Ami e segreti: al funerale di mio marito, un uomo anziano mi sussurra: “Ora siamo liberi”. Era colui che amavo a vent’anni, ma la vita ci ha separati.

15 aprile Cimitero di San Pietro, Pomigliano dArco. Un uomo anziano, la barba bianca come la nebbia del mattino, si avvicinò e mi sussurrò: «Adesso siamo liberi». Era luomo che avevo amato a ventanni, ma che la vita ci aveva separati.

Il terreno puzzava di lutto e di umidità. Ogni pietra gettata sul coperchio della bara rimbombava come un colpo sordo sotto le costole.

Cinquanta anni. Unintera vita trascorsa con Daniele. Una vita fatta di rispetto silenzioso, di abitudini che si erano trasformate in tenerezza.

Non pianse. Le lacrime si erano asciugate quella notte, quando ero accanto al suo letto e tenevo la mano ormai fredda, ascoltando il suo respiro diventare più flebile fino a spegnersi del tutto.

Attraverso il velo nero scorsi i volti dei parenti e degli amici, parole vuote, abbracci formali. I miei figli, Gabriele e Livia, mi tenevano per le braccia, ma quasi non sentivo il loro tocco.

E fu allora che lui comparve. Sbiadito, con le rughe profonde attorno agli occhi, ma con la schiena dritta che ricordavo. Si avvicinò al mio orecchio e il suo sussurro, tremante come una vibrazione, trafisse la coltre di dolore.

Marco, adesso siamo liberi.

Per un attimo smisi di respirare. Lodore del suo profumo sandalo e legno di pino colpì le tempie. In quel profumo cerano arroganza e dolore, passato e presente fuori luogo. Sollevai lo sguardo. Costante. Il mio Costante.

Il mondo vacillò. Il profumo di incenso divenne aroma di fieno e pioggia estiva. Mi ritrovai di nuovo ventenne.

Correvamo mano nella mano. La sua mano era calda, forte. Il vento scompigliava i miei capelli, il suo riso si perdeva nel frinire dei cavalli. Fuggivamo dalla casa, dal futuro scritto su carte.

Quel falco non è per te! ruggì la voce di mio padre, Costante Matteo. Non ha né un centesimo danima né una posizione nella società!

Mia madre, Sofia, incrociò le braccia, guardandomi con rimprovero.

Riflettici, Marco! Ti rovinerà.

Ricordo la risposta, ferma e dura come lacciaio.

La mia vergogna è vivere senza amore. E il vostro onore è una gabbia.

Lo trovammo per caso: una vecchia casetta del guardaboschi, avvolta dalla terra fino alle finestre. Divenne il nostro mondo.

Sei mesi. Cento ottantatré giorni di felicità disperata. Tagliavamo legna, portavamo acqua dal pozzo, leggevamo alla luce di una lampada a olio un solo libro, due persone. Era freddo, fame, difficoltà.

Ma respiravamo lo stesso aria.

Un inverno, Daniele si ammalò gravemente. Giaceva febbrile, come una stufa accesa. Lo curai con erbe amare, cambiando le fredde fasciature sulla fronte e pregando tutti gli dei che conoscevo.

Fu allora, fissando il suo volto spento, capii che quella era davvero la mia vita, quella che avevo scelto.

Primavera li trovò. I crochi trafiggevano la neve. Nessun grido, nessuna lotta. Tre uomini in cappotti scuri e mio padre apparvero.

Il gioco è finito, Marco disse, come se si trattasse di una partita a scacchi persa.

Lo portarono via due uomini. Daniele non lottò, non urlò. Guardò solo me, e nei suoi occhi cera un dolore tale da farmi quasi soffocare. Uno sguardo che prometteva: «Ti troverò».

Mi portarono via. Il luminoso mondo del bosco divenne la stanza grigia e polverosa della casa di famiglia, piena dodore di naftalina e speranze infrante.

Il silenzio divenne la punizione principale. Nessuno alzava la voce contro di me. Scomparve, quasi, come un oggetto di arredo destinato al vecchio magazzino.

Un mese dopo, Costante entrò nella mia stanza, fissava il finestrino.

Sabato arriverà il signor Daniele con il figlio. Metti ordine.

Non risposi. Che senso aveva?

