Ricominciare dall’inizio: Un Nuovo Inizio in Italia

Il silenzio era così profondo che allinizio non capii cosa mi avesse svegliato. Né la sveglia, né il trambusto in cucina, né il rumore dellacqua della doccia; nulla. Solo il ronzio monotono del frigorifero contro il muro e il lontano ruggito di Roma fuori dalla finestra.

Mi trovavo a letto, a osservare quel silenzio. Solo ieri la casa era piena di vita: lo scricchiolio del pavimento sotto i passi rapidi di Ginevra, il fruscio delle pagine del libro che leggeva sul divano, il fastidioso graffio delle unghie del suo gatto Micio sul tessuto del divano. Ora il gatto era andato via con lei, e il divano rimaneva vuoto e straniero.

Il primo impulso fu afferrare il cellulare e scrivere a qualcuno: «Ci vediamo al bar, subito!», per poi scaricare su qualche amico tutta la rabbia, il dolore e lamarezza. Ma non osai nemmeno pensare a quello. Un impulso più basso mi suggeriva di trovare qualche compagnia per una notte, riempire quel vuoto con una presenza qualsiasi. Una via facile e autodistruttiva, allettante.

Invece mi alzai, andai in cucina e misi sul fuoco la bollitrice. Mentre lacqua bolliva, i miei occhi caddero su una mensola dellingresso dove giaceva ancora il suo scialle di lana preferito. «Il coltello nella testa», mi venne in mente un articolo che avevo letto una settimana prima, al culmine della disperazione.

«Allora, amico, è ora di estrarre il coltello», mi dissi sottovoce.

Iniziai dal più piccolo. Raccolsi tutti gli oggetti che Ginevra non aveva portato con sé: lo scialle, il libro dimenticato, la penna secca, la tazza con i gattini. Li misi in una scatola di cartone. Non li lanciai via né li strappai, come suggeriva il rancore; li confettai con cura e li portai in cantina. Un giorno li restituirò, senza scenate né rimproveri. Poi lavai le lenzuola, facendo evaporare lodore del suo profumo. Cancellai le foto condivise dal telefono e svuotai il cestino. Ogni gesto era come togliere una vecchia medicazione sporca da una ferita. Doloroso, ma necessario.

Il passo successivo fu il tempo. Sentivo che ne avevo così tanto da far pesare le spalle come un carico. Tempo che prima spendevo in cene insieme, andate al cinema, chiacchiere senza senso ma dolci. Ora dovevo riempirlo con qualcosaltro. Non con alcol né con autocommiserazione, ma con me stesso.

Mi iscritti a una palestra. Le prime sessioni furono un inferno. Spingevo il corpo fino al vomito, scaricando su treadmill e pesi tutta la rabbia, la delusione e il dolore. Gocce di sudore sul pavimento di gomma sembravano lacrime. Ma a ogni settimana il corpo si faceva più forte e la mente più serena.

Poi mi iscritti a corsi di italiano, quel sogno che avevamo sempre rimandato. Ora ci andavo da solo. Le complessse costruzioni grammaticali cacciavano via i pensieri ossessivi. Feci anche un viaggio nella piccola cittadina balneare di Sabaudia, dove lei non voleva andare. Seduto al tramonto sul molo, guardando il mare, provai per la prima volta in mesi una leggera tristezza luminosa e un barlume di libertà.

Ci furono giorni duri. Di notte mi svegliavano i ricordi: il suo riso a bocca aperta, o le piccole discussioni su cose inutili. Non li respinsi. Rimasi a letto a sentire quel dolore, come consigliava larticolo, lasciandolo fluire e poi ritirarsi, come londa. A volte salivo in macchina, scappavo fuori città, salivo su un colle deserto e urlavo a squarciagola, finché la voce non si spezzò e la tanto desiderata quiete tornò a regnare.

Un giorno, frugando tra vecchie carte, trovai la foto del nostro matrimonio. Mi aspettavo un attacco di malinconia o di rabbia. Invece guardai due persone felici, ignare di tutto, e pensai: «Sì, è stato, è stato bello, è finito».

Non provai né rancore né il desiderio di tornare indietro. Solo una leggera nostalgia e la consapevolezza che quel capitolo era chiuso.

Quella sera uscii con gli amici. Ridevano, raccontavano notizie, facevano progetti. E mi accorsi che per tutta la serata non avevo pensato a lei. Ero qui, solo, presente. Intero, anche se con una cicatrice nellanima ormai in fase di guarigione.

