30 ottobre, 2025
Sono nata in una famiglia semplice, accogliente e stranamente silenziosa. Eravamo quattro figli: due fratelli maggiori, una sorella e io, la più piccola. Mi chiamavano in mille modi: Giulia, Giulietta, Giusy, e il papà aveva un soprannome speciale per me Gigliola. Lo pronunciava con dolcezza, come se mi cullasse su onde di primavera, e quel nome mi sembrava avvolto da un caldo abbraccio domestico. Lo adoro e ho sempre chiesto a tutti di usarlo, proprio come fa papà.
Mio padre, Marco Rossi, era un capotreno delle ferrovie; mia madre, Elena Bianchi, lavorava in una piccola bottega di alimentari. Vivevamo modestamente ma serenamente, in un quartiere tranquillo di Bologna, dove le parole forti erano rare e al loro posto regnava un silenzioso calore di fiducia.
Quando tornava a casa portava lodore del carburante, del vento sulla strada e qualche sacchetto di patate, vasetti di sottaceti dei vicini che non potevano pagare in contanti, meloni e persino una brusca melanzana che riusciva a trascinare al momento più inopportuno. Papà non sapeva dire di no a una richiesta.
Le spese erano il regno di mamma. Era il suo piccolo universo di ordine, conti e precisione. Non spendeva mai inutilmente, ma quando si trattava di libri, corsi o attività per noi figli, apriva il portafoglio senza esitazione. Si risparmiava su di sé, ma non su di noi. Ogni venerdì, quasi come rito, si sedeva davanti al televisore, prendeva una scatola di fili e iniziava a ricucire. Riparava i nostri vestiti con la stessa pazienza con cui curava noi, con il suo silenzioso affetto.
Mia madre era dolce, tranquilla, leggermente rotonda, con lunghi capelli corvini raccolti in una treccia stretta. Non lavevo mai sentita litigare con papà; i loro dialoghi erano lunghi e sereni, come se condividessero un mondo segreto che solo loro capivano.
Papà parlava con noi in modo breve e diretto.
Allora, ragazzi, tutto a posto?
E, come rito, ci dava una pacca sulla testa a turno. Con me sollevava le braccia e mi lanciava in aria, così per un attimo vedevo il pavimento da sopra. Quei piccoli momenti erano i miei preferiti.
Mi sembrava di vivere una famiglia perfetta, come quelle dei libri dove tutto è al suo posto.
***
A scuola, invece, ero un turbine: rumorosa, vivace, emotiva. I versi mi scivolavano in bocca, i testi erano ancora più facili. Già al quinto anno sapevo che volevo salire sul palco, aspiravo al teatro. Quando lho detto a mamma, quasi rovesciò il suo tè. Papà rise:
E lì, Gigliola? Prova e vediamo.
Così ho iniziato a studiare, a recitare, a lavorare nei festeggiamenti, a scrivere testi, auguri, miniscenette Un giorno decisi di scrivere un piccolo libro, una storia semplice di una bambina in cerca di sé stessa.
Continuavo a dubitare fino allultima pagina se fosse il caso di farlo leggere a qualcuno. Lo scrivevo di nascosto, di notte, a tratti tra gli impegni. Era troppo personale, quasi non libro. Decisi di mostrarlo solo a una amica, Sofia. Ma quando lo lesse, esclamò:
Voglio regalarlo a ogni donna che verrà al mio compleanno
Allinizio pensai di aver frainteso.
Che libro? Di cosa parli? Sono solo bozze
Sofia sorrise dolcemente e rispose:
Gigliola, per anni mi regali la tua amicizia con il cuore. Questanno voglio offrire il tuo libro a tutte. Posso permettermelo.
Quelle parole mi sconvolsero. Per due giorni rimasi a rimuginare, convinta che fosse una follia. Ma Sofia aveva già trovato un tipografo, un grafico, aveva spinto tutto avanti.
Lascia che esca alla luce. So che piacerà a tutti.
E così fu. Il libro volò subito perché era onesto, vivo, privo di falsi ornamenti. La gente vi si riconobbe, i propri timori, le speranze, la verità che molti temono di dire ad alta voce. Si diffuse come regalo.
Poi decisi di andare oltre: scrivere qualcosa di profondo, della famiglia, delle radici, di chi mi ha resa ciò che sono. Quella decisione aprì una porta verso qualcosa per cui non ero affatto pronta.
***
Dovevo parlare con i genitori, scavare nel loro passato, chiedere date, storie. Chiamai mamma; rispose con esitazione.
Papà non cè, disse. È via per lavoro.
Mi stupii: di solito sapeva dove fosse. Chiamai papà; rispose subito, allegro:
Ciao Gigliola! Sono da tua nonna. Riparo il cancello.
Perché mamma non mi aveva detto nulla?
Nel viaggio sentii che la sua pausa nascondeva altro. Entrata in casa, la trovai in cucina. Con voce bassa mi disse:
Papà e io ci siamo lasciati succede.
Papà e mamma, gli ideali che avevo custodito dentro di me.
Il respiro mi mancò, i pensieri si bloccavano. I fratelli e la sorella lo sapevano da tempo, ma non me lo avevano detto: Volevamo proteggerti. Proteggere da cosa? Dalla propria famiglia.
