L’Ultimo Incontro nel Parco Autunnale di Villa Borghese

Lultima passeggiata nel parco autunnale

Si ritrovarono nello stesso parco dove, venti anni fa, tutto ebbe inizio. Non per un accordo premeditato, ma per una strana capricciosa dellautunno, quel vento che sembrava gironzolare per la città sfogliando le pagine di vite dimenticate.

Edoardo camminava lungo lalleata, illuminata da lampioni dorati, con dentro la tasca del cappotto una vecchia e stropicciata bigliettino del treno che sarebbe partito quella sera. Partiva per sempre, e quella camminata era il suo silenzioso addio alla città che aveva custodito tutta la sua estate, tutta la sua prima giovinezza.

Lei, Fiorenza, era seduta sulla loro panchina. Quella stessa, con un angolino di cemento scheggiato sul sedile e le misteriose iniziali F. + E. graffiate sullo schienale. Avvolta in un cappotto color sabbia, fissava lo stagno dove anatre pigre chiedevano pane ai pochi passanti.

Edoardo si fermò, e il suo cuore fece quel movimento antico, dimenticato non un battito, ma una pendolo che sembrava misurare il tempo al contrario. Riconobbe il suo profilo non per quellelegante, leggermente stanco, uomo, ma per linclinazione della testa, per il modo in cui stringeva le mani sulle ginocchia.

Fiorenza? sussurrò, la voce un po rauca, quasi sconosciuta.

Lei si girò. Non subito, né spaventata, ma come se avesse atteso di essere chiamata. Quegli occhi grigio-verde si spalancarono.

Edoardo? Dio Edoardo.

Lui si avvicinò e si sedette accanto, mantenendo una distanza rispettosa, abbastanza da farci stare due decenni. Laria odorava di foglie bagnate, di fumo leggero e di profumi costosi non quelli della giovinezza, dolci e ribelli, ma qualcosa di più maturo.

Che ci fai qui? chiesero quasi allunisono, ridendo goffamente.

Resultò che lei era uscita a fare una passeggiata dopo una lezione alluniversità di Bologna, poco distante. Lui, invece, stava salutando.

Seguì una pausa, comoda e al tempo stesso pesante.

Ti ricordi iniziò improvvisamente, guardando lacqua di quando ci incontrammo per la prima volta? Tu, sul tuo skateboard, quasi mi calpestasti.

Non quasi, ti ho davvero investita rise Edoardo. Sei caduta in una pozzanghera. E invece di scusarmi, ho iniziato a urlare che avevi rotto il mio skateboard.

Io piangevo non per i calzini rovinati, ma perché eri così scortese scrollò Fiorenza la testa, lasciando che le rughe agli angoli degli occhi bruciassero come perle di gioia. Poi il giorno dopo sei tornato con una scatola di cioccolatini Bianchino.

E noi siamo rimasti su quella panchina fino al tramonto concluse lui a bassa voce.

Allora la memoria, come vecchio proiettore, si accese, proiettando sullo schermo del presente scene vivide, un po sbiadite. Ecco loro, giovani e spensierati, che arrostiscono salsicce sul fuoco con gli amici; lei, imbrattata di carbone, lo nutre con la forchetta, mentre lui finge di mordere il dito. Ecco poi la corsa sotto una pioggia torrenziale, bagnati fino alle ossa, urlando di felicità dopo la première di un film. E poi il regalo di compleanno: un anello dargento con un minuscolo zaffiro, comprato con tutti i guadagni estivi, e lei piangeva stringendo la mano alle labbra.

Parlavano di tutto questo ora, e le parole fluivano leggere, come se non fossero state sepolte per anni sotto strati di routine, delusioni e vita adulta.

E ti ricordi la discussione su dove studiare? chiese Fiorenza. Tu volevi andare a Milano, io non potevo partire per colpa di mia madre.

Ero uno sciocco sussurrò Edoardo. Dicevo che lamore ti fa andare fino al capo del mondo.

Io dicevo che se ami, capirai sospirò lei. Eravamo così giovani, così certi che lamore fosse una forza magica che risolve tutto. Ma si è rivelata fragile, come il primo ghiaccio su quel laghetto.

Il silenzio calò. Un acero lasciò cadere un nuovo mucchio di foglie, che girarono in un lento valzer daddio.

Va tutto bene da te? chiese lui, già sapendo la risposta. Bene non descriveva la loro vita. Lei aveva una famiglia, un lavoro; lui, una sua azienda in unaltra città, le proprie preoccupazioni. Tutto era normale, ma non bene nel senso che due ventenni sulla panchina avrebbero attribuito a quella parola.

Sì rispose lei, e nei suoi occhi Edoardo lesse la stessa risposta. Tutto bene.

Tirò fuori la tasca e strinse il biglietto di nuovo. Un foglio che lo separava da quella città, da quel parco, da lei.

Sai, disse allungando la mano, ricordo ancora lodore dei tuoi capelli. Non era profumo, ma i capelli stessi: una miscela di shampoo alla mela e sole.