Il signor Daniele era lopposto di Alessandro. Calmo, taciturno, con occhi gentili e stanchi. Parlava di libri, del suo studio di ingegneria, dei progetti futuri. Nessun posto per follie o fughe.

Il nostro matrimonio fu celebrato in autunno. Indossai un abito bianco come una bara, risposi sì meccanicamente. Costante era soddisfatto; aveva ottenuto lo sposo ideale, la partita giusta.

I primi anni con Daniele furono una nebbia densa.

Vivevo, respiravo, facevo cose, ma sembravo non svegliarmi davvero. Ero una moglie obbediente: cucinavo, pulivo, lo aspettava dal lavoro. Non chiedeva nulla, era paziente.

A volte, di notte, quando credeva che dormissi, avvertivo il suo sguardo. Non cera passione, ma una compassione infinita, più dolorosa del rimprovero paterno.

Un giorno mi regalò un ramo di viburno. Entrò nella stanza e me lo porse.

Fuora è primavera sussurrò.

Il profumo amarognolo riempì la stanza. Quella sera piansi per la prima volta in mesi.

Daniele si sedette accanto, senza abbracciarmi, senza consolarmi; era semplicemente lì. Il suo silenzio fu più forte di mille parole.

La vita andò avanti. Nacque un figlio, Gabriele, poi una figlia, Livia. I bambini riempirono la casa di senso. Guardando le loro piccole dita, i loro sorrisi, il ghiaccio nel mio cuore iniziò a sciogliersi.

Imparai a valutare Daniele: la sua affidabilità, la sua forza tranquilla, la sua bontà. Divenne il mio amico, il mio sostegno. Lo amarei, non con la fiamma intensa del primo amore, ma con una tenerezza matura, sopportata.

Alessandro non andò via. Appariva nei sogni. Correvamo di nuovo nei campi, vivevamo ancora nella nostra casetta.

Mi svegliavo con le guance bagnate di lacrime, e Daniele, senza una parola, stringeva più forte la mia mano. Capiva tutto e perdonava tutto.

Scrissi a Alessandro decine di lettere mai spedite. Le bruciavo nel camino, guardando le fiamme inghiottire parole destinate a lui. Non gli chiedetti nulla, non cercai informazioni. Avevo paura di distruggere il fragile mondo che avevo costruito, di scoprire che laveva dimenticato, odiato o sposato. La paura fu più forte della speranza.

E ora eccolo qui, al funerale di Daniele. Il tempo ha levigato i lineamenti del suo volto, ma non ha cambiato gli occhi: ancora penetranti come allora.

Le esequie furono un sogno. Accettai le condoglianze meccanicamente, annuendo, rispondendo fuori tempo. Il mio intero essere era teso come una corda, sentivo la sua presenza alle spalle.

Quando tutti se ne andarono, lui rimase, fermo alla finestra, a guardare il giardino che scuriva.

Ti cercavo, Marco disse, la voce più bassa e rauca.

Ti scrivevo ogni mese per cinque anni. Il tuo padre restituiva tutte le lettere senza aprirle continuò.

Poi ho saputo che ti eri sposata.

Il peso dellaria divenne opprimente. Ogni sua parola si posava come polvere sul ritratto di Daniele sullo scaffale del camino. Cinque anni, sessanta lettere, forse in grado di cambiare tutto.

Mio padre iniziai, ma la voce si spense. Cosa potevo dire? Che aveva rotto non una, ma due vite, con le migliori intenzioni?

Sono venuto una settimana dopo che ci hanno separati. Ha imposto una condizione: dovevo lasciare la città per sempre e non scriverti più.

Invece non ha firmato alcuna denuncia per rapimento di figlia. Era solo una farsa, ma a ventanni ho avuto paura. Non per me, ma per te.

Ricordai Costante, il suo mento forte, lo sguardo autoritario, e il giovane Alessandro, smarrito, umiliato, ma che cercava dignità.

Sono partito in una zona remota, ho lavorato come geologo. Le comunicazioni erano quasi inesistenti, le lettere arrivavano mesi dopo. Pensavo di fuggire da tutto. Non si scappa da sé disse, accarezzandosi la chioma bianca. Scrivevo allindirizzo di tua zia.

Pensavo fosse più sicuro. Forse Costante lo prevedeva. Le spedizioni duravano duetre anni. Quando tornai, dopo cinque, era troppo tardi.

