26 aprile 2025
Oggi, seduto nella piccola sala di cura del nostro borgo di San Martino, ascolto il cigolio dei piatti di ferro appesi al muro uno, due, uno, due come se fossero i secondi di una vita che si conta. Mi chiedo quante storie abbiano attraversato queste mura, quante lacrime abbia assorbito il vecchio lettuccio rivestito di tessuto grezzo.
Allimprovviso la porta cigola con un lamento gelido, come se il freddo lavesse stretto. Sulla soglia cè Ginevra Cremisi, diritta come un palo, asciutta, senza una lacrima che si faccia strada. Da quarantanni la guardo: il suo viso è scolpito nella pietra e nei suoi occhi scintillano due frammenti di ghiaccio.
Entra in silenzio, toglie luncinetto bagnato dalla testa grigia, lo appende al gancio con la cura di unonorificenza. Si siede sul bordo della sedia, schiena dritta, mani intrecciate sul grembo dita sottili avvolte in un nodo.
Buongiorno, signora Cremisi, il suo tono è sempre impassibile, liscio come una tela tesa.
Buongiorno, dottore Antonio. Cosa ti porta qui? Il cuore ti gioca scherzi?
Rimane immobile, osservando la pioggia grigia che scorre fuori dalla finestra. Poi, a voce quasi sussurrata, riesce a dire:
Fedele sta morendo.
Il mio cuore si stringe. Fedele Ruggeri, luomo con cui Ginevra aveva sognato di condividere una vita quarantanni fa. Il villaggio intero conosce la loro storia, una favola amara. Le loro case, una di fronte allaltra, si trovano su rive opposte del fiume Lungo, come due sponde che non si incontreranno mai. Nessuna parola, nessuno sguardo. Se Ginevra attraversa il ponte per andare al mercato, Fedele aspetta, nascosto, finché non scompare, per poi emergere dallaltra sponda. Una guerra silenziosa, più cruda perché invisibile.
I medici del distretto sono venuti, continua Ginevra con voce di pietra hanno detto due o tre giorni, non di più. Resisterà a stento.
La guardo senza capire. Perché è venuta da me? Per informarmi? Per gioirsi? Nei suoi occhi di ghiaccio non cè né gioia né tristezza, solo un vuoto bruciato come terra arsa.
Sono andata da lui, dottore, ora è da lui che vengo.
Perdo le parole. Ginevra? Fedele? È come se il nostro fiume scorresse al contrario!
Lei sembra aver letto i miei pensieri, un angolo della bocca si incurva in un sorriso amaro, spettrale.
Sua vicina, Claudia, è arrivata stamattina. Dice che lui la chiama. Vuole chiedere perdono prima di morire. Sono venuta. Voglio guardarlo negli occhi unultima volta, fargli vedere che non lho spezzato. Che non lho perdonato.
Il silenzio avvolge la stanza, il mio cuore batte forte come un tamburo. Ginevra fissa un punto fisso, le mani si stringono fino a far impallidire le nocche. Capisco che, in questo preciso istante, la diga che aveva costruito per quarantanni sta per crollare.
Sono qui è secco, la carne è solo ossa. Gli occhi sono spenti, respira a intermittenza. Quando mi ha visto le labbra tremarono, ma non riesce a parlare. Solo guarda, e nei suoi occhi non cè paura, signora, non cè. Cè una tristezza mortale, come se non fosse la malattia a ucciderlo, ma questo dolore. Ha allungato la mano, secca come un ramo autunnale
Ginevra rimane immobile, una singola lacrima scivola lentamente lungo la sua guancia pietrificata, pesante, salata dal dolore di quarantanni.
Io non ho potuto. Non ho potuto prendere la sua mano. Sto lì come una statua, mentre le parole di mio padre risuonano nelle orecchie. Ti ricordi, padre Paolo? Diceva sempre: Ginevra, ti darò Fedele e sarò in pace. Quando Fedele, dal paese, tornò con una ragazza di città, mio padre cadde malato e una settimana dopo morì. Prima di morire mi disse: Figlia, non perdonare il tradimento, mai. Ecco perché non lho perdonato. Sono sopra di lui, lo guardo spegnersi e voglio urlare: Non perdono! Ascolti? Non per me, ma per mio padre! Le parole rimangono impresse nella gola, una rabbia che mi consuma. Che tipo di persona sono, dottore? Che cuore di pietra ho? Lui muore e io non gli porgo nemmeno una mano. Mi giro e me ne vado.
Le sue mani tremano, le spalle scuotono un lamento muto, asciutto. Non piange, si spezza dentro. Tutta la sua dignità, la sua forza di roccia, si trasformano in polvere sul mio vecchio sgabello.
Con passo lento, le porto un bicchiere di vetro tagliato, lo riempio dacqua e qualche goccia di valeriana. Lo prende, le dita tremano, il bicchiere tintinna sui denti. Lo beve dun fiato.
Ho vissuto tutta la vita con questo rancore, dottore. Mi scaldava come un fuoco. Non mi lasciava cedere, non mi faceva compiangere. Ho tenuto la casa stretta come un pugno, il giardino è un deserto. Tutto per lui, così poteva vedere che vivo senza di lui. Ora muore, e che resta? Con cosa vivrò? Solo vuoto
La guardo, ma anche la sua anima è smarrita. Così è la vita, cari miei: porti dentro unoffesa, la accarezzi come un bambino, ma è quelloffesa che ti divora dallinterno. Pensi che sia la tua forza, ma è la tua croce, la tua prigione.
