Lo so che sono i miei figli,” disse lui senza alzare lo sguardo. “Ma… non riesco a spiegare perché, tra noi non c’è alcun legame.

“Sai che sono miei figli,” disse lui, senza alzare gli occhi. “Ma… non so spiegarlo, non sento alcun legame con loro.”

“Guarda com’è bella!” esclamai, stringendo a me il corpicino caldo della nostra appena nata figlia. Ginevra era avvolta in una coperta morbida, raggomitolata come un batuffolo di vita, e respirava piano. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. In quel momento, il mondo si era ristretto a un solo viso, a un solo respiro, a un solo pensiero: “È mia. Finalmente ci è arrivata.”

Accanto a me c’era Sandro. Guardava la bambina, ma nel suo sguardo c’era una mescolanza di tenerezza e… qualcos’altro. Qualcosa di indefinito, quasi spaventato. Allungò una mano e toccò delicatamente la guancia della piccola.

“Somiglia a te,” sussurrò, così piano che quasi non lo sentii. Ma nella sua voce mancava quell’euforia luminosa che mi aspettavo. Non c’era la gioia che avrebbe dovuto traboccare. Allora non ci feci caso. Va bene, somiglia a me, e allora? L’importante era che la nostra famiglia fosse cresciuta, che la bimba fosse sana e che noi fossimo finalmente genitori.

Ma gli anni passarono, e quando nacque la seconda figliaBiancainiziai a notare ciò che prima non avevo voluto vedere. Le due bambine erano straordinariamente simili l’una all’altra. I loro grandi occhi marroni, il nasino perfetto, la fronte alta, i capelli scuri e folti… sembravano usciti da un ritratto di mio padre. Nessuna traccia di Sandro: non i suoi occhi azzurri, non le fossette sulle guance, nemmeno quell’espressione caratteristica che aveva quando sorrideva. E questo divenne un problema. Serio e doloroso.

Ero seduta al tavolo della cucina, mescolando meccanicamente un tè ormai freddo. Dietro di me si sentiva il respiro regolare delle bambine addormentate, e di fronte, con un’espressione indecifrabile, c’era mia suoceraValentina. Era “passata per caso”, come diceva sempre. Ma sapevo che quelle visite non erano mai casuali. Soprattutto negli ultimi mesi, tra noi si erano accumulati silenzi pesanti e un’ostilità strisciante.

“Vittoria,” cominciò, scegliendo le parole con cautela, come se temesse di ferirmi, “le bambine sono bellissime, certo. Ma… sei sicura che siano di Sandro? Sono così simili a tuo padre. Due gocce d’acqua. Strano, no?”

Il cucchiaino che tenevo in mano tintinnò contro la tazza. Mi bloccai. Quelle parole le avevo già sentitein battute, allusioni, sussurri. Ma da lei, dalla donna che mi chiamava “figlia”, suonavano ancora più taglienti. Come un pugno nello stomaco.

“Valentina, cosa sta dicendo?” La mia voce tremava. “Certo che sono di Sandro! Lo sa benissimo! Li abbiamo aspettati così a lungo, io li ho partoriti, lui stesso li ha presi in braccio in ospedale! Come può dubitarne?”

Si strinse nelle spalle, come a dire: “Chissà.” E in quel gesto c’era tutta la sua convinzione che il dubbio fosse legittimo. Sentii l’umiliazione stringermi la gola, ma anche l’ansia. Perché la cosa più terribile non erano quelle parole. La cosa più terribile era che anche mio marito si stava allontanando dalle nostre figlie.

“Sandro, perché ancora non sei andato a prendere Ginevra all’asilo?” chiesi quando rientrò a casa tardi, quasi all’alba. Ginevra dormiva già, Bianca sonnecchiava sul divano. Io, stanca dopo un doppio turno, le faccende e le preoccupazioni costanti, facevo fatica a stare in piedi.