La stanza in cui avevo passato cinquantanni con Daniele divenne improvvisamente estranea. Le pareti, intrise della nostra vita, osservavano in silenzio. La sedia dove Daniele leggeva, il tavolino dove giocavamo a scacchi: tutto reale, caldo, mio. Ma ora un fantasma del passato irruppe, scuotendo tutto.

E tu? chiesi, temendo la risposta.

Io? Sono vivo, Marco. Ho lavorato, mi sono perso nelle remote montagne, ho provato a dimenticare, senza successo. Poi ho incontrato una donna, buona, semplice, medico di una spedizione. Ci siamo sposati, abbiamo due figli, Pietro e Alessio.

Lo disse senza fronzoli; la sua semplicità fu più dolorosa di ogni odio. Il sogno in cui lui era lunico ad attendermi si frantumò in mille frammenti.

Viveva, aveva una famiglia, un posto dove non cero più. Sentii un bruciore di gelosia inappropriata, gelosia per un passato che non avevo.

Si chiamava Caterina. È morta sette anni fa per una malattia proseguì, guardando oltre il muro. I figli sono cresciuti, sparsi. Sono tornato in città un anno fa.

Un intero anno? balbettai. Perché

Cosa avrei dovuto fare, Marco? mi fissò. Venire qui, nella tua casa?

Lavevo vista qualche volta: al parco, vicino al teatro. Camminavi con un uomo, parlavate sottovoce. Sembravi serena, pacata. Non avevo diritto a distruggere quella quiete.

Perché sei qui oggi, Alessandro? interruppe, dovevo sapere. Volevo capire perché rovinare il mio mondo appena sopravvissuto al lutto.

Ho letto lobituario. Il tuo nome, Daniele mi è rimasto impresso. Sono venuto non per chiedere nulla, ma per chiudere quella porta, o forse aprirla. Non lo so.

Fece un passo verso di me. Marco, non ti chiedo di dimenticare la tua vita. Vedo, dalle foto, che sei felice.

E il tuo marito era un uomo buono. Voglio solo sapere se nel tuo cuore resta un briciolo di quel fuoco che ardeva nella casetta del guardaboschi.

Lo guardai, quelluomo anziano, stanco, con quel giovane disperato ancora lì dentro. Il ritratto di Daniele con gli occhi gentili mi fissava.

Un uomo mi aveva dato sei mesi di fuoco, per cui ho pianto tutta la vita.

Laltro mi aveva dato cinquantanni di calore, che ho imparato ad apprezzare troppo tardi.

Non lo so risposi sinceramente. So solo che oggi ho seppellito il mio marito. Lo amavo.

Annui, e nei suoi occhi vidi comprensione, non rancore.

Lo capisco. Perdona. Tornerò tra quaranta giorni, se me lo permetti.

Se ne andò. Il suono della porta che si chiudeva non portò sollievo; al contrario, la casa vuota dopo le esequie si riempì di domande.

Quarant giorni. Nella tradizione ortodossa quel periodo è il tempo dellanima per salutare la terra. Per me furono quarant giorni per fare i conti con i mondi dentro di me.

La prima settimana smontai gli oggetti di Daniele. Era una tortura e una cura insieme. Il suo maglione ancora profumava di tabacco. Gli occhiali sul tavolo accanto a un libro non finito. Ogni cosa gridava di lui, della nostra vita tranquilla ma ben calcolata.

Nel cassetto trovai una vecchia scatola. Dentro non cerano documenti né premi, ma i miei fiori secchi, il biglietto del cinema del nostro primo appuntamento e una foto sbiadita di me a ventuno anni.

Guardai la foto con serietà quasi minacciosa. Nessun sorriso. Daniele aveva conservato quel ricordo per cinquanta anni, custodendomi così, quella che aveva ricevuto, non quella che sognava. In quel silenzioso venerarsi cera più amore di quanto non ci fossero le più ardenti promesse.

I giorni passarono. I figli chiamavano, venivano, portavano provviste. Il loro affetto aumentava il senso di colpa.

Un pomeriggio Livia mi abbracciò e disse:

Mamma, sappiamo che è difficile. Papà ti amava tanto. Diceva sempre che sei la cosa migliore della sua vita.

Le sue parole mi trafisserE così ho compreso che la vera libertà nasce dal saper custodire il fuoco del passato mentre si cammina sereni verso il domani.

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