Il Viaggio dell’Errante

Caro diario,

oggi mi trovo a riflettere sul nostro intricato focolare, dove le ombre del passato continuano a disegnare le fredde linee del presente.

La più grande deliberazione della famiglia fu pronunciata dalla primogenita, Caterina. Per la sua natura capricciosa e le esigenti pretese verso i pretendenti, non ha mai contraddistinto un matrimonio; entro i trentanni si era trasformata in una vera e propria misogina, una ferita acerba che ogni uomo temeva di toccare. Maledetta, mormorò, mentre la voce si spegneva in un sussurro. La sorellina più giovane, Giulia, una donna rotonda dal sorriso contagioso, annuì con una risata complice. La madre rimase in silenzio, ma dal suo volto austero si leggeva chiaramente il disappunto verso la nuora.

Il nostro unico figlio, Antonio, partì per lesercito e tornò con una sposa. Nessun padre, nessuna madre, né un centesimo di denaro. Nessuna traccia del suo passato, né duna famiglia, né di un orfanotrofio. Antonio, con il suo solito fare scherzoso, mi disse: Non ti preoccupare, mamma, costruiremo la nostra ricchezza. Ma io, come tutti, mi domandai: chi era davvero? Una ladra? Una truffatrice? Lepoca non è più quella di poche bugie, ma la sfiducia si era radicata.

Le voci si moltiplicarono. Si diceva che certe piante potessero avvelenare tutta la casa. Da allora, da quando Vera Nicotina, la coppia sfortunata, aveva varcato la soglia, non passò più una notte intera senza sogni agitati. Sempre in attesa di qualche piccolo inganno da parte della nuova parente, si scrutava lombra dei suoi passi nei corridoi. Le figlie la rimproveravano, chiedendo se avesse nascosto tra le cose di famiglia tesori doro o preziosi vestiti.

Nel frattempo il nostro orto di tre ettari, con tre maialini nel recinto, mille uccellini che cinguettavano al mattino, richiedeva cure costanti. Vera non si lamentò mai. Lavorava la terra, accudiva i porcellini, cucinava, puliva e cercava di piacere a me, alla suocera, a tutti. Quando il mio cuore di madre non era daccordo, non importava quanti soldi in euro avessi sparso sul pavimento: Chiamami per nome e patronimico, mi dissi, così sarà più facile. Vera, figlia di Niccolò, mi rispose, e da quel giorno il suo nome divenne Vera Nicotina.

Il tempo passò e lordine si impose nella casa. Antonio, però, si allontanò. Gli amici, le chiacchiere del paese, le lamentele su chi fosse il suo vero marito, lo portarono a lasciarci. Una notte, mentre tutti noi dormivamo, la notizia cadde come un tuono: Vera aspettava un bambino e Antonio la avrebbe lasciata. La madre, con occhi severi, mi parlò: Non gli ho mai fatto da suocera. Se ti sposi, vivrai di regole. Se sei padre, allora dimostra di esserlo.

Il bambino nacque, una bambina che chiamammo Violetta. Quando la madre venne a sapere della nascita, non disse nulla, ma gli occhi le tradivano una gioia nascosta. La casa rimase comerano le cose: Antonio, smarrito, non trovò più la strada di casa; la madre, pur preoccupata, celò il suo disappunto e cominciò ad amare la nipote, comprandole dolci e regali, mentre, a differenza di Violetta, Sofia la ex moglie di Antonio non riuscì mai a perdonare il figlio per aver perso la madre per mezzo di lei.

Dieci anni volarono. Le sorelle si sposarono e rimasero nella grande casa con me, Sofia e Violetta. Antonio, ora soldato di professione, partì verso il Nord con la sua nuova compagna. Un pensionato, un ex-militare, entrò nella vita di Sofia, offrendole un appartamento e un sostegno economico. Era un uomo serio e maturo, ma quando chiese a me il permesso di stare con la mia nuora, io, con voce ferma, gli dissi: Se ami davvero Sofia, accetta la nostra casa, ma non permettere a Violetta di entrare nella tua vita.

Il tempo non risparmiò nessuno. Sofia si ammalò gravemente; il marito perso, la madre, senza parole, svuotò il salvadanaio e portò la figlia in una grande città dove i medici, le medicine, le cure costarono migliaia di euro, ma nulla poté guarirla. Un mattino, con la voce rotta dal pianto, Sofia chiese una zuppa di pollo. Io, felice di poterle offrire un piccolo conforto, la preparai. Quando la servii, Sofia non riuscì a mangiarla e, per la prima volta nella sua vita, pianse. Per la prima volta anchio, che non ho mai mostrato lacrime, piansi con lei, chiedendole perché avesse dovuto partire così presto, quando lavevo appena amata di più. Le promisi che i miei nipoti non sarebbero mai rimasti senza aiuto.

Un altro decennio trascorse. Violetta fu data in sposa a un giovane di nome Alessandro, figlio di un uomo che, in realtà, non era suo padre biologico. Quando la verità emerse, Antonio, ormai vecchio, tornò a casa furioso, accusandomi di aver permesso a un estraneo di entrare nella nostra dimora. Tu non sei il padre, ringhiò. Io, con una serenità che solo gli anni possono dare, risposi: Figlio mio, non sei più il ragazzo che indossava pantaloni larghi. Sei un uomo solo quando cresci il tuo cuore, non quando segui la tradizione. Antonio, sconvolto, prese le sue cose e ripartì.

Così, nella nostra dimora, la vita si dipanò tra nuore e suocere, tra amori perduti e bambini nati. Una betulla, senza che nessuno la piantasse, spuntò tra la casa di Vera e quella di Sofia, simbolo di una pace fragile e inattesa.

La lezione che ho appreso da questo intreccio di destini è semplice ma profonda: la dignità non nasce dal sangue né dal rispetto delle convenzioni, ma dal saper accogliere laltro, anche quando il cuore è ferito. Solo così possiamo trasformare il dolore in crescita e le ombre del passato in luce per le generazioni future.

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