Il Palazzo che Ha Riportato alla Vita

Mi chiamo Andrea, ho conseguito la laurea in architettura con lode e sognavo una bottega tutta mia, progetti che potessero ridisegnare il volto di Milano. Ma il sogno è rimasto in sospeso. Mia madre, Maria, che ha lavorato trentanni in una fabbrica di smaltimento rifiuti, si è gravemente ammalata. I medici, perplessi, consigliavano una cura costosa allestero, ma non avevamo i soldi, neanche per pagare i trattamenti in euro.

Così ho accettato un posto in una modesta studio di progettazione. Disegnavo scatole standard, odiavo ogni linea tracciata. I soldi finivano per le medicine, per lassistente domiciliare. Maria declinava giorno dopo giorno, e con lei svaniva anche la mia speranza nel futuro.

La sera, finito il disegno, mi sedevo sul suo letto. Con gli occhi velati mi sussurrava:
Scusa, figlio mio, per il peso che ti do.
Io le rispondevo:
Smettila, mamma. Andrà tutto bene, ma guardavo fuori dalla finestra, sentendo una pressione dentro di me.

Mi chiusi in me stesso, divenni irritabile. Per distrarmi, tornavo a piedi dal lavoro, attraversando i quartieri più vecchi e dimenticati di Milano. In una di quelle strade, dietro un cancello di vernice scrostata, intravidi qualcosa.

Tra i rami secchi di un vecchio giardino spuntava una dimora. Non era una casa abbandonata qualsiasi, ma il fantasma di una bellezza passata. Il intonaco caduto lasciava intravedere la muratura in mattoni, le cornici intagliate degli infissi erano annerite dal tempo, ma il frontone, la balaustra in ferro battuto, tradivano un disegno unico, ormai dimenticato. Non era una costruzione tipica della cittàera una canzone di pietra che nessuno voleva più ascoltare.

Rimasi immobile, rapito. Il mio sguardo da architetto iniziò a segnare proporzioni, a ricostruire dettagli perduti. Tirai fuori il taccuino che porto sempre con me e scarabocchiai frettolosamente, quasi febbrilmente, temendo che la visione svanisse.

Da quel giorno il percorso delle mie passeggiate non cambiò più. Tornavo al palazzo più e più volte, fermandomi a lungo davanti a esso, disegnando nuovi schizzi. Era una follia, una fuga dalla realtà, ma lunica cosa che mi faceva sentire non un semplice disegnatore di ufficio, ma davvero un architetto.

Una sera, non riuscendo più a resistere, spinsi il pesante cancello cigolante e entrai nel cortile. Il sentiero verso la casa era invaso da erbacce e ortiche. Girai intorno alledificio alla ricerca di un ingresso. Un vecchio sbarramento era socchiusoprobabilmente usato da senzatetto o adolescenti.

Il cuore mi batteva allimpazzata quando varcai la soglia. Dentro regnava umidità, polvere e silenzio. Luce fioca filtrava dalle finestre tapponate, rivelando frammenti di un passato lussuoso: un cornicione in stucco, una piastrella dipinta sul pavimento, una porta doak intagliata.

Accesi la torcia del cellulare e mi inoltrai più a fondo. Nella grande sala con il camino crollato trovai una vecchia cartella, sepolta sotto un cumulo di intonaco spezzato. La sollevai. La copertina di cuoio era incrinata, le pagine ingiallite, ma vi erano disegni. Era il progetto della villa, la mano del maestro.

Mi accasciai sul pavimento, ignorando lo sporco, e cominciai a sfogliare. Il tempo sparì. Oltre a schemi e calcoli, vi erano schizzi di facciate da varie angolazioni, persino un ritratto a matita di un giovane con il cappello da ingegnereprobabilmente colui che aveva infuso vita a quelle mura.

Il cellulare vibrò in tasca. Era lassistente domiciliare: Mia madre sta peggiorando, dobbiamo andare in farmacia subito. Un brivido mi attraversò. Con cura quasi reverenziale nascosi la cartella sotto la giacca e corsi via, sentendo un peso nuovo sul cuore: non solo la brutta notizia, ma la responsabilità improvvisa che era scesa su di me.

