Ricordo ancora i giorni della mia giovinezza, quando il sorriso di mia nonna Lucia era lunico tesoro che avevo. Alla fine di un inverno rigido, con la sua pensione che a malapena bastava a comprare il pane, mi portò al nuovo centro commerciale di Milano. Era la prima volta che varcavamo la soglia di una città così grande; né io né la piccola nonna avevamo mai messo piede lì. Il nostro mondo era limitato al villaggio di Monti, al mercato del sabato e alla nostra casa di pietra, un ciclo che si ripeteva senza interruzioni.
Quella mattina, qualcosa si era insinuato nel petto della nonna, una voglia di mostrarmi qualcosa di diverso:
Andiamo a vedere comè lì comè che si chiama, nonna? chiesi, curioso.
Al centro commerciale, nonna, rispose Davide, orgoglioso di usare la parola nuova. Linsegnante aveva detto che era un palazzo intero in un edificio.
Lucia strinse il sorriso dentro il suo scialle di lana. Raccolse i pochi spiccioli della pensione, le uova vendute al portico, le verdure e qualche vasetto di marmellata di pomodori. Non lo faceva per il centro commerciale, ma per vedere il suo nipotino felice.
Il padre di Davide aveva partito per lestero solo per due anni, ma da allora erano passati già quattro. Il padre era sparito un giorno, dopo aver detto di andare a cercare lavoro in città, e non fece più ritorno. Da allora la vita di Davide ruotava attorno a quelle due mani rugose, spezzate dal tempo ma colme damore.
Non ti vergognerai di me, nonna? mi domandò una sera prima del viaggio.
Come potrei vergognarmi? Tu sei tutto quello che ho, nonna, risposi, serio come un uomo grande.
Quando scendemmo dallautobus, il centro commerciale si ergé davanti a noi, lucente e freddo, con pareti di vetro. Lucia inspirò profondamente, come se stesse entrando in un mondo diverso.
È davvero un edificio, non è uno scherzo sussurrò.
Andiamo, nonna, ti mostro dentro! esclamò Davide.
Le porte si aprirono da sole e Lucia rimase a bocca aperta.
Signore mio, sembrano le porte del paradiso si disse, facendo il segno della croce in silenzio per non farla prendere in giro la gente.
Dentro cerano luci fredde, musica, gente che correva. Ragazzi con borse di marca, donne con tacchi alti, bambini vestiti da copertina di rivista. Noi due sembravamo usciti da un film.
Davide mi strinse la mano; io gli tenevo le dita come se fosse il mio tesoro.
Guarda, nonna, lì ci sono vestiti, giochi quella è la banda che vediamo in TV.
Tanto, tanto sussurrò, sopraffatta.
Entrammo in un negozio di abbigliamento per bambini. I vestiti erano appesi ordinati, colorati, a misura perfetta, non come nel nostro armadio dove tre magliette e due pantaloni lottavano per anni contro il tempo.
Provate quello che volete, sorrise la commessa.
Lucia arrossì.
No, no, noi solo guardiamo disse.
Ma Davide già sfiorava un felpato blu con un piccolo supereroe sul petto.
Nonna, lasciami solo provarlo non dobbiamo comprarlo.
Davanti a quel scaffale, tutte le mie preoccupazioni riaffiorarono: la pensione stretta, le bollette, lolio, lo zucchero, le medicine. Ma sopra tutto, il ricordo della sua infanzia si fece più forte.
Prendilo, nonna, provami, disse con voce più decisa di quanto si sentisse.
Mi aiutò a farlo entrare. Il felpato gli calzò a pennello, come se fosse stato cucito per lui. Davide si guardò nello specchio e, per un attimo, non era più il bambino con le ginocchia sgangherate e i vestiti logori; era un ragazzino come quelli delle pubblicità.
Nonna, sembro quei ragazzi della città, sussurrò, cercando di non esultare troppo per non farmi male.
I miei occhi si fecero umidi.
Sei stato bello anche con i vestiti vecchi, ma questo questo sembra fatto per te.
Quando vidi il prezzo, il cuore si strinse. Calcolai mentalmente quante pagnotte, quante sacchi di farina, quanti biglietti del tram avrei dovuto sacrificare per quelle monete. Guardai di nuovo Davide, che timidamente tirava su le maniche del felpato, convinto che avremmo dovuto restituirlo.
Nonna, lo prendiamo. È un po tanto, ma lo prendiamo.
Il ragazzo sbatté le palpebre, incredulo.
Sul serio, nonna?
Sul serio. E poi cura quel felpato, perché è come una promessa: crescere e portarmi un giorno al tuo posto, tra queste vetrine.
Continuammo a girare tra i giochi; Davide si fermava a ogni macchinina, a ogni mattoncino LEGO, a ogni pistola luminosa. Gli occhi brillavano, ma non chiedeva nulla. Sapeva già, a sette anni, che i desideri hanno un prezzo, e il denaro non cade dal cielo, ma dalle mani screpolate della nonna.