“Mi sono dimenticato, scusa,” rispose, gettando la giacca su una sedia senza neanche guardarmi. “Avevo da fare.”

“Sei sempre occupato,” sbottai. “Ma quando passi del tempo con le bambine? Quand’è l’ultima volta che hai giocato con Bianca? O che hai letto una favola a Ginevra?”

Rimase in silenzio. Un silenzio lungo, soffocante, finché non lo ruppe la sua vocebassa, ma pesante come un macigno:

“Non mi sento attratto da loro, Vittoria. Non so perché. Mi sembrano… estranee. Ci provo, ma non le sento mie.”

Le lacrime mi salirono agli occhi. Come poteva dire una cosa simile delle sue figlie? Di quelle bambine che aveva tanto desiderato? Ma a un certo punto capii: era sincero. Sandro aveva davvero immaginato una figlia che gli somigliasse. Si era figurato i giochi insieme, l’orgoglio nel vederla ereditare i suoi tratti. Invece, aveva due bambine che ricordavano mio padre. Come se le avessi fatte da sola.

Mi misi a cercare su internet, a leggere di genetica, di caratteri dominanti e recessivi. Scoprii che può succedere. A volte un bambino assomiglia più a un nonno che ai genitori. Mio padre aveva geni fortissimiocchi marroni, capelli scuri, tratti marcati. Ed entrambe le mie figlie li avevano ereditati. Ma come spiegarlo a Sandro e alla sua famiglia, se ormai si erano fatti un’idea?

Proposi un test del DNA. Non perché avessi dubbi, ma per chiudere la questione una volta per tutte. Lui rifiutò.

“So che sono miei,” disse, fissando il pavimento. “È solo che… non riesco a sentirlo.”

“Ma ci hai provato?” quasi urlai. “Hai provato a stare con loro, a giocare, a parlare, a fare il padre? O aspetti che magicamente ti sembrino tue?”

Tacque di nuovo. E in quel silenzio sentii la nostra famiglia sgretolarsi, sentii spalancarsi un abisso tra noi.

Con i suoi parenti andava anche peggio. Suocera e cognata si comportavano come se Ginevra e Bianca non fossero sangue loro. Venivano di rado, e quando lo facevano, era solo per sottolineare quanto “non somigliano a Sandro”. Una volta, mia cognata Elena rise e disse:

“Vittoria, sicura di non averle fatte con tuo nonno?” come se fosse uno scherzo divertente.

Non ce la feci più:

“Elena, non è più uno scherzo. Sono mie figlie, e sono di tuo fratello. Se non vi piacciono, potete anche non venire.”

Si offese, naturalmente. Ma cosa potevo fare? Ero io a occuparmi delle bambine, mentre Sandro “non sentiva il legame”, e i suoi parenti non facevano che peggiorare le cose. I miei genitori vivevano lontani, e poi erano ormai anziani. Mai mi ero sentita così sola.

E così, una sera, quando le bambine dormivano, decisi di affrontare la questione. Sapevo che non potevamo andare avanti così. O trovavamo una soluzione, o la nostra famiglia sarebbe crollata.

“Sandro,” cominciai, cercando di mantenere la calma, “so che sei turbato. Anch’io speravo che una delle bambine ti somigliasse. Ma sono nostre figlie. Non è colpa loro se hanno preso i miei geni. E non è colpa mia. Mi fa male vederti allontanarti da loro.”

Rimase a lungo in silenzio, poi sospirò profondamente:

“Mi odio per questo. Ma ogni volta che le guardo, vedo tuo padre. E mi sento fuori posto.”

Gli presi la mano:

“Non sei fuori posto. Sei il loro papà. Ti amano, anche se non lo vedi. Ieri Ginevra mi ha chiesto perché non giochi mai con lei. Bianca ti cerca, e tu

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Lo so che sono i miei figli,” disse lui senza alzare lo sguardo. “Ma… non riesco a spiegare perché, tra noi non c’è alcun legame.