per Enrico da Daniele. Lhai trovata tu.*

Quando gli chiesi da dove venisse, sorrise.
“Alcune cose non hanno bisogno di spiegazioni, papà.”

Ancora oggi non so se credo nelle vite passate. Ma credo in Enrico. Credo nella pace che porta dentro di sé, nella saggezza che non dovrebbe avere alla sua età, e nel modo in cui a volte guarda il cielo come se ricordasse qualcosa di lontano.

I bambini arrivano con le loro storie. A volte quelle storie non sono nostre da capire. Solo da abbracciare.

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