Mi dispiace, mamma, non potevo lasciarli lì”, mi ha detto mio figlio di 16 anni quando ha portato a casa due gemellini appena nati.

«Mi spiace, mamma, non potevo lasciarli», mi ha detto Luca, il mio figlio di sedici anni, mentre tornava a casa con due neonati gemelli avvolti in coperte.

Quando ha varcato la porta, stringendo nei bracci i due piccoli, ho creduto di impazzire. Poi mi ha chiesto di chi fossero i bambini e, in un attimo, tutte le convinzioni che avevo sulla maternità, sul sacrificio e sulla famiglia si sono frantumate.

Non avrei mai immaginato che la mia vita potesse prendere una svolta così inaspettata.

Mi chiamo Giovanna, ho quarantatré anni. Gli ultimi cinque sono stati una dura lezione di sopravvivenza dopo il divorzio più amaro che si possa concepire. Il mio exmarito, Dario, non solo è andato via ha portato con sé tutto quello che avevamo costruito insieme, lasciando me e il nostro figlio Luca a far quadrare i conti con il minimo indispensabile.

Luca ha sedici anni ed è sempre stato il mio universo. Anche dopo che il padre, più giovane di due volte, lha abbandonato, Luca nutriva ancora la speranza silenziosa che potesse tornare. Quegli sguardi di nostalgia lo spezzavano giorno dopo giorno.

Abitiamo in un bilocale a Trastevere, a un passo dallOspedale San Giovanni. Laffitto è modesto e la scuola di Luca è a pochi minuti a piedi.

Quel martedì è iniziato come tutti gli altri. Stavo piegando il bucato nel soggiorno quando ho sentito la porta dingresso aprirsi. I passi di Luca erano più lenti del solito, quasi esitanti.

«Mamma?», ha detto con una voce che non riconoscevo. «Mamma, devo parlarti subito, adesso.»

Ho lasciato cadere il panno e sono corsa nella sua stanza. «Che è successo? Sei ferito?»

Appena entrata, la scena mi ha paralizzata.

Luca era al centro della camera, con due pacchetti avvolti in coperte ospedaliere. Due neonati, i loro volti smagliati, gli occhi quasi chiusi, le mani strette al petto.

«Luca», ho balbettato. «Cosè questo? Da dove li hai presi?»

Mi ha guardato, determinato e impaurito allo stesso tempo.

«Mi spiace, mamma», ha detto piano. «Non potevo lasciarli.»

I miei ginocchi hanno ceduto. «Li hai lasciati? Luca, dove hai trovato questi bambini?»

«Sono gemelli, un maschietto e una femminuccia.»

Le mani tremavano. «Devi dirmi subito che sta succedendo.»

Luca ha preso un respiro profondo. «Nel pomeriggio sono andato allospedale. Il mio amico Marco è caduto con la bici, così lho portato al pronto soccorso. Stavo aspettando lì e lho visto.»

«Chi hai visto?»

«Papà.»

Il sangue mi è uscito dal naso.

«Sono i bambini di papà, mamma.»

Sono rimasta senza parole di fronte a quelle cinque parole.

«Papà usciva arrabbiato da una delle reparti di maternità», ha continuato Luca. «Sembrava furioso. Non lho avvicinato, ma ero curioso e ho chiesto in giro. Conosci la dottoressa Chen, lamica tua che lavora al reparto ostetricia?»

Ho annuito, ma dentro di me sentivo il vuoto.

«Mi ha detto che Sylvia, lamica di papà, ha partorito ieri notte. Ha avuto dei gemelli», ha proseguito Luca, stringendo i denti. «E papà è appena uscito, ha detto alle infermiere che non voleva avere nulla a che fare con loro.»

Un pugno mi ha colpito lo stomaco. «No, non può essere vero.»

