Svegliati prima e prepara la zuppa per mamma, – ordinò il marito. – Chi è nato da lei, dovrebbe cucinare per lei!

«Alzati presto e prepara la minestra per la mamma», mi ordina Marco, senza mezzi termini. «Che la faccia chi è nata da lei».

Io, Ginevra, sono seduta nella mia poltrona preferita con una tazza di spremuta darancia, fissando il televisore senza vedere nulla. È venerdì, le nove di sera. Sullo schermo scorrono i titoli di chiusura di un nuovo episodio di una serie crime, ma la mia mente è già a sabato prossimo. È il giorno sacro in cui arriva la suocera.

Da cinque lunghi anni di matrimonio questi finesettimana sono diventati una prova di resistenza. Ogni sabato, come una maledizione che non si può spezzare.

Tutto comincia in modo innocente. La suocera, la signora Rosa, veniva a farci visita una volta al mese: un tè, una chiacchierata, gli aggiornamenti sui nipotini. Marco la accoglieva sempre con voce preoccupata:

«Mia madre è sola, è anziana. Papà è morto da dieci anni. Dobbiamo dedicarle un po di tempo, sostenerla moralmente, parlare con lei.»

Io accettavo volentieri. Era il suo parente, doveva essere rispettato, doveva ricevere cura.

Poi, piano piano, le cose cambiano radicalmente.

Le prime critiche riguardano la pulizia di casa. Dopo la prima visita, Rosa chiede al figlio di entrare in corridoio:

«Petruccio, tesoro, chi pulisce i pavimenti a casa vostra?»

«Ginevra, certo che lo faccio, mamma», risponde lui, sorpreso dalla domanda.

«Strano, perché sul linoleum ci sono ancora aloni e la polvere è sui battiscopa.»

Da quel giorno, ogni volta che la suocera arriva, io mi trasformo in una maniaca della pulizia. Passo ore a spazzare, a lavare i pavimenti due volte: prima con un detergente concentrato, poi asciugandoli a secco. Spolvero ogni superficie, dai mobili ai libri, persino i radiatori e i battiscopa. Pulisco la vasca finché non brilla come uno specchio.

«Mia madre è sempre stata esigente sulla pulizia», spiega Marco osservandomi mentre passo il panno negli angoli. «A casa sua cè ordine da museo.»

«E io cosa, una scrocca?», chiedo, con la schiena curva dal lavoro.

«No, è solo sei più rilassata in casa», risponde lui.

Relax è lultimo aggettivo per una donna che lavora dieci ore al giorno in una banca, gestendo clienti nervosi, report e le pretese dei dirigenti.

Eppure resisto. La famiglia è fatta di compromessi, di concessioni reciproche, no?

Un anno dopo Rosa appare più spesso: prima ogni due settimane, poi ogni sabato senza eccezione.

«Si annoia da sola nel suo appartamento», dice Marco, «per fortuna ha un posto dove può riposare lanima.»

Il riposo è una parola curiosa in questo contesto, perché è solo la suocera a riposare nella nostra casa. Io, invece, lavoro come un mulo.

Oltre alle pulizie impeccabili, arrivano le attività ricreative obbligatorie. Rosa non si accontenta più di stare sul divano a bere tè e mangiare biscotti. Vuole uscite, giri per i negozi.

«Petruccio, tesoro, andiamo a vedere qualche blusa nuova?», ripete ogni sabato. «Il mio guardaroba è in rovina.»

«Certo, mamma! Presto! Ginevra, sbrigati!»

Io mi affretto, trascinata nei centri commerciali soffocanti, portando appesi vestiti su carrelli, aspettando pazientemente le cabine di prova.

Rosa è una cliente esigente: prova cinquesette capi e alla fine ne compra uno, o a volte nessuno, sospirando deluso.

«Oggi la qualità non è più come una volta. Ai tempi del dopoguerra si cuciva meglio.»

«Proviamo un altro negozio?», suggerisco, esausta.

«Andiamo! Lì sarà sicuramente migliore.»

Ancora spogliatoi, code infinite alle casse, prove infinite.

Marco non partecipa a queste maratone di shopping. Ha sempre cose da uomini più importanti: la partita di calcio in TV, un incontro con gli amici in garage, lavare lauto o una battuta di pesca.

«Le donne trovano queste cose più interessanti», dice, «io non voglio dare consigli che solo intralciano.»

Interessante, davvero. Dopo una settimana stressante in banca, girare per i negozi con una suocera capricciosa è, sorprendentemente, divertente.

Eppure nemmeno questa prova è il limite della pazienza.

Ieri, torno a casa dal lavoro quasi a mezzanotte, esausta come non mai. Relazione trimestrale per la sede centrale, riunione demergenza con i dirigenti, una lite con un cliente problematico. La testa scoppia, le gambe non reggono più il peso.

Marco è sul divano, sorseggiando lultima tazza di tè, guardando lennesimo episodio di una serie giallonera.

«Come è andata al lavoro?», chiede, senza distogliere lo sguardo dallo schermo.

«Stremata», rispondo, crollando sulla poltrona.

«Capito. Riposa. Domani la mamma arriva di mattina.»

«Lo so», rispondo brevemente.

«Ascolta, Ginevra, domani alzati presto e prepara la minestra per la suocera. È stanca, è affamata. Deve essere di pollo di allevamento, sai, la mamma ha lo stomaco delicato. Serve un brodo vero, non chimico del supermercato.»

«Pollo di allevamento?»

«Sì, al mercato centrale di Milano cè la signora Bianca, tiene polli vivi. Deve essere fresco, caldo. Il pollo surgelato del supermercato è roba da niente.»

«A che ora devo andare?»

