Caro diario,
oggi mi tornano in mente i primi anni della mia infanzia, quando la mia amica Livia e io eravamo inseparabili. Crescevamo in due case vicine, una a Trastevere e laltra nel quartiere di Porta Romana, e frequentavamo lo stesso asilo. La nostra amicizia era parte integrante del nostro mondo, come la fontana di Piazza Navona o il vecchio cipresso che sormontava il giardino della scuola. Sotto quellalbero ci rifugiavamo dalla pioggia, ci scambiavamo le caramelle di Livia, sempre nascoste nel taschino del suo vestito, e, durante la nanna, intrecciavamo i nostri capelli chiari e scuri in un groviglio indistinto.
Le nostre famiglie erano diverse come due strumenti musicali: la mia era ordinata, quella di Livia un caos creativo, ma nelle orchestre dellinfanzia le loro note si accordavano sorprendentemente bene.
Da parte mia, la famiglia di Giulia era quella regolare. Mio padre, Marco Bianchi, ingegnere in unindustria meccanica di Torino, e mia madre, Elisa Rossi, insegnante di pianoforte al conservatorio, vivevano in un appartamento dove laria profumava di vaniglia appena sfornata e di parquet lucidato. Tutto era al suo posto: i libri in fila, i pranzi serviti al solito orario, i piani per il weekend discussi su una tovaglia di lino ben stirata.
Elisa sognava di vedere Giulia diventare pianista. Dal sei di anni la mise al cospetto di un pianoforte nero lucido, dove la bambina suonava scale guardando fuori dalla finestra, dove si sentivano i giochi spensierati dei compagni.
La famiglia di Livia era un vortice di creatività. Sua madre, Irene, sartiessa per il teatro locale, abitava in un appartamento che somigliava a un deposito di scenografie: un cavaliere di cartapesta in armatura in un angolo, un abito da ballo del secolo scorso appeso alla sedia, e sul tavolo di cucina, tra stracci e fili, un profumo di patate fritte e una testa di papier-mâché con sopracciglia sollevate. Il padre era assente; Irene riempiva quel vuoto con amore, lavoro e una leggera sregolatezza artistica. Non cera una rigida routine, ma cera sempre qualcosa di interessante.
Fu nella casa di Irene che provai per la prima volta il sapore di una vita un po folle. La bambina impeccabile, con il suo vestitino stirato, provava a indossare crinoline e turbanti, sporcandosi le mani di colla e pittura mentre ascoltava le storie di Irene sugli intrighi dietro le quinte. Per me, quel luogo era un portale verso un mondo più colorato e libero.
Per Livia, la casa di Elisa era unisola di stabilità. Le piaceva venire a trovarci quando la mamma le concedeva il permesso, sedersi al tavolo perfetto, assaporare i formaggini di ricotta e sentirsi parte di un universo prevedibile e sicuro. Marco a volte le mostrava semplici trucchi con le monete, e la sua energia tranquilla le dava conforto. Quando Giulia si sedeva al pianoforte, Livia rimaneva in un angolo, rapita; per lei la musica dellamica era magia, non routine.
Le due madri si guardavano con cortese diffidenza. Elisa scuoteva la testa pensando al disordine creativo di Irene, ma era felice che Giulia crescesse in un ambiente disciplinato. Irene trovava la vita di Elisa un po noiosa, ma era grata per la sicurezza che offriva alla sua Livia.
Stranamente, questi due mondi non si scontravano, ma si completavano come yin e yang. Quando Livia al quinto anno fu coinvolta in una piccola drammatica per colpa di un ragazzo, piangeva sul letto perfettamente rifatto di Giulia, e Elisa, infrangendo le proprie regole, le portò una ciotola di cacao con marshmallow. Quando Giulia ottenne una 4 in matematica, temendo di tornare a casa, fu Irene a incontrarla in ingresso, a offrirle una pioggia di tessuti, a nutrirla con crespelle e a dirle che un voto non è una condanna.
La nostra amicizia, intrecciata di capelli chiari e scuri, risultò più solida di quanto sembrasse. Era fatta non solo dei nostri segreti e risate, ma anche del profumo di vaniglia di una casa e dellodore di colla di teatro dellaltra. Due forme di amore materno, così diverse eppure così forti da costruire ponti sopra le divergenze quotidiane, crearono per noi due ragazze un unico mondo ricco e variopinto.