Vai da lui, Ginevra sussurro. Vai. Non per lui. Vai per te stessa. Non per perdonare. Solo per stare accanto. Morire da soli è spaventoso.
Lei alza gli occhi, colmi di tormento, e dentro di me qualcosa si stringe.
Non potrò, dottore. Non potrò. Sono una pietra, non una donna.
E se ne va, silenziosa come è arrivata. Rimette il suo fazzoletto bagnato e scompare nella pioggia grigia.
Passo la serata in agitazione, rimuginando su loro, sul fiume che divideva i destini, sullorgoglio più forte dellamore, sul patto del padre che è diventato una maledizione. Non riesco a dormire, mi rigiro fino allalba, quando decido di andare io da Fedele. Darò uniniezione di analgesico e resterò semplicemente al suo fianco. Non è un gesto da medico, ma da uomo.
Indosso il cappotto, allaccio gli stivali e varco il ponte verso laltra riva. Lalba è avvolta da nebbia, bianca come latte. Mi avvicino alla casa di Fedele, il cuore batte allimpazzata, temendo di essere tardivo.
La porta del vestibolo è aperta. Entrò silenzioso. Laria è intrisa di legno vecchio, erbe e brodo di pollo. Mi chiedo da dove provenga quellodore. Apro la porta della stanza: è Ginevra, in grembiule, i capelli raccolti sotto una sciarpa. Il volto è stanco, ma vivo, non più di pietra. Si gira, posa un dito sulle labbra: Silenzio, dottore. Dorme.
Mi avvicino al letto. Fedele è pallido, ma respira regolare, tranquillo, non come un morente. Sul comodino cè un bicchiere di decotto di rosa canina e un piattino con un biscotto spezzato.
Ginevra e io scendiamo in cucina. Lei chiude la porta e, esausta, si siede su uno sgabello.
Dopo di te, dottore, torno a casa mormora camminavo senza una meta, come una bestia che rosicchia lanima. Poi ho capito: non era rabbia, era paura. Temevo che se ne andasse e io sarei rimasta con questo masso sul cuore. E il volto di mio padre mi osservava dal ritratto, scuotendo la testa. Non voleva che la sua figlia bruciasse la vita nellodio.
Un sospiro, quasi unalba interiore.
Ho preso il brodo che avevo preparato la sera continua e sono andata da lui. La notte era già avanzata. Se fosse morto, almeno lo avrei assistito da uomo. Lho trovato a gemere, a chiedere da bere. Ho bagnato le labbra, poi gli ho dato il brodo con un cucchiaino. A sorsette, a sorsette Alla fine ha aperto gli occhi, mi ha guardato e ha detto con chiarezza: Ginevra, piccola mia, perdonami. E ha pianto. Sì, questo orgoglio di pietra ha pianto.
E tu? chiedo. Che cosa hai fatto?
Ginevra guarda le mani dure, appoggiate sulle ginocchia.
Non ho detto ti perdono. Non potevo mentire. Non lho perdonata, per mio padre, per i quarantanni di fuoco. Ma ho tenuto la sua mano tutta la notte. Sentivo la rabbia scivolare via, goccia dopo goccia. Come se non fosse lui a guarire, ma io. Allalba è dormito sereno, la febbre è sparita. Forse vivrà ancora il mio nemico più caro.
È passato sei mesi. Lautunno è divenuto inverno, linverno ha ceduto alla primavera e ora è estate, il culmine del sole. Lerba ondeggia, le api ronzano sui trifogli, è una benedizione.
Fedele è rimasto in piedi. Non è stato un miracolo immediato, ma Ginevra lha sostenuto. Ogni giorno attraversa il fiume, porta latte, porta torte, in silenzio. Lui mangia, dice: Grazie, Ginevra. Lei annuisce e se ne va. Il villaggio osserva, temendo di spezzare quel fragile cessate.
Ricordo una volta, in fondo al villaggio, ho deviato per passare davanti alla casa di Fedele. Lì, sotto un vecchio melo, li ho visti: lui e lei, ormai anziani, capelli dargento. Lui intaglia un piccolo flauto di legno per i bambini del paese; lei pulisce le patate in una ciotola e gli racconta dei cetrioli che ha coltivato. Il sole filtra tra le fronde, i fasci di luce danzano sui loro volti, un silenzio di pace che sembra quasi proibire di parlare a voce alta.
Non si chiamano più piccolina né si guardano con occhi innamorati da giovani. Sono solo due anziani, due vicini di riva, che hanno capito, alla fine, che la cosa più importante non è il perdono né lorgoglio, ma la mano tesa e il bicchiere di brodo. Hanno sorriso vedendomi avvicinarmi.
Ginevra, siediti! grida Fedele, ormai più forte. Ginevra porta il kefir freddo dal cantina!
Mi siedo e bevo quel kefir frizzante, guardo il fiume scintillare sotto il sole, e penso È stato un nonperdono? O è la forma più alta di perdono, che non ha bisogno di parole? Che ne dite?
La lezione che porto con me, dopo tutto questo, è che lodio è una fiamma che brucia chi lo custodisce. Solo accogliendo il dolore, lasciandolo scivolare, si può trovare una quiete che nessuna parola può descrivere. In fondo, il vero perdono è stare accanto, anche quando il cuore è di pietra.