Andai da papà, esigendo spiegazioni. Lui taceva, guardava il pavimento. Anche mamma rimaneva in silenzio, finché un giorno, per la prima volta, esplose:
Da dove vieni a pensare che vivessimo felici, Gigliola? Eri piccola, non vedevi nulla. Per settimane non parlavamo. Lui non sa amare, non ha mai saputo.
Mamma, perché lo dici così?
Lui me lo ha detto lui stesso.
Qualcosa dentro di me si spezzò. Smisi di rispondere alle sue chiamate, di pensare al libro, di essere me stessa.
Quando lamica Sofia mi propose un viaggio in India, rifiutai subito:
Sul serio? Ora? Non posso E così elencai scuse infinite. Ma quella sera, raccontando al marito del nostro dialogo, lui mi guardò e, con un sorriso, disse:
Vai. Hai bisogno di questo viaggio.
Volei replicare, ma lui mi interruppe dolcemente:
Gigliola, vai. Ce la faremo.
E partii.
Il ritiro lo condusse una donna straordinaria, Jagya Shanti. Voleva essere chiamata così; il suo maestro le aveva dato quel nome durante lunghe pratiche in un ashram: Jagya = vittoria, Shanti = pace, vincere la pace per trovarla. Nella sua presenza si percepiva una profondità già scoperta.
Era luminosa, non ingenua, ma davvero chiara. Non diceva mai no. Non era sottomissione, ma accettazione. Andammo al tempio di Karni Mata, chiamato tempio dei topi, dove centinaia di ratti sacri, anime degli antenati, venivano nutriti e venerati. Noi ragazzine eravamo spaventate, ma Jagya si inginocchiò, li nutrì con il palmo e sussurrò:
La vita non si presenta sempre come ci aspettiamo, ma è vita comunque.
Amava il sole, ogni foglia, ogni erba, lombra di una palma, le nuvole irregolari Viveva il qui e ora, non come slogan, ma come respiro.
Le sue frasi semplici spostavano qualcosa dentro di me.
***
Quella sera, al ritorno dalla meditazione, il tramonto era denso, umido, come se il sole si fosse sciolto allorizzonte. Jagya propose di sedersi in silenzio sul tetto dellashram. Tutti gli altri si rifugiarono nelle stanze, io accettai. Guardando il cielo, provavo una strana mescolanza di tristezza e solitudine.
Jagya era accanto, fissava il vuoto. Non chiedeva nulla, ma la sua presenza mi avvolgeva. Quando espirai un sospiro pesante, si girò verso di me.
Nel tuo silenzio cè tensione, Gigliola, disse. Sei tranquilla fuori, ma dentro è tempesta.
Sorrisi:
Sono sempre così. Penso troppo.
No, rispose dolcemente. Oggi non pensi, ti nascondi.
Mi guardò senza pressione e aggiunse:
A volte si tace non per non parlare, ma per paura di sentire la propria verità.
Quelle parole mi trafitarono. Mi girai, non volevo che vedesse le mie labbra tremare.
Continuò, così sottile da sembrare lettura del pensiero:
Quando una donna nasconde la verità, la nasconde prima a sé stessa. Il cuore però sa sempre. È ansioso, come un pulcino che cerca un rifugio.
Poi, con lentezza, mi chiese:
Da dove viene quel pulcino, Gigliola? Da dove nasce questa ansia?
Una pausa. Il suo sguardo puntava al mio cuore, non agli occhi. In quel momento cera la vera Jagya: non chiedeva direttamente, vedeva, guidava verso la verità con la sola presenza.
Raccontai tutto, ogni piccola ferita. Ascoltò a lungo, poi disse:
Ami molto i tuoi genitori e vuoi salvarli dalla separazione, ma i figli non salvano i genitori. I figli amano e lasciano andare. Hai preso su di te un peso che non è tuo. Non puoi tenerli insieme, non devi farlo.
Piansi. Lei accarezzò la mia mano e concluse:
Sei una figlia, non un giudice, non una pacificatrice, non una terapista. Accetta il tuo ruolo, e sarà più leggero vivere.
Per la prima volta da tempo respirai davvero.
***
Tornata a casa, la prima cosa fu chiamare papà.
Papà, perdonami, ti voglio bene. Mi ascolti? Ti amo.
Il silenzio, poi il suo singhiozzo.
Ti aspettavo, Gigliola ti aspettavo così a lungo.
Quella sera andai da mamma. Sedemmo in cucina, lei tornò ad essere quella luce tenue, un po timida, un po divertente. Parlammo fino a tardi. Per la prima volta la vidi non solo come mamma, ma come donna, con la sua storia, il suo dolore, le sue scelte, la sua libertà.
Qualche giorno dopo aprii il laptop e cominciai a scrivere un nuovo libro. Non più sulla famiglia ideale, ma su quella viva. Sulla varietà dellamore, sul cammino che è cammino, sulla memoria, sullaccettazione. Sulla luce che non è dove tutto è perfetto, ma dove tutto è sincero.
So che ora scriverò come donna, come Gigliola, che ha trovato il suo mondo dentro di sé.