Mi guardai nello specchio di una vetrina di un bar: alto, calmo, con lo sguardo limpido. Non mi vedevo così da molto tempo, forse mai più.

Il «coltello» era stato estratto. La ferita si era rimarginata. Ed ero pronto a proseguire, leggero, senza il peso del passato. La vita, quella che avevo sempre sognato, stava appena iniziando.

Improvvisamente un odore pungente di putrefazione mi colpì al naso. Non capii subito cosa stesse succedendo. La stanza sembrava fluttuare, lenta, come uscita da una nebbia. Ero sdraiato sul divano, ancora vestito, coperto di briciole e macchie sconosciute.

Cercai di alzarmi e il mondo si inclinò. Il capo mi pulsava. Guardai intorno e una gelida ondata di terrore mi attraversò il corpo.

Non era la casa luminosa del sogno, ma una baraccopoli. Bottiglie vuote di birra e vodka come soldati caduti ricoprivano il pavimento. Sul tavolo un posacenere pieno di mozziconi fumosi. Vestiti sporchi sparsi ovunque, e sul televisore unimmagine di un talkshow notturno.

Con fatica mi rialzai e mi diressi verso il bagno, aggrappandomi ai corrimano. La luce accecante mi bruciava gli occhi. E lì, nello specchio, vidi un uomo sconosciuto, rasato a strappi, con il viso gonfio e gli occhi rossi di vergogna e vuoto. Era io. Marco.

Tutta la chiarezza, la forza, quella sensazione di completezza che avevo provato nel sogno, svanì, lasciandomi solo un retrogusto amaro, una nausea da sbornia e un dolore danima ancora più profondo.

Era solo un sogno. Tutto quello che avevo vissuto gli oggetti da imballare, la palestra, il corso di italiano, il tramonto sul molo era una trappola della mente per fuggire da una realtà insopportabile. Una fuga che sembrava durare uneternità, ma che in realtà fu solo una notte.

Toccai il mio viso nello specchio. La pelle era lucida, la barba pungente graffiava le dita. Era il mio vero io: non un uomo di successo e in forma, ma un essere caduto che cercava di annegare il dolore in alcol barato e falsi inganni.

Il silenzio nella casa mi colpì di nuovo. Ma ora non era più il silenzio di un nuovo inizio, era il silenzio di un vicolo cieco, assordante. Lunico suono più spaventoso era il ticchettio dellorologio, che misurava il tempo sprecato.

Il sogno non guarì, fu solo uno specchio che mi mostrò il volto reale. Un riflesso così disgustoso da far venire voglia di chiudere gli occhi e scappare, ma non cera più dove andare.

Rimasi immobile, guardando quelluomo in una maglietta macchiata, quel caos attorno. Un sapore sgradevole nella bocca, un vuoto bruciato nellanima. Il sogno era vivido, la realtà crudele.

Presi la prima bottiglia vuota che trovai e la lanciai con forza nel cestino. Scroscì contro il bordo. Poi la seconda, poi la terza. Non piansi né urlai. Con il volto di pietra iniziò la guerra contro il disordine che avevo creato.

Raccolsi tutto, riempii sacchi di bottiglie rotte e schegge. Aprii la finestra a tutta larghezza, lasciando entrare laria fredda, intrisa di alcol e malinconia. Preparai un caffè forte, le mani tremanti.

Ritornai allo specchio. Lo sguardo rimaneva stanco, ferito, ma in fondo, in quel buio, brillava una scintilla. Non di speranza, ma di rabbia bianca, gelida, verso me stesso.

Presi il telefono, scorrendo i contatti, trovai il numero di un vecchio compagno di classe che un mese prima mi aveva offerto aiuto da psicologo. Prima lavevo annotato e non avevo mai chiamato. Ora composi.

«Alessandro?», la voce gracchiò come una porta arrugginita. «Ho bisogno del tuo aiuto.»

Misi giù il ricettore e respirai a fondo. Il cammino mostrato dal sogno era un miraggio, ma indicava la direzione. Capii che per diventare quelluomo forte e puro del sogno avrei dovuto attraversare quellinferno, non dormendo, ma sveglio.

Il mio primo passo non fu più verso la palestra o il corso di italiano, ma sotto la doccia. Lavare via lintera giornata di ieri. Lavare via quelluomo trasandato con la faccia gonfia. E ricominciare. Dal principio. Domani.

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