«È vero, mamma. Sono andato a vedere. Sylvia era sola in una stanza isolata con i due neonati, piangeva così forte da non riuscire a respirare. È molto malata. Qualcosa è andato storto durante il parto, i medici parlavano di complicazioni, infezioni. Non riusciva a tenere i bimbi.»

«Luca, questo non è affare nostro»

«Sono i miei fratelli!», ha rotto la voce. «Sono mio fratello e mia sorella e non hanno nessuno. Ho detto a Sylvia che li porto a casa per un po, solo per mostrarteli, così potremmo aiutarli. Non potevo lasciarli lì.»

Mi sono seduta sul bordo del letto. «Come hai potuto prenderli? Hai sedici anni.»

«Sylvia ha firmato un modulo di dimissione temporanea. Sa chi sono. Le ho mostrato il mio documento didentità, dimostrando di essere parente. La dottoressa Chen ha garantito per me. Hanno detto che è irregolare, ma data la situazione Sylvia piangeva e non sapeva cosa fare.»

Guardando i neonati nei suoi bracci, il loro minuscolo corpo mi ha spezzato il cuore.

«Non puoi farlo. Non è tua responsabilità», ho sussurrato, le lacrime ardevano gli occhi.

«Allora a chi appartengono? A papà? Lui ha già dimostrato che non gli importa. Cosa succede se Sylvia non sopravvive? Che fine faranno questi bambini?»

«Li riportiamo subito allospedale. È troppo per noi.»

«Mamma, per favore»

«No». La mia voce era più ferma. «Indossa le scarpe. Torniamo.»

Il viaggio verso lOspedale San Giovanni è stato un susseguirsi di ansia. Luca sedeva sul sedile posteriore, i due neonati avvolti in cestini che avevamo affrettatamente preso in garage.

Allarrivo, la dottoressa Chen ci ha accolti allingresso, il volto contratto per linquietudine.

«Giovanna, mi dispiace tanto. Luca ha voluto solo»

«È tutto a posto. Dove è Sylvia?»

«Stanza 314. Ma devo avvertirti, non sta bene. Linfezione si è diffusa più in fretta di quanto prevedessimo.»

Il mio stomaco si è stretto. «Quanto è grave?»

Lespressione della dottoressa ha detto tutto.

Siamo saliti in ascensore in silenzio. Luca accarezzava i piccoli come se fosse una missione di vita, parlando sottovoce quando piangevano.

Davanti alla porta 314, ho bussato delicatamente prima di aprire.

Sylvia appariva più debole di quanto avessi immaginato. Pallida, quasi cenere, collegata a più flebo. Non poteva avere più di venticinque anni. Quando ci ha visto, gli occhi le si sono riempiti di lacrime.

«Mi dispiace così tanto», ha singhiozzato. «Non sapevo cosa fare. Sono sola e malata, e Dario»

«Lo so», ho risposto piano. «Luca me lha detto.»

«È andato via. Quando hanno saputo dei gemelli e delle mie complicazioni, ha detto che non poteva affrontare tutto questo.» Ha guardato i neonati di Luca. «Non so neanche se sopravviverò. Cosa succederà a loro?»

Luca, prima che potessi parlare, ha intervenuto. «Ci prenderemo cura di loro.»

«Luca», ho iniziato.

«Mamma, guarda Sylvia. Guarda questi bambini. Hanno bisogno di noi.»

«Perché? Perché è un nostro problema?»

«Perché a nessun altro lo è!», ha esclamato, poi più dolcemente. «Se non interveniamo, finiranno nel sistema di assistenza sociale. Potrebbero essere separati. Non vuoi che ciò accada.»

Non avevo risposta.

Sylvia ha allungato una mano tremante verso di me. «Ti prego. So che non ho diritto a chiedere, ma sono il fratello e la sorella di Luca. Siamo famiglia.»

Guardando quei minuscoli esseri, il mio figlio, quasi più grande di me, e quella donna sullorlo della morte, ho capito cosa dovevo fare.

«Devo fare una telefonata», ho detto.

