Rimanere umani
Metà dicembre a Parma era umida e ventosa. Una leggera spolverata di neve copriva a malapena il selciato. Lautostazione, con i suoi corridoi pieni di correnti gelide, sembrava lultimo presidio immobile contro il tempo che scorre. Laria era intrisa di odore di caffè del bar, disinfettanti e quel sentore di decadenza nelle stazioni di provincia. Le porte di vetro sbattevano sotto le folate, lasciando entrare di continuo unondata di freddo insieme a passeggeri dal volto arrossato dal vento.
Beatrice camminava svelta nella sala dattesa, consultando lorologio grande sopra le banchine. Era lì solo di passaggio. Il viaggio di lavoro in una piccola città dellEmilia era finito prima del previsto, e ora doveva raggiungere Milano con due cambi. Questa stazione era la prima, e senza dubbio la più malinconica.
Aveva il biglietto per lautobus serale. Adesso le toccavano tre lunghe ore dattesa, durante le quali la noia e il freddo di quel posto le penetravano fino alla fodera del suo costoso cappotto. Da dieci anni non metteva piede in queste zone, e tutto le pareva rimpicciolito, sbiadito, lento, lontanissimo da ciò che era diventata la sua vita.
I suoi tacchi risuonavano secchi sulle mattonelle. Era una presenza estranea e vistosa: un cappotto di pregio color cammello, i capelli acconciati perfettamente nonostante il viaggio, la borsa in pelle a tracolla.
Con lo sguardo che aveva imparato a scrutare e selezionare, abbracciò la sala: la tabaccaia, intenta al cellulare e a sbadigliare, una coppia di anziani che condivideva in silenzio una rosetta, un uomo con la giacca lisa che fissava il vuoto.
Avvertiva su di sé degli sguardi: non ostili, semplicemente constatatori straniera, diversa. E in cuor suo se lo concedeva. Doveva solo aspettare e sorpassare questo luogo e questo tempo come un brutto sogno. La mattina dopo sarebbe stata di nuovo nella sua accogliente casa a Milano, tra il tepore e la luce, lontano da questa malinconia che punge le ossa.
Proprio mentre stava scegliendo dove sedersi, qualcuno le sbarrò il passaggio.
Un uomo. Sui sessantanni forse qualcosa in più. Un volto segnato dal tempo ma ordinario, di quelli che non si ricordano. Portava un vecchio giaccone ben rattoppato e uno zuccotto che teneva in mano, forse per il caldo del locale. Non le si era posto davanti con decisione; era semplicemente apparso, come materializzato dallombra grigia della sala. Cominciò a parlare con una voce piatta e sommessa, priva di qualsiasi inflessione.
Mi scusi Signorina Potrebbe dirmi dove posso bere un po dacqua?
La domanda rimase sospesa, un po ridicola nella sua semplicità. Beatrice, quasi senza guardarlo, fece un gesto verso il bar con la tabaccaia stanca: dietro il bancone spiccavano le file di bottiglie dacqua minerale.
Lì, al chiosco disse sbrigativa, cercando di aggirarlo. Una punta di irritazione la sfiorò. Bere. E poi signorina. Parole daltri tempi. Non poteva vedere da solo? Era chiaro.
Lui annuì, ringraziò a mezza voce: «Grazie» Ma non si mosse. Rimase lì, con la testa bassa, come se radunasse le forze per fare quei pochi passi. Quella esitazione, quel senso di smarrimento di fronte a un gesto così banale, fecero esitare anche Beatrice, spingendola a posare ancora una volta lo sguardo su di lui.
Vide. Non i vestiti, né letà. Notò le gocce di sudore sulla tempia che scendevano sulla guancia nonostante il freddo, le dita che stringevano nervosamente il berretto, lo strano pallore delle sue labbra e lo sguardo velato e perso nel vuoto.
Qualcosa dentro di lei si incrinò. La sua fretta, la sua irritazione, la sensazione di essere superioretutto si sgretolò in quellistante, come se il suo piccolo mondo curato avesse improvvisamente smesso di reggere. Non pensò nemmeno. Fu puro istinto.
Si sente male? chiese, e nella sua voce percepì uninaspettata dolcezza, senza la usuale nota tagliente. Non lo ignorò più, ma gli si avvicinò.
Luomo la guardò, non cera supplica nei suoi occhi, solo smarrimento e vergogna.
La pressione forse La testa mi gira sussurrò, con le palpebre che tremavano, come se rimanere in piedi gli richiedesse uno sforzo immenso.
Beatrice reagì automaticamente. Lo prese sottobraccio, con fermezza ma senza invadenza.
Non resti in piedi. Venga, sediamoci la sua voce era ferma, decisa ma gentile. Lo accompagnò al primo posto libero vicino, dove pochi istanti prima sarebbe passata oltre.
Lo fece sedere e si mise davanti a lui, quasi accovacciata, senza badare a come apparisse.
Appoggi la schiena e respiri piano, con calma, senza fretta.
Poi si precipitò al bar e tornò con una bottiglietta dacqua e un bicchiere di plastica.
Ecco, beva. A piccoli sorsi.
Dalla tasca estrasse un fazzoletto di carta e, senza pensarci, gli asciugò la fronte. Tutta la sua attenzione era per lui: il respiro incerto, il polso flebile che percepiva al suo polso.
Aiuto! la sua voce squarciò la calma della stazione, chiara e decisa. Non un grido di panico, ma una richiesta daiuto. A questuomo serve unambulanza, subito!