Il tempo scivolò fuori dalle finestre come foglie di un calendario strappato, sistemando ogni cosa al suo posto. Dopo la scuola le nostre strade si separarono, ma non si spezzarono, si allungarono come una molla pronta a riunirci.
Il cambiamento avvenne alle scuole superiori. Elisa stava preparando i vestiti per i concerti al conservatorio, ma Giulia improvvisamente si ribellò.
Non voglio andare al conservatorio disse una sera, guardando altrove dal pianoforte.
Il silenzio calò nella stanza.
Ma perché? Hai talento! Hai studiato tutta la vita! la voce di Elisa tremò.
Giulia strinse i pugni.
Non voglio vivere solo di scale e sonate altrui. Voglio capire come funziona il mondo vero, come si muovono i soldi, come operano le aziende. È anche una musica, mamma, solo diversa.
Elisa ne fu sconvolta; per lei era un tradimento non solo del suo sogno, ma dellarte stessa.
Fu Livia, seduta quella sera in cucina con Marco, a trovare le parole giuste.
Signora Bianchi, la Sua Giulia non scappa dalla musica. Sta solo cercando il suo strumento.
Giulia si iscrisse al corso di Economia a Roma. Il suo talento per i numeri, forgiato da anni di disciplina musicale, trovò dimora tra formule complesse e modelli finanziari. Si immerse nello studio, poi nel lavoro: corsi, stage in una multinazionale, scadenze. Parlava il linguaggio dei grafici e dei KPI, vestiva abiti sartoriali di taglio impeccabile. Raggiunse tutto ciò che sognava: carriera, indipendenza finanziaria, status.
Eppure, la sera, rientrando nel suo elegante monolocale, sentiva un vuoto. La vita era sua, ma qualcosa mancava.
Livia rimase nella sua città natale, entrò allAccademia di Belle Arti e aprì una piccola bottega di sartoria. Creava abiti esclusivi, restaurava pezzi depoca. La mamma Irene la sosteneva, trasformando ogni progetto in una piccola opera darte. La bottega divenne luogo dincontro per studenti, attori del teatro di Irene, musicisti; tutti trovavano lì qualcosa di loro. Livia sentiva fortunata di avere una madre così.
Il contatto tra noi si ridusse a messaggi sporadici e like su foto. Giulia vedeva le immagini di Livia al lavoro, i vestiti vintage su manichini, il gatto Micio acciottolato tra i tessuti. Con i suoi viaggi di lavoro e i teambuilding, quelle semplici gioie le sembravano un paradiso perduto.
Livia la guardava con orgoglio e lieve nostalgia. La mia Giulia conquista il mondo, pensava, osservando le foto di grattacieli finanziari. Nella sua bottega, tra odori di cuoio e vernice, il silenzio era più dolce.
Un giorno Giulia, spulciando la valigia dopo un trasloco, trovò una vecchia foto: noi sette anni, sotto quel cipresso, abbracciate. Guardando quei volti felici, unondata di perdita la travolse; sentì il cuore stringersi come se avesse perso lamica che sapeva gioire senza ragioni.
Quella notte scrisse a Livia non un breve messaggio, ma una lunga lettera. Raccontò di quanto a volte si sentisse sola nella frenesia della città, di come lanima fosse stanca dei numeri, di come invidiasse la semplicità dei suoi scatti.
Livia rispose in quindici minuti: «Giulietta, sciocca, scrisse pensavo che fossi diventata così importante da non avere più spazio per il nostro caos creativo. Ti ho pensata ogni giorno.»
Da lì riprese il nostro dialogo. Non scriviamo ogni giorno i nostri ritmi sono troppo diversi ma le videochiamate divennero rituali di purificazione. Giulia, sdraiata sul divano di pelle italiana, ascoltava Livia e Irene discutere del colore di perline per un cappello teatrale. Livia, a sua volta, assorbiva le complesse sfide professionali di Giulia, offrendo consigli pratici che si rivelavano sorprendentemente geniali.
Poi Giulia sentì che le videochiamate non bastavano più. Voleva respirare laria del suo paese, abbracciare davvero lamica.