«Alle sei e mezza, il mercato apre alle sei, torni a casa per le otto. La mamma di solito arriva per le nove.»

«Perché non vai tu?»

«Mi piacerebbe, ma tu sei più brava con queste cose. E la minestra è un lavoro da donna. Io, così, mi posso dormire fino a mezzogiorno, prendere un po di forza per il resto della giornata.»

Mi dirigo in bagno, mi lavo i denti a lungo, pensando a quanto sia ingiusta la situazione. Marco vuole dormire fino a pranzo nel suo meritato giorno di riposo, mentre io devo alzarmi al mattino, attraversare la città per comprare il pollo, poi stare tre ore a girare il fuoco.

«Metti la sveglia», mi grida Marco dal soggiorno.

«Che sveglia?»

«Quella che ti fa non dormire più a mezzanotte.»

«E perché dovrei alzarmi? Non devo cucinare domani.»

Non cucina, dice, come se non fosse la sua madre a venire a far visita. Come se non avesse alcuna responsabilità familiare.

«Va bene», dico, ma non imposto la sveglia sul telefono.

Al mattino, suono la porta. Sono le sette e dieci, fuori ancora piove una leggera pioggia autunnale.

«Chi può essere?», brontolo, cercando il pigiama.

«È la suocera!», risponde una voce familiare.

Il cuore mi salta in gola. La suocera è qui, prima del solito.

Apro la porta. Rosa entra con due sacchi di tela, un cappotto leggero, fresca, piena di energia.

«Buongiorno, Ginevra! Profuma già di zuppa? O sono arrivata troppo presto?»

inghiotto il nodo in gola. La zuppa ne ho sentito parlare solo ieri sera.

«Nenuna zuppa cè», rispondo a malapena.

«Oddio!», esita Rosa. «E Marco diceva che avresti alzato presto»

«Marco dorme.»

La suocera entra nella casa come se non avesse sentito. Appende il cappotto.

«Nessun problema, tesoro! Andiamo subito al mercato, compriamo il pollo fresco. Il pollo del supermercato è solo chimica.»

Resto in piedi nella vestaglia, guardando la donna vivace, sentendo il sangue ribollire.

«Non andrò da nessuna parte.»

«Come così? E la zuppa?»

«Che la faccia chi lha ordinata.»

«Ma Marco lavora tutta la settimana! Deve riposare!»

«Anchio devo lavorare, e anche riposare.»

Rosa si siede al tavolo, pronta a discutere a lungo.

«Ginevra, non capisci? Il dottore mi ha detto che devo mangiare qualcosa di caldo al mattino. Lo stomaco è delicato!»

«Capisco, ma non perché è un problema mio.»

Cinque minuti dopo appare Marco, ancora in maglietta sgualcita, assonnato.

«Oh, mamma! È già qui?»

«Petruccio! Dovè la zuppa? Ginevra dice che non vuole andare a prendere il pollo.»

Marco fissa la moglie, confuso.

«Ti avevo detto ieri di alzarti presto e di cucinare la zuppa per la mamma.»

Io mi giro lentamente verso di lui, asciugo le mani con un canovaccio, lo guardo negli occhi.

«Che sia la mamma a cucinare chi è nato da lei.»

Il silenzio cala sulla cucina. Rosa resta immobile. Marco apre bocca, poi la chiude.

«Che cosa hai detto?»

«Quello che penso da tempo.»

«Ginevra!», sbotta la suocera. «Come osi!»

«Con le parole,» rispondo.

«Ma io sono tua suocera!»

«E allora? Mi rende la tua domestica?»

«Di domestica?», interviene Marco. «Mia madre è famiglia!»

«La tua famiglia, la tua madre. Tu le cucini.»

«Non so cucinare!»

«Cerca su internet, ci sono migliaia di ricette.»

«Ma tu sei donna!», balbetta Marco.

«E tu sei un alieno?»

«Ginevra», dice dolcemente Rosa, «capisco che sei stanca, ma le responsabilità di famiglia»

«Di chi?», interrompo. «Di me? E di voi dove?»

«Io sono una donna anziana»

«Che viaggia in campagna, fa la spesa, richiede intrattenimento. Non sembri così anziana.»

«Come ti permetti!», scoppia la suocera.

«Facile. Ho sopportato cinque anni, ne ho avuto abbastanza.»

Cammino al fornello, accendo una piccola fiamma, metto una casseruola di avena.

«Che fai?», chiede Marco.

«Preparo la colazione per me. Porridge.»

«E per noi?»

«Non cè nulla per voi. Siete adulti.»

«Ginevra, è sbagliato!», si lamenta Rosa.

«Cosa è sbagliato? Che non voglio essere una domestica gratuita?»

«Ma io sono la mamma di Marco!»

«Allora occupati delle tue responsabilità da madre. Nutri tuo figlio.»

«Non cucinerò nella tua cucina!»

Marco si siede, guardando la madre con confusione.

«Mamma, andiamo al bar?»

«Il bar è caro, fa male allo stomaco», sbuffa Rosa. «Allora cucina qualcosa a casa.»

«Ma non lo farò!»

«Io non so nemmeno cucinare!», esplode Marco. «Ginevra, devi prenderti cura della famiglia!»

«Della mia famiglia sì. Delle zie altrui no.»

«Mia mamma non è una zia!»

«È una suocera per me. Non lho cresciuta, non lho scelta.»

Rosa inizia a piangere.

«Che crudele!»

«Crudele è usarla come serva per cinque anni», rispondo.

«Dove vai?»

«A fare le mie cose. Voi due risolvete da soli.»

Esco verso il bagno. Lacqua calda lava le fatiche di cinque anni.

Resta la cucina vuota, con due adulti che ora devono decidere se preparare una semplice minestra o forse solo un porridge.

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