La notte, che si addensava sulla città, sembrava presagire una tragedia. Nubi pesanti strisciavano nel cielo come se portassero il peso di speranze infrante e destini spezzati. L’auto scivolava sullasfalto bagnato come un fantasma, lasciandosi dietro scie di luci e un silenzio lacerato dallansia. Matteo era al volante, stringendolo come se da quello dipendesse la sua vita. Ogni dosso sulla strada gli risuonava lungo la schiena come un colpo di maglionon fisico, ma dellanima, come se il destino gli ricordasse: niente sarebbe stato facile. Nellauto regnava il silenzio, rotto solo dal respiro affannoso di Ginevra accanto a lui. Si era abbandonata al sedile come per fuggire dal dolore, dalla paura, da se stessa. La mano posata sul ventreenorme, come se contenesse non solo un bambino, ma un intero mondo pronto a crollare. Nei suoi occhi, fissi sul cielo grigio e spento fuori dal finestrino, non cera luce. Solo struggimento. Profondo, viscerale, come il vento dinverno che gela le ossa. Non paura. Non dolore. Solo struggimentoquello che si prova quando si sa che tutto è finito, ma si aggrappa ancora a un miracolo.
“Matteo” la sua voce era più sottile di un filo di ragno, più debole del fruscio del vento tra le foglie dautunno. “Ascoltami. Ti prego.”
Lui annuì senza staccare gli occhi dalla strada, ma ogni fibra del suo essere era tesa. Sentiva che quelle parole non erano una richiesta, ma una condanna.
“Promettimi” deglutì come se volesse ingoiare non solo la saliva, ma la paura stessa. “Se qualcosa dovesse andare storto non incolpare lei. La nostra bambina. Non ha colpa. È solo nata. È venuta al mondo. E tu devi amarla. Per me. Per tutti e due.”
Matteo serrò i denti. Le nocche delle sue mani erano bianche come se si aggrappassero allultimo appiglio in un mare in tempesta. Avrebbe voluto urlare che tutto sarebbe andato bene, che sarebbe sopravvissuta, che sarebbero stati insiemelui, Ginevra e la loro figlianella casa che stava costruendo per loro, con la cameretta, le bambole, i sogni. Ma le parole del medico, sei mesi prima, gli trafiggevano la memoria come un coltello: “Una gravidanza con la tua diagnosi è come giocare alla roulette russa con cinque proiettili nel tamburo. La possibilità è una su sei. E non è uno scherzo. È la morte.” Ricordava come le mani di Ginevra tremavano quando aveva sentito la diagnosi. Come lo aveva guardatonon con disperazione, ma con una supplica. “Lo voglio, Matteo. Voglio essere madre. Voglio che il nostro amore rimanga in questo mondo. Voglio che qualcosa resti di noi.” Non aveva saputo dirle di no. Non perché fosse debole. Ma perché lamava. Senza limiti. Completamente. E aveva credutonon nella medicina, non nelle probabilità, ma in lei. Nella sua forza, nella sua luce, nella sua fede che lamore è più forte della morte.
“Ginevra,” sussurrò, con la voce che tremava, “torneremo a casa. Tutti e tre. Lo giuro. Non ti lascerò andare. A qualsiasi costo.”
Parlava con coraggio, ma dentro di sé tutto si sbriciolava. Ogni parola era un tentativo di rattoppare le crepe nellanima che si allargavano col passare dei minuti.
Quando arrivarono al pronto soccorso, la pioggia sferzava i vetri come se il cielo piangesse per loro. Laiutò a scendere, sostenendole il braccio, sentendola tremarenon per il freddo, ma per il presentimento. Lei si voltò, gli poggiò la fronte sul petto, e poi sussurrò:
“Ti amo, Matteo. Più della vita. Più di qualsiasi altra cosa al mondo. Credo in te. Ce la farai. Sei più forte di quanto pensi.”
Quellabbraccio durò pochi secondi, ma gli si incise nella memoria come lultima luce prima del buio eterno. Poi la portarono via su una barella, e lui rimase sotto la pioggia, bagnato non dallacqua ma dal gelo della solitudine. Mezzora dopo, arrivò un medicoun uomo anziano col volto scavato come la pietra, con occhi in cui ormai rimaneva solo la stanchezza.
“La situazione è critica,” disse senza preamboli, senza pietà. “La coagulazione del sangue di tua moglie è quasi azzerata. Stiamo lottando, ma le possibilità sono poche. Molto poche. Non resta che sperare. Anche se, a dirla tutta, in questo mestiere i miracoli non esistono.”
Matteo crollò sui gradini dellingresso come se le gambe gli avessero tradito. Il freddo della pietra gli penetrava i pantaloni, ma non sentiva nulla. Il tempo si era fermato, appiccicoso come la resina. Si alzò, camminò avanti e indietro, serrò i pugni, pregònon un dio che non conosceva, ma qualsiasi cosa potesse ascoltarlo: stelle, destino, luniverso stesso. “Falla tornare. Prendi me al suo posto, ma falla tornare.” Era pronto a dare tuttosoldi, lavoro, vitapur che lei sopravvivesse.
E poi, come dal nulla, arrivò Simona. Conosceva Ginevra dalluniversità, era sua amica, lavorava come infermiera nel reparto pediatrico. Aveva i capelli corti e scuri, occhi stanchi, e addosso lodore del disinfettante misto a nervosismo. Si sedette accanto a lui senza chiedere, come se già sapesse.
“Come sta?”
Lui scosse la testa. Il suo volto era una maschera di dolore.
“Malissimo,” sussurrò.
Simona sospirònon con pietà, ma con irritazionee allimprovviso disse:
“Egoista. Sapeva a cosa andava incontro. Sapeva che poteva lasciarti. E tu? I tuoi genitori? Siete solo pedine nel suo gioco?”
Matteo si girò di scatto. Qualcosa di primordiale gli illuminò gli occhirabbia, dolore, incredulità. Come osava? Come poteva parlare così di Ginevrala donna per cui lui avrebbe spostato le montagne? Ma il dolore lo aveva stordito. Non trovò le parole. Pensò fosse solo la stanchezza, il cinismo che i medici sviluppano per sopravvivere.
“Andiamo via da qui,” disse Simona, prendendogli la mano. “Rimanere qui ti sta facendo impazzire. Andiamo. Beviamo qualcosa. Aspettiamo.”
La seguì come un cieco, come un burattino. Comprarono del brandy economico a un chiosco vicino allospedale, si sedettero su una panchina in una piazza dove il vento muoveva foglie e sacchetti di plastica. Simona versò il brandy in bicchieri di plastica. Lui bevve avidamente, senza sentire il sapore, solo il bruciore in gola che per un attimo attenuava il dolore. Lei parlò di sciocchezzebambini nel reparto, colleghi, il tempo. La sua voce era ferma, come un medicinale. E lui si aggrappò a quella voce come a unancora di salvezza.
Si svegliò sul divano, ancora vestito. La testa gli scoppiava. La bocca era secca. La prima cosa che fece fu afferrare il telefono. Il numero della sala infermieri. La voce dellinfermiera: “Condizione stabile. Grave.” Non era una buona notizia. Era la quiete prima della tempesta. Balzò in piedi, uscì di casa come





