Quando lo portarono nella sala di accettazione dell’ospedale, era chiaro che si trattava di un annegato…

Ricordo ancora quel febbraio, quando mi portarono nella sala daccoglienza dellOspedale San Giovanni di Bologna. Era evidente che si trattasse di un caso di annegamento. Fuori non cera neve, ma il cielo era carico di nuvole grigie, minacciose come un presagio di tempesta. Allimprovviso sentii il ruggito della sirena dellambulanza che si avvicinava lungo il cortile.

Sembra che abbiano portato qualcuno di grosso, probabilmente in difficoltà commentò con tono grave il medico di turno, il dottor Luigi Ferrara.

Il fruscio della porta che si apriva fu subito sovrastato da una moltitudine di voci:

Aprite subito, portatelo qui!

La porta si spalancò e sullo stipite comparve un uomo con un bambino in braccio. Poco dopo, una donna, con la mano premuta sulla fronte, avanzava tenendosi la testa con entrambe le mani. Il suo volto era pallido come la cera e gridava:

È vivo? Davvero vivo?

Io, chirurgiano di guardia, non sono mai stato un fan dei turni festivi; preferisco il lavoro nei giorni feriali, quando il tempo scorre più veloce e tutti i reparti radiologia, laboratorio, ecc. sono già al loro posto, così le decisioni si prendono più rapidamente.

Dove devo portarlo? balbettò luomo, quasi in lacrime. Per favore, dottore, aiutatemi, siete il nostro unico speranza.

Il capo turno intervenne:

Mettiamo il piccolo sul lettino, dottor Marco Bianchi, esaminalo subito e prepariamo i rianimatori.

Guardai il bambino e rimasi paralizzato. Un anno prima, in un dicembre coperto di neve, mi era capitato un caso simile. Una nostra infermiera, la signora Rosa, era accorsa disperata perché il figlio del suo amico era scomparso dopo la scuola dellinfanzia. Dopo ore di ricerche, lo trovarono sepolto in una cisterna di riserva dacqua, avvolto in una giacca azzurra e in un berretto di lana. Anche allora i due bambini erano della stessa età.

Il padre, Giovanni, mi raccontò:

Lhanno trovato i vicini mentre nuotava in una fossa, sembrava ancora respirare. Lì dentro gli hanno fatto la respirazione artificiale nella macchina.

Gli occhi del piccolo erano blu, le pupille dilatate e non reagivano alla luce, il polso e il respiro erano assenti.

Hanno rimosso lacqua? chiesi.

Sembra di no.

Iniziammo subito la ventilazione artificiale, insufflando aria nei polmoni pieni dacqua. Girai il bambino a pancia in giù, appoggiai il ginocchio sul suo dorso e premessi con forza sulla schiena. Lacqua cominciò a fuoriuscire dalla bocca, poi lo adagiai sul lettino, somministrai un inspiro forzato e tre compressioni toraciche, cercando di far riprendere il battito.

Il freddo pungente dellacqua mi faceva temere per il cervello, ma pensai a quelle volte in cui, seppelliti da una valanga, la vita si era tenuta accesa per giorni. Il tempo scorreva lentamente sul quadrante del grande orologio della sala: due minuti, tre, cinque, quando improvvisamente sentii un leggero suono, simile al miagolio di un gattino.

Il bambino emise un respiro profondo, quasi umano, con una forza che sembrava lottare contro le grinfie della morte.

Portatelo in terapia intensiva, gli serve un supporto respiratorio controllato, non potrà più respirare da solo.

La madre, Maria, ancora sconvolta, si avvicinò:

Dottore, è davvero vivo? Lo può salvare?

Speriamo di sì, chiamiamo lelicottero sanitario per lassistenza pediatrica, risposi, mentre il personale preparava il pallone di ossigeno.

Alessandro, così lo chiamammo, fu trasferito in terapia intensiva. Nella stanza silenziosa, le lampade a LED lampeggiavano deboli, mentre lapparecchio di ventilazione lottava per mantenere in vita il piccolo organismo. I suoi occhi, con le pupille ancora larghe, tradivano una scintilla di vita.

Dopo due ore, arrivarono i medici dellaria sanitaria. Dopo unattenta valutazione, dissero:

Il bambino non è più vitalmente attivo, il cervello è ormai compromesso. Spegniamo il supporto e attendiamo lesito.

Tutti rimasero senza parole:

Ma se le pupille reagiscono alla luce, il cervello deve ancora funzionare.

Il pediatra di guardia, il dottor Giuseppe, intervenne:

Non è detto, dipende dal tempo trascorso dallannegamento. Lacqua nei polmoni e le misure di rianimazione eseguite a bordo non sono state sufficienti.

Allora propose:

Proviamo un catetere pediatrico, anche se non ne abbiamo uno di riserva, speriamo di trovare qualcosa.

Il team trovò un catetere sottile e, appena tentò di inserirlo, una corrente di liquido giallognolo spruzzò tutti i presenti, come se il piccolo avesse appena risvegliato una fonte interna.

È vivo! esclamammo allunisono.

Decidemmo di tenere Alessandro sotto osservazione per altre quattro ore; se avesse respirato autonomamente, lavremmo dimesso. Dopo tre ore, lo trasportarono via.

Due anni più tardi, quel ricordo era ancora vivo nella mia mente. Un giorno di festa, suonò il campanello. Un uomo, dal volto familiare e dallo sguardo gentile, mi guardò:

Mi conosce?

Scusi, ma non ricordo abbiamo lavorato insieme?

Non è un altro, è il piccolo Alessandro!

Mi avvicinai e riconobbi subito il suo volto.

Alessandro? balbettai.

Sì, sono io. Sono tornato per ringraziarla. Il dottore, il reparto, la città intera non sono riusciti a trovarmi per un anno, ma ora possiamo parlare.

Invitammo Alessandro a entrare; mi mostrò la sua collezione di conchiglie, le ascoltava come il mare. Poi, con un sorriso, disse:

Mio papà diceva che chi non sa nuotare affonda. Tu sai nuotare, dottore?

Certo, so nuotare, risposi, sorpreso dal suo tono. Buona navigazione, piccolo.

Nel frattempo, continuavo a lavorare come chirurgo al Policlínico di Firenze. Un giorno, un capitano dellArma dei Carabinieri, alto e distinto, mi si avvicinò:

Buongiorno, dottor Marco Bianchi, è un piacere incontrarla.

Buongiorno, signor capitano, risposi, osservando il suo distintivo. Ci conosciamo?

Certo! esclamò, gli occhi azzurrogrigi brillavano di riconoscimento. Alessandro? Il ragazzo che avete salvato? Sono lufficiale Luca Verdi, appena tornato dallaccademia, e ho voluto ringraziarla di persona.

E così, tra ricordi di emergenze, di speranze e di incontri inattesi, la vita ha continuato il suo corso, lasciandomi la consapevolezza che, anche quando le acque sembrano inghiottire tutto, un piccolo gesto di coraggio può far risorgere la luce.

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