**Diario di un padre**
Ho trovato un bambino di tre anni, cieco, abbandonato sotto un ponte nessuno lo voleva, così ho deciso di essere suo padre.
«Cè qualcuno là sotto», sussurrò Chiara, puntando la debole luce della torcia verso lombra del ponte.
Il freddo le penetrava nelle ossa, e il fango del tardo autunno le appesantiva i passi. Dopo dodici ore di turno allospedale, le gambe le dolevano, ma quel suono flebile un pianto soffocato nel buio le fece dimenticare ogni stanchezza.
Scivolò giù lungo la discesa, aggrappandosi alle rocce bagnate per non cadere. La luce illuminò una piccola figura rannicchiata contro un pilastro di cemento. Scalzo, con solo una maglietta leggera e zuppa, il bambino era coperto di fango.
«Mio Dio» Chiara si avvicinò in fretta.
Il bambino non reagì alla luce. I suoi occhi velati, senza vita sembravano guardare oltre. Gli passò una mano davanti al viso, ma le pupille non si mossero.
«È cieco», mormorò, sentendo il cuore stringersi.
Si tolse il giubbotto, lo avvolse delicatamente attorno al piccolo corpo gelido e lo sollevò tra le braccia.
Arrivò unora dopo lagente locale, Marco Bianchi. Ispezionò la scena, annotò qualcosa nel taccuino e scosse la testa.
«Probabilmente è stato abbandonato qui. Qualcuno lha portato nel bosco e lasciato indietro. Ultimamente succede spesso. Sei ancora giovane, Chiara. Domani lo porteremo allorfanotrofio di provincia.»
«No», rispose lei, stringendo il bambino più forte. «Non lo abbandonerò. Lo tengo con me.»
A casa, riempì una bacinella di acqua calda e lo lavò con cura. Lo avvolse in una coperta di lino con margherite ricamate quella che sua madre teneva «per ogni evenienza». Il bambino mangiava a malapena, non parlava, ma quando Chiara lo coricò accanto a sé, afferrò il suo dito con le manine e non lo lasciò per tutta la notte.
La mattina, sua madre bussò alla porta. Vedendo il bambino, si irrigidì.
«Hai capito cosa hai fatto?» sussurrò, per non svegliarlo. «Hai solo ventanni! Niente marito, niente soldi!»
«Mamma», la interruppe Chiara, ferma. «Ho deciso così. Non cambierò idea.»
«Oh, Chiara» sospirò la madre. «E se i genitori tornassero?»
«Dopo un gesto del genere?» Scrollò le spalle. «Che ci provino.»
Sua madre se ne andò sbattendo la porta. Ma quella sera, suo padre, senza dire una parola, lasciò sulla soglia un cavallino di legno un giocattolo che aveva intagliato con le sue mani. E aggiunse piano:
«Domani porterò delle patate. E un po di latte.»
Era il suo modo per dire: ci sono.
I primi giorni furono i più duri. Il bambino restava in silenzio, mangiava poco, sobbalzava a ogni rumore. Ma dopo una settimana, imparò a trovare la sua mano al buio, e quando Chiara gli cantò una ninna nanna, sul suo viso apparve il primo sorriso.
«Ti chiamerò Matteo», decise un giorno, dopo averlo lavato e pettinato. «Ti piace questo nome? Matteo»
Il bambino non rispose, ma le tese le braccia, cercandola.
Le voci si sparsero in paese. Alcuni ebbero pietà, altri la criticarono, molti si stupirono. Ma Chiara non ci badò. Il suo mondo ora ruotava attorno a quella piccola persona a cui aveva promesso calore, una casa, amore. E per questo, era pronta a tutto.
Passò un mese. Matteo sorrideva quando sentiva i suoi passi. Imparò a tenere il cucchiaio, e quando Chiara stendeva il bucato, cercava le mollette nel cesto e gliele porgeva.
Una mattina, mentre era seduta accanto a lui, il bambino le sfiorò la guancia e disse con voce bassa ma chiara:
«Papà.»
Chiara si bloccò. Il cuore gli si fermò, poi ricominciò a battere così forte da toglierle il fiato. Prese quelle manine tra le sue e sussurrò:
«Sì, tesoro. Sono qui. E ci sarò sempre.»
Quella notte non dormì rimase accanto al suo letto, accarezzandogli i capelli, ascoltando il respiro regolare. Al mattino, suo padre tornò.
«Conosco qualcuno al comune», disse, girando un cappello tra le mani. «Possiamo chiedere laffidamento. Non preoccuparti.»
Fu allora che Chiara pianse non di tristezza, ma di una felicità così grande da scoppiarle dentro.
Un raggio di sole sfiorò la guancia di Matteo. Non batté le palpebre, ma sorrise sentendo qualcuno entrare nella stanza.
«Papà, sei tornato», disse con sicurezza, tendendo le braccia verso la sua voce.
Quattro anni dopo. Matteo aveva sette anni, Chiara ventiquattro. Il bambino si muoveva per casa con sicurezza: conosceva ogni gradino, ogni assito scricchiolante. Si muoveva come se sentisse lintero spazio attorno senza vista, ma con una percezione interiore.
«Micio è sulla veranda», disse un giorno, versandosi un bicchiere dacqua. «I suoi passi sembrano il fruscio dellerba.»
Il gatto rosso era diventato il suo compagno. Sembrava capire che Matteo era speciale e non lo lasciava mai quando cercava la sua zampa.
«Bravo», lo baciò Chiara sulla fronte. «Oggi verrà qualcuno che ti aiuterà ancora di più.»
Quel qualcuno era il signor Rossi un uomo magro con i capelli grigi alle tempie, pieno di libri vecchi e appunti. Il paese lo chiamava «il matto della città», ma Chiara capì subito che aveva la gentilezza di cui Matteo aveva bisogno.
«Buon