E la stazione, questo rifugio per anime in attesa, prese vita dimprovviso. La coppia di anziani fu la prima a intervenire: la donna corse con un blister di pastiglie, il marito chiamava già il 118. La tabaccaia venne fuori dal suo chiosco. Altri si avvicinarono gente normale, anonima. Non più semplici comparse, ma una piccola comunità intorno allemergenza.
Beatrice continuava a parlare a bassa voce con luomo, tenendogli le mani fredde tra le sue. In quel momento non era né manager, né forestiera. Era, semplicemente, una persona vicina a unaltra. E questo, capì, era più che sufficiente.
Presto la sirena di unambulanza ruppe il silenzio dalla strada. Le porte si spalancarono e due soccorritori in giacche blu con croce rossa entrarono, portando dentro con sé unaltra ventata gelida.
Fu come un segnale: la folla si aprì lasciando loro un corridoio. Beatrice alzò lo sguardo. Linfermiera la fissò con occhi professionali ma stanchi.
Cosè successo? domandò inginocchiandosi accanto alluomo, gesti rapidi e sicuri.
Beatrice rispose con chiarezza, come in una riunione di lavoro, ma stavolta nella voce cera solo stanchezza e sollievo.
Si è sentito male. Vertigini, debolezza, molta sudorazione. Credo sia pressione. Gli ho dato acqua, una pastiglia di valda. Ora pare stabile.
Mentre parlava, il secondo soccorritore gli misurava la pressione e controllava le pupille. Luomo si riprese, rispose piano alle domande: nome, età, terapie.
Linfermiera fece cenno di assenso.
Ha fatto benissimo. Ora lo portiamo allospedale, controlleranno tutto.
Aiutarono luomo a rimettersi in piedi. Lui si voltò, cercando Beatrice che lo guardava tra la piccola folla.
Grazie, figliola la voce rauca, carica di autentica gratitudine, le spezzò il fiato in gola. Forse mi hai salvato la vita.
Beatrice non trovò le parole. Annui semplicemente, percependo il vuoto lasciato dalladrenalina che svaniva. Lo vide allontanarsi sulle gambe flosce, sorretto dai soccorritori, verso la porta aperta e la sagoma bianca dellambulanza. Laria fredda entrò nella sala, qualcuno brontolò: «Chiudete, entra spiffero!»
La porta sbatté, e la sirena si allontanò. Lautostazione riprese piano il suo ritmo svogliato, mentre la gente tornava ai propri posti.
Beatrice restò ferma per un lungo istante. Abbassò gli occhi sulle mani, segnate da leggere strisce rosse dove aveva stretto la borsa. La sua acconciatura era ormai disfatta, il cappotto stropicciato e macchiato in fondo quando si era inginocchiata.
Andò in bagno a lavarsi le mani e il viso. Lacqua gelida punse la pelle. Nellimmagine riflessa nello specchio screpolato scorse per la prima volta dopo anni un volto vero: trucco sbavato, occhi stanchi, capelli in disordine. Un volto che non era perfezione, ma crudamente umanopieno dansia, compassione e stanchezza.
Si asciugò il viso con la carta e, senza guardarsi ancora, ritornò in sala ad aspettare lautobus, che sarebbe passato solo dopo unora.
Dal chiosco, acquistò una bottiglietta dacqua per sé. Ne bevve un sorso. Era fresca, banalissima acqua, eppure in quel momento rappresentava la cosa più importante del mondo. Non era solo una bevanda; era un legame. Un legame semplice, umano, che nasce nel momento in cui smetti di vedere laltro come un ostacolo o uno sfondo e lo riconosci come una persona.
I volti di chi aveva aiutato erano stanchi, segnati dallemozionenon belli, ma sinceri. Mai aveva visto volti più veri, vivi.
Si specchiò nel vetro sporco della sala, nel cappotto scuro e con lo sguardo preoccupato. Si sentiva finalmente cosìvera. Non una figura perfetta, ma una persona capace di percepire il silenzio degli altri e rispondere col cuore.
Si sedette e posò la bottiglia a fianco. Latmosfera tornava alla solita lentezza, ma ora notava: la tabaccaia che serviva il tè caldo a unanziana col bastone, un uomo che aiutava una giovane madre con il passeggino. Piccoli gesti che formavano un quadro diverso, non grigio ma pieno di invisibili leggi di solidarietà.
Prese in mano il telefono. Un messaggio del lavoro: un problema in un report. Ore prima le sarebbe sembrato cruciale. Ora rispose: «Rimandiamo a domani. Si risolve». E abbassò il volume.
Stasera ho ricordato una verità semplice, quasi dimenticata. Le maschere servono al mondo. Quella del professionista, delluomo di successo, dellirraggiungibile: sono come abiti nei diversi atti della vita. Si indossano e si tolgono. Il pericolo sta solo nel dimenticare la pelle sotto di esse. Nel credere che tu sia solo la maschera.
Oggi, tra queste raffiche gelide, la mia si è incrinata. E attraverso la crepa è uscita quella cosa verala capacità di preoccuparsi per un altro. Di inginocchiarsi sul pavimento sporco senza pensare allaspetto. Di essere, anche solo per un attimo, non signora Colombo, dirigente, ma una semplice ragazza che si ferma ad aiutare.
Restare uomini non significa gettare via tutte le maschere, ma ricordare sempre cosa cè sotto. Ed ogni tanto, come oggi, concedere a quella parte fragile e vera di vedere la luce. Solo così si può tendere la mano a chi ha bisogno.






