Panchina per due
La neve era già scomparsa da un po, ma la terra nel giardino pubblico restava scura e umida, e sui vialetti cerano ancora sottili strisce di ghiaia. Speranza Bellini camminava piano, stringendo la borsa della spesa e guardando i suoi piedi. Da tempo aveva preso labitudine di mappare ogni buca, ogni sassolino sul percorