Oggi è un giorno che non dimenticherò facilmente.
Aprire questa galleria d’arte a Firenze è stato il mio modo di rimanere vicino a lei senza lasciare che il lutto mi divorasse. La maggior parte dei giorni, sono qui da solo: seleziono opere di artisti locali, parlo con i clienti abituali e cerco di mantenere un equilibrio.
Il posto è caldo, accogliente. Il jazz soffuso risuona dagli altoparlanti a soffitto. Il pavimento in legno di rovere, lucido e appena scricchiolante, ricorda la realtà del silenzio. Quadri con cornici dorate catturano i raggi del sole sui muri.
È un luogo in cui la gente parla a bassa voce e finge di comprendere ogni pennellatacosa che, a dirla tutta, non mi infastidisce. Questatmosfera tranquilla e misurata tiene lontano il caos del mondo esterno.
Poi è arrivata lei.
Era un giovedì pomeriggio, umido e grigio come sempre. Stavo sistemando una stampa leggermente storta vicino allingresso quando la vidi ferma fuori.
Una donna anziana, forse sulla sessantina, il cui intero aspetto sembrava dire che il mondo laveva dimenticata da tempo. Si riparava sotto la grondaia, cercando di trattenere un tremito.
Il suo cappotto sembrava appartenere a unaltra epocasottile, logoro, aderente al corpo come se avesse dimenticato come tenere al caldo. I capelli grigi erano arruffati, appiattiti dalla pioggia. Sembrava voler scomparire nel muro di mattoni dietro di lei.
Mi bloccai. Non sapevo cosa fare.
Poi arrivarono le clienti abituali. Puntuali come sempre. Erano treun turbinio di profumi costosi e opinioni arroganti. Donne eleganti, con cappotti su misura, sciarpe di seta, tacchi che risuonavano come segni di punteggiatura.
Appena la videro, laria si ghiacciò.
“Dio, che puzza!” sussurrò una, avvicinandosi allamica.
“Mi sta bagnando le scarpe!” sbottò unaltra.
“Signore, permette questo? La butti fuori!” disse la terza, fissandomi con uno sguardo daspettativa.
Guardai di nuovo la donna. Era ancora lì, indecisa se restare o scappare.
“Indossa ancora quel cappotto?” commentò qualcuno dietro di me. “Non lo lava dagli anni ’80.”
“Non può nemmeno permettersi scarpe decenti,” sbuffò unaltra.
“Perché qualcuno dovrebbe farle entrare?” fu lultimo giudizio sprezzante.
Attraverso il vetro, vidi le sue spalle crollare. Non per vergogna, ma come chi ha sentito quelle parole così tante volte da farle diventare rumore di fondoeppure, ancora feriscono.
Silvia, la mia assistenteuna ragazza sui ventanni, studentessa di storia dellartemi guardò nervosa. Aveva uno sguardo gentile e una voce così bassa che spesso si perdeva tra i suoni della galleria.
“Vuole che” iniziò, ma la interruppi.
“No,” dissi fermamente. “Lasciala stare.”
Silvia esitò, poi annuì e si spostò.
La donna entrò lentamente, con cautela. Il campanello sopra la porta suonò piano, come se non sapesse come annunciarla. Gli stivali gocciolavano acqua, lasciando macchie scure sul legno. Il cappotto, bagnato e consumato, lasciava intravedere un maglione sbiadito.
Sentii i sussurri intorno a me farsi più taglienti.
“Non dovrebbe essere qui.”
“Probabilmente non sa neanche scrivere ‘galleria’.”
“Rovina latmosfera.”
Non dissi nulla. Le mani mi si strinsero a pugno, ma la voce rimase calma, il volto impassibile. La osservai camminare per la sala, come se ogni quadro portasse un frammento della sua storia. Non incerta, ma determinata. Come se vedesse qualcosa che noi non riuscivamo a cogliere.
Mi avvicinai. I suoi occhi non erano spenti, come gli altri pensavano. Erano acutinascosti tra rughe e stanchezza. Si fermò davanti a un piccolo quadro impressionistauna donna seduta sotto un ciliegioe inclinò leggermente la testa, come per ricordare qualcosa.
Poi proseguì. Superò gli astratti e i ritratti, fino alla parete più lontana.
Lì si fermò.
Era uno dei quadri più grandi della galleriauno skyline cittadino allalba. Arancioni vividi si fondevano con viola profondi, il cielo si confondeva con le ombre degli edifici. Quel quadro mi era sempre piaciuto. Aveva una tristezza quietacome se qualcosa finisse mentre stava appena cominciando.
La donna rimase immobile.
“È è mio. Lho dipinto io,” sussurrò.
Mi voltai. Per un attimo pensai di aver capito male.
La stanza tacque. Non un silenzio rispettoso, ma quello che precede una tempesta. Poi arrivarono le risateacute, taglienti, rimbalzanti sulle pareti come lame.
“Certo, cara,” disse una donna con sarcasmo. “Questo è tuo? Forse hai dipinto anche la Gioconda?”
Unaltra rise, chinandosi verso lamica:
“Te lo immagini? Probabilmente non si lava da una settimana. Guarda quel cappotto!”
“È patetico,” commentò qualcuno dietro di me. “Ha completamente perso la testa.”
Ma la donna non batté ciglio. Il suo viso rimase immutato, solo il mento si sollevò leggermente. La mano le tremò mentre indicava langolo in basso a destra del quadro.
Era lì. Quasi invisibile, nascosto sotto gli strati di pittura, tra le ombre di un edificio: G. R.
Qualcosa si mosse dentro di me.
Avevo comprato quel quadro due anni prima, da unasta locale. Il precedente proprietario mi aveva detto solo che proveniva da un magazzino svuotato, venduto insieme ad altre operesenza storia, senza documenti. Mi era piaciuto.
Lo avevo esposto. Ma non ero mai riuscito a scoprire chi lavesse dipinto. Solo quelle iniziali sbiadite.
Ora era lì davanti a menon per reclamarlo, non in modo teatrale, ma con semplicità.
“La mia alba,” disse piano. “Ricordo ogni pennellata.”
La stanza rimase in silenzioquel tipo di silenzio che ha denti. Guardai i visitatori; le espressioni arroganti vacillavano. Nessuno sapeva cosa dire.
Feci un passo avanti.
“Come si chiama?” chiesi dolcemente.
Si girò verso di me.
“Giulia,” disse. “Rossi.”
E qualcosa dentro di menel profondo del pettomi sussurrò che questa storia era ben lungi dallessere finita.
“Giulia?” ripetei piano. “Si sieda, per favore. Parliamo un po.”
Si guardò intorno, come se non credesse alle mie parole. I suoi occhi cercarono il quadro, poi le facce sprezzanti intorno a noi, infine tornarono su di me. Dopo una lunga pausa, annuì.
Silviala mia eroina silenziosaapparve con una sedia prima che potessi dire altro. Giulia si sedette lentamente, con cautela, come se temesse di rompere qualcosa o di essere cacciata da un momento allaltro.
Laria era tesa. Le donne che poco prima la deridevano ora le voltavano le spalle, fingendo di studiare i quadri vicini, continuando a sussurrareancora piene di giudizio.
Mi accovacciai accanto a lei per essere alla sua altezza