Quella sera, dopo aver somministrato i farmaci a madre, mi sedetti al tavolo. Invece dei soliti disegni di lavoro, stesi i bozzetti salvati. Non progettavo più, li scavavo, li indovinavo, li ricostruivo. Larco qui, la finestra più in alto, il vitrail. Disegnai fino allalba, dimenticandomi della stanchezza, e il mio spirito si alleggerì più di quanto non fosse accaduto negli ultimi mesi. Non avevo trovato solo vecchi fogli, ma me stesso.

Un giorno, vedendomi assorto al tavolo, Maria mi chiese:
Che cosè?
Una vecchia casa. La sto restaurando, risposi a malincuore.
Fammi vedere.

Le mostrò gli schizzi, le descrisse comera e comera destinata a diventare. Lei, che non aveva mai mostrato interesse per larte, ascoltava attenta, poneva domande. Nei suoi occhi, per un attimo, tornò la luce di un tempo.

È bello, sussurrò. Molto bello. Che tristezza, se dovesse morire.

Quella notte la sua condizione peggiorò. Ambulanza, ospedale, pareti bianche. Io stavo fuori dalla stanza quando uscì il medico.
La crisi è passata, ma le forze le mancano. Tenete duro.

Uscii dallospedale con un vuoto dentro. Il frastuono della città mi sembrava estraneo e insignificante. Camminai meccanicamente verso la mia villa, come un animale ferito che cerca un rifugio familiare. Appoggiai la fronte al muro ruvido e freddo e chiusi gli occhi.

Che tristezza, se dovesse morire, riecheggiavano le parole di madre nella mia testa.

No. Non potevo permettere né a lei né a quella casa di scomparire. Ma cosa potevo fare? Solo, senza soldi, senza contatti?

Allora mi venne in mente una cosa. Prese il cellulare. Una settimana prima, curiosando tra le notizie locali, avevo letto un articolo sulla salvaguardia del patrimonio storico. Lautrice, la giornalista Elena Sarti, denunciava la demolizione di una dimora antica per far posto a un nuovo centro commerciale.

Con il cuore che batteva forte cercai i suoi contatti e chiamai. Le dita tremavano.
Pronto? rispose una voce giovane.
Elena? Buongiorno, mi chiamo Andrea, sono un architetto. Ho trovato cè una villa. È unica. Potrebbe andare persa. Non so a chi rivolgermi

Parlai balbettando, temendo che mi appendesse, ma poi il silenzio si fece spazio a una domanda calma:
Dove si trova? Può mostrarmela?

Unora dopo Elena era già qui, con macchina fotografica e registratore. La guidai per il giardino incolto, le mostrai la cartella, i dettagli della decorazione. Le parlai dellintento dellarchitetto originale, dello spirito del luogo. I suoi occhi brillavano di quella fame da cacciatrice di storie.

È un dramma pronto, disse, inquadrando una colonna caduta. Bellezza abbandonata, giovane architetto che tenta di salvarla da solo Andrea, vuole che usi la sua storia?

Due giorni dopo, sul portale online del Comune, apparve un articolo dal titolo: Architetto solitario salva un capolavoro: la storia di una villa che la città rischiava di perdere per sempre. Elena mise in risalto non solo la casa, ma il suo difensoreun giovane talentuoso che, nonostante la madre malata, lottava per il patrimonio culturale.

Larticolo fece il giro di internet, venne condiviso sui social, commentato nei forum locali. Il giorno dopo, un compagno di studi, ormai impiegato in una grande studio di progettazione, mi scrisse: Andrea, è vero? Ho parlato con il nostro capo, è scioccato, vuole aiutarci!

E alla sera squillò un numero sconosciuto. Ero ancora in ospedale con la madre.
Andrea? Sono Arsenio Bianchi, rappresentante del fondo Patrimonio. Abbiamo letto larticolo, siamo colpiti dalla sua dedizione. Finanziamo interamente il restauro della villa sotto la sua supervisione. E vogliamo anche aiutare sua madre: abbiamo cliniche partner, anche allestero. Incontriamoci per i dettagli.

Mi sedei sul letto accanto a Maria, incapace di parlare. Il suo volto addormentato mi osservava.

Non ero più solo. La mia lotta silenziosa era stata ascoltata. Ora avevo tutto il necessario per salvare i miei due tesorila madre e il sogno.

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