Il capo le concesse una settimana di ferie la prima in tre anni. «Stai bruciando», le disse, e Giulia non poté opporsi. Invece di volare al mare, comprò un biglietto del treno per Roma.
Non avvisò né i genitori né Livia. Qualcosa di caldo e desideroso la spinse a fare quella sorpresa.
Lincontro fu pieno di lacrime e abbracci. Elisa, dimenticando la sua rigidezza, piangeva stringendo la figlia; Marco le stringeva la mano in silenzio. Lappartamento profumava di vaniglia, come ai tempi dellinfanzia, e Giulia sentì il peso sul petto sciogliersi.
Al telefono chiamò Livia:
Ciao, sono Giulia. Sono in città.
Un silenzio, poi una risata esultante.
Dove sei?! Stai qui, non muoverti, corro!
Vent minuti dopo Livia sbuffava sulla soglia, ansimante. Si guardarono per un attimo, poi si lanciarono in un abbraccio come bambine di sette anni, ridendo e piangendo insieme.
Giulietta, sei tu? esclamò Livia, asciugandosi le lacrime. Che uccello importante è arrivato!
E tu sei sempre la stessa rispose Giulia, tra una risata.
Sedute nella cucina di Elisa, il tempo tornò indietro. Al posto del cacao con marshmallow, ora scintillava lo spumante; al posto dei compiti, discorrevano le loro vite adulte. Ma la comprensione e la leggerezza erano gli stessi.
Il giorno dopo andammo in un caffè. Tra noi passò il tempo senza accorgercene.
Un giovane al tavolo accanto leggeva un libro, ma i suoi occhi tornavano spesso al nostro tavolo, dove il nostro riso riempiva laria. Quando Livia si alzò per pulirsi il vino, lui si avvicinò a me.
Scusi lintrusione, disse timidamente, ma non ho potuto non notare voi brillate quando parlate. È raro vedere così tanto vero, vivo scambio.
Di solito rimanevo riservata con gli sconosciuti, ma pensai a Livia e risposi:
Non ci vedevamo da anni. Stiamo recuperando il tempo perduto.
Il giovane si presentò come Marco, un blogger che racconta storie di persone comuni ma straordinarie. La nostra storia di due amiche ritrovate lo colpì tanto che chiese di scriverne un articolo e mi diede il suo numero.
Sa, concluse, in un mondo di schermi, la vostra amicizia è come un soffio daria fresca. È davvero raro.
Livia alzò un sopracciglio:
Allora, Giulia? Ti è piaciuto? Ti ho visto guardarlo.
Non è quello, scoccai una mano, ma il sorriso tradì il mio cuore. È solo il fatto che, avvicinandosi al passato, il futuro ti lancia sorprese piacevoli.
Uscimmo dal caffè. Laria era fresca e pulita, i lampioni si riflettevano nelle pozzanghere. Camminavamo fianco a fianco, senza parole, perché tutto ciò che dovevamo dire era già stato detto. In quel silenzio sentii la promessa che le nostre strade non si separeranno più.
Il giorno dopo Marco mi chiamò, proponendomi un incontro.
Non è solo per larticolo disse Ieri ho parlato con il proprietario di una catena di boutique. Sta cercando partner per una collaborazione tra business moderno e artigianato con storia. Ho mostrato le foto delle tue creazioni vuole incontrarvi entrambi.
Rimasi a guardare fuori dalla finestra del mio quartiere, il cortile familiare. Solo tre giorni prima il mio mondo era limitato alle quattro mura dellufficio, ora il destino mi offriva quello che avevo temuto di sognare: non solo riavvicinare lamicizia, ma intrecciare le nostre vite in un unico progetto, coniugare la mia passione per lordine e i numeri con il suo talento di dare vita alle cose più semplici.
Va bene dissi infine incontriamoci nella tua bottega. È il posto giusto.
Rimessi il ricevitore, comprendendo che non era solo unopportunità di lavoro: era la possibilità di riscrivere la nostra storia, di farla finalmente nostra.
**Lezione personale:** ho imparato che le differenze non sono ostacoli ma note diverse di una stessa melodia; quando ascolti davvero, la vita ti regala armonie inattese che nessun piano può prevedere.