Fiorenza lo guardò, e gli occhi le scintillarono.

E io ricordo il tuo fischio. Avevi un fischio speciale, con due dita. Lo fischiavi avvicinandoti al mio ingresso, e io saltavo sul balcone come una pazza.

Provò a fischiare adesso, ma venne un suono flebile e insicuro. La capacità era svanita. Entrambi sorrisero di nuovo, questa volta con una tristezza leggera ma penetrante.

Era ora di andare. Si alzarono dalla panchina simultaneamente, quasi per abitudine.

Ciao, Edoardo disse lei.

Ciao, Fiorenza.

Non si abbracciarono, non si baciarono sulla guancia. Si allontanarono verso estremi opposti dellalleata, proprio come venti anni fa, quando credevano di rivedersi il giorno dopo. Ora, invece, non più.

Edoardo raggiunse luscita del parco, si voltò. Fiorenza era già lontana, una sagoma snella che svaniva nel crepuscolo. Estrasse il biglietto, lo guardò, le cifre sfocate, e lentamente, senza fretta, lo lacerò a pezzi, gettandolo nella spazzatura.

Non partiva con quel peso. Lo lasciava dove doveva stare. E camminava verso il freddo della sera, portando solo il dolce, lontano profumo di shampoo alla mela.

Uscì dal recinto del parco e il frastuono della città lo travolse il ruggito delle auto, i clacson spezzati, passi frettolosi. Laria odorava di benzina e di kebab di una bancarella dangolo. Edoardo chiuse il cappotto e si diresse senza meta verso la stazione, anche se il treno non lo aspettava più.

Camminava per le strade familiari, e ogni angolo era ora una pagina di quel libro che una volta avevano scritto insieme. Il cinema Rinascita, le cui scale avevano visto i loro baci sotto un improvviso acquazzone. Il caffè che una volta era una piccola caffetteria, dove Fiorenza assaggiò per la prima volta il caffè alla napoletana e commentò: Sa di terra amara. Lui sorrise. Ora lì pendeva linsegna di una grande banca.

Pensò di tornare, di trovarla, di dire dire cosa? Che tutti quegli anni aveva cercato il suo riflesso nei volti di donne sconosciute? Che nessun successo profuma di più del suo shampoo alla mela? Sarebbe stata follia. Erano adulti con impegni, agende, biografie che non si incrociavano più.

Intanto Fiorenza si sedette su unaltra panchina, a pochi passi. Guardava il vento far scivolare le ultime foglie ingiallite sullacqua, e rifletteva su quanto la vita sia strana. Due decenni unintera esistenza costruita con un altro uomo, un figlio, una tesi difesa, una routine e tutto può svanire in dieci minuti di una conversazione casuale.

Ricordò il suo sguardo quello diretto, un po indagatore, che una volta le aveva tolto il fiato. Uno sguardo che vedeva non il rispettato professore, ma la ragazzina sullo skateboard, fradicia e felicissima.

Sentì un improvviso, quasi fisico, desiderio di saltare, correre, raggiungerlo. Chiedere: E se? Ma le sue gambe non ascoltavano. Erano abituate alla misura, alla prevedibilità. Conoscevano la strada di casa, verso il marito che probabilmente si chiedeva perché fosse tardissima.

Raccogliendo i pensieri, Fiorenza si alzò e si diresse verso luniversità, dove la sua auto lattendeva. Camminava senza voltarsi indietro verso lo stagno, la panchina, i fantasmi della loro giovinezza.

Edoardo arrivò alla stazione. Il grande tabellone mostrava città dove nessuno lo aspettava. Si avvicinò al bancone.

Dove vuole andare? chiese la commessa con voce stanca.

Edoardo la guardò, poi le sue mani, che poco prima stringevano il biglietto verso il nulla.

Da nessuna parte sussurrò. Sono già arrivato.

Si voltò e si allontanò dalla stazione. Non sapeva cosa gli riservasse il domani. Forse avrebbe trovato lavoro lì, forse affittato un piccolo appartamento con vista sul parco, o forse avrebbe solo soggiornato qualche giorno in più, respirando quellaria dautunno.

Non cercava più un altro incontro con lei. Quel momento era già avvenuto. Laveva scosso, ricordandogli chi era davvero, sotto strati di anni e contratti.

Per la prima volta da tanto tempo, non cera fretta. Era solo Edoardo, luomo che un tempo amò Fiorenza. E bastava. Il passato non si poteva riavvolgere, ma si poteva smettere di fuggire da esso. In quella fermata cera una strana, amara e curativa libertà.

Camminava per le strade spente della sera, e la città non era più un museo delle sue perdite. I lampioni si accendevano non come ricordi, ma per illuminare la via avanti. Sentiva un leggero vuoto, come se nellanima fosse stato fatto spazio per qualcosa di nuovo. Il passato, alla fine, lo aveva lasciato andare non con lo sbattimento di una porta, ma con un sospiro quasi di sollievo. E in quel silenzio nasceva qualcosa di suo, autentico, reale.

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