Ho chiamato Dario, che era parcheggiato fuori dallospedale. Ha risposto al quarto squillo, irritato.

«Che cosa vuoi?»

«Sono Giovanna. Dobbiamo parlare di Sylvia e dei gemelli.»

Un lungo silenzio. «Come lo sai?»

«Luca è stato allospedale. Ha visto te uscire. Che diavolo ti è successo?»

«Non è il momento. Non ho chiesto nulla. Mi ha detto che usi contraccezione. È tutto un disastro.»

«Sono i miei figli!»

«È un errore», ha risposto con freddezza. «Firma i documenti, se vuoi prenderli. Ma non conto su di me.»

Ho chiuso, senza dire nulla che potesse rimpiangere.

Unora dopo, Dario è arrivato con il suo avvocato. Ha firmato i documenti di custodia temporanea senza nemmeno vedere i neonati, ha alzato le spalle e ha detto: «Non è più il mio peso.»

Poi è uscito.

Luca lha guardato allontanarsi. «Non sarò mai come lui», ha mormorato. «Mai.»

Quella notte ho portato i gemelli a casa, firmando i moduli che capivo a malapena, accettando la tutela temporanea finché Sylvia fosse rimasta ricoverata.

Luca ha allestito una cameretta per i bambini, trovando una culla usata in un negozio dellusato con i suoi risparmi.

«Fai i compiti», gli ho detto a voce fioca. «O esci con gli amici.»

«Questo è più importante», ha risposto.

La prima settimana è stata un inferno. I gemelli Luca li ha già chiamati Alessa e Alessio piangevano incessantemente. Cambi di pannolino, poppate ogni due ore, notti insonni. Luca insisteva a fare tutto da solo.

«È la mia responsabilità», ripeteva.

«Non sei ancora adulto!», gli urlavo, vedendolo al terzo di notte, con un neonato in braccio e laltro sul ginocchio.

Ma non si è mai lamentato. Lo trovavo nella sua stanza a ore strane, a scaldare i biberon, a raccontare loro storie della nostra famiglia prima che Dario partisse.

Saltava la scuola qualche giorno per la stanchezza, i voti scendevano, gli amici lo evitavano, e Dario non rispondeva più a nessuna chiamata.

Dopo tre settimane, tutto è cambiato. Tornata dal turno serale al ristorante, ho trovato Luca che passeggiava per lappartamento con Alessa che strillava tra le braccia.

«Cè qualcosa che non va», ha detto subito.

«Non smette di piangere e la sua fronte è calda». Lho toccata; il sangue gelò nelle vene. «Prendi la borsa dei pannolini. Andiamo al pronto soccorso, subito.»

Il pronto soccorso era un caos di luci e voci urgenti. Alessa aveva la febbre alta. Hanno fatto esami: emocromo, radiografia toracica, ecocardiogramma. Luca non voleva allontanarsi dal lettino, con una mano sul vetro dellincubatore, le lacrime scivolavano sul viso.

Una cardiologa è arrivata alle due di notte.

«Abbiamo trovato un difetto cardiaco congenito: una comunicazione interventricolare con ipertensione polmonare. È grave e richiede un intervento chirurgico urgente.»

Le gambe di Luca sono crollate. Si è seduto sul primo sgabello, tremante. «Quanto è serio?»

«Se non operiamo, potrebbe essere fatale. Lintervento è possibile, ma costoso.»

Ho pensato al mio risparmio modesto, cinque anni di mance e turni extra al ristorante. «Quanto costa?»

Quando ho sentito la cifra, il cuore si è fermato. Avremmo dovuto spendere quasi tutti i nostri risparmi.

Luca mi ha guardato, devastato. «Mamma, non voglio chiederti ma»

«Non chiedere», lho interrotta. «Lo facciamo. Insieme.»

Lintervento è stato fissato per la settimana successiva. Nel frattempo, Alessa è tornata a casa con istruzioni rigorose su farmaci e monitoraggio.