Andiamo a guardare un po di più, nonna, disse, sentendo le ginocchia flettersi. La nonna ti aspetta sulla panchina, le mie gambe non ce la fanno più.
Ci sedemmo vicino alle scale mobili. Lucia posò delicatamente il sacco di tela con il felpato nuovo sul suo grembo, mentre accanto una briciola di pane acquistato alla panetteria del centro brillava come un piccolo pezzo di paese in quel mondo di vetro.
Non vado lontano, nonna, disse Davide. Mi limito al negozio dei giochi laggiù.
Vai, piccolino, ti guardo da qui, gli risposi.
Il ragazzo corse goffamente, mentre io rimanevo sulla panchina a seguirlo con lo sguardo. Attorno, giovani con grandi borse di carta, telefoni luminosi, selfie e risate. Nessuno si fermava a guardarmi; se lo faceva, probabilmente pensava a una vecchia di campagna persa.
Ma io non mi sentivo persa. Per la prima volta dopo tanto, mi sentivo al mio posto. In quel carosello di luci, il cuore mi traboccava.
Signore mio, che grande è diventato chi lavrebbe mai detto che lo avrei portato al centro commerciale? mormonai, osservando la sua testa piccola tra gli scaffali.
Guardai le mie mani, ruvide per anni di lavoro nei campi, di legna da trasportare, di lavanda al rubinetto. Quelle mani, che nessuno aveva mai curato, ora stringevano il sacco con il primo felpato vero di Davide. Quelle stesse mani avevano spezzato la prima pagnotta, cullato il bambino quando piangeva per la mamma, asciugato le lacrime quando gli altri ridevano dei suoi stivali rotti.
Ora, stanche ma vibranti, tremavano non per letà ma per lemozione.
Una coppia giovane si fermò accanto a noi, con borse scintillanti. La ragazza gettò uno sguardo fugace al mio pane e al mio vecchio cappotto, poi tornò a fissare le vetrine. Nessuno immaginava che, dietro il mio sorriso stanco, si celasse una storia più pesante di tutte le loro borse.
Nonna! la voce di Davide spezzò il frastuono del centro.
Corse verso di me, le guance rosse di entusiasmo.
Ho salito le scale da solo! Ho visto un negozio solo di palloni! Cera uno schermo enorme con i cartoni! urlava, mescolando le parole come se temesse di non avere più tempo per raccontare.
Io lo guardai e capii che non avevo sbagliato a spendere quel denaro per il felpato e per il percorso fino a lì.
Ti piace? chiesi piano.
È il posto più bello del mondo, nonna. Ma sai, a casa nostra mi piace ancora di più.
Perché, piccolino?
Perché lì sei tu. E lì profuma di zuppa tua. Qui profuma di soldi.
Risi, un riso breve, con le lacrime agli occhi.
Hai ragione, caro sei proprio un tesoro.
Lo trascinai sulla panchina, gli diedi un sorso di succo e una fetta di pane caldo. Rimasi lì, spalla contro spalla, su quellisola di quiete nel mezzo del caos del centro commerciale.
Intorno, la gente correva, le offerte lampeggiavano, le luci brillavano. Nessuno sapeva che su quella panchina due anime trovavano lun laltro.
Nonna, mormorò Davide dopo un attimo, mordendo il pane.
Sì, tesoro.
Quando tornerà la mamma, la porterai anche lei al centro?
La porterò, come non potrei non farlo. Saremo tre: tu con il tuo felpato nuovo, lei con la sua bella borsa, e io con il mio scialle. E tu mi mostrerai, non io.
Mostrerò tutto. Dirò che sei stato tu a portarmi qui per la prima volta. Che lo sappia.
Il mio cuore si riscaldò. Oltre le vetrine e gli scintillii, la vera ricchezza era lì, accanto a me: un bambino di sette anni che non aveva mai chiesto nulla, ma che aveva ricevuto tutto quello che una nonna poteva dareamore, tempo, le braccia stanche.
Non sono una donna da centro commerciale, pensai. Sono una donna di zappa, di guerra, di tessitura. Ma se questo grande mondo lo fa sorridere, tornerò domani, dopodomani, finché le mie gambe potranno sostenermi.
Alzai lo sguardo verso il soffitto di vetro.
Signore, proteggici, fa che il padre di quel bambino sia in salute dove sia, e che il nonno ovunque sia e dammi la forza in queste mani per guidarlo sulla buona strada.
Davide non udì la preghiera, ma, come se lavesse percepita, infilò la sua piccola mano nella mia.
Ti voglio bene, nonna, disse semplicemente.
Io, senza parole, appoggiai il suo volto al mio mento e sorrisi.
Il centro commerciale, con le sue luci fredde, svanì per un attimo. Non importava più.
Su quella panchina, tra il sacco di tela col pane e il felpato nuovo, una nonna e il suo nipote vivevano la loro piccola meraviglia: la gioia che nessun denaro può comprare, la consapevolezza che per quanto grande sia il mondo, cè sempre qualcuno che ti aspetta con affetto, con due mani anziane ma piene damore.