Luca dormiva a zero. Ha impostato sveglie ogni ora per controllarla. La trovavo allalba, accanto al lettino, a osservare il suo petto che si alzava e scendeva.

«Se qualcosa va storto?», mi ha chiesto una mattina.

«Allora ci arrangiamo», ho risposto. «Insieme.»

Il giorno delloperazione, sono arrivata allospedale allalba. Luca teneva Alessa avvolta in una coperta gialla che aveva comprato apposta, mentre io legavo Alessio.

Il team chirurgico è entrato alle 7:30. Luca lha baciata sulla fronte e le ha sussurrato qualcosa che non ho sentito.

Sono passate sei lunghe ore. Luca è rimasto immobile, la testa tra le mani, finché una infermiera ha portato un caffè e, guardandolo, ha detto piano: «Quella bambina è fortunata ad avere un fratello come te.»

Il chirurgo è uscito finalmente. «Lintervento è andato bene», ha annunciato. Luca ha emesso un sospiro che sembrava uscire dal profondo dellanima. «È stabile. Il risultato è positivo. Avrà tempo per guarire, ma il percorso è lungo.»

Alessa è rimasta cinque giorni in terapia intensiva pediatrica. Luca era lì ogni giorno, dalla visita alle ore di chiusura, tenendole la minuscola mano attraverso le fessure dellincubatore.

«Andremo al parco», diceva, «ti spingerò sullaltalena e Alessio cercherà di rubarti i giochi, ma non lo lascerò fare.»

Nel frattempo ho ricevuto una telefonata dallassistenza sociale sullandamento di Sylvia. È morta quella mattina, linfezione aveva invaso il suo sangue. Prima di morire, aveva aggiornato i documenti legali, nominandoci tutori permanenti dei gemelli, con una nota: «Luca mi ha mostrato cosa è la vera famiglia. Per favore, amate questi bambini come li ho amati io.»

Mi sono seduta nella mensa dellospedale, in lacrime, per Sylvia, per i neonati, per lassurda situazione in cui ero finita.

Luca non ha detto nulla per molto tempo. Alla fine, ha stretto più forte Alessio e ha sussurrato: «Staremo bene. Tutti.»

Tre mesi dopo, è arrivata la notizia della morte di Dario in un incidente dauto sullautostrada A1. Stava andando a un evento di beneficenza, è morto sul colpo. Non ho provato nulla, solo la consapevolezza vuota che lui non era più parte della nostra vita.

Un anno è passato da quel martedì in cui Luca è entrato con due neonati. Ora siamo quattro.

Luca ha diciassette anni, sta per lultimo anno di liceo. Alessa e Alessio strisciano per casa, ridono, piangono, riempiono lappartamento di giocattoli, macchie di latte e un sottofondo costante di risate e singhiozzi.

Luca è cambiato. È più maturo, ma non per la sua età. Continua a allattare di notte quando sono esausta, a leggere loro storie con voci diverse, a preoccuparsi se uno dei due starnutisce troppo forte. Ha lasciato il calcio, ha ridotto le uscite con gli amici, e ora pensa di frequentare un istituto tecnico vicino a casa. Odio vederlo sacrificare così tanto, ma quando gli parlo, scuote la testa: «Non sono un sacrificio, mamma. Sono la mia famiglia.»

La scorsa settimana lho trovato addormentato sul pavimento, tra i due lettini, con una mano tesa verso ciascuno. Alessio stringeva il suo dito piccolo attorno al pollice di Luca. Sono rimasta in piedi sulla soglia, osservando quella scena, e ho rivissuto il primo giorno.

Ero terrorizzata, arrabbiata, impreparata. Non so se ho fatto la cosa giusta. Alcuni giorni, quando le bollette si accumAlla fine ho compreso che la vera forza di una famiglia non risiede nel sangue, ma nella capacità di accogliere e proteggere chi, anche per caso, entra nella nostra vita, trasformandoci tutti in persone migliori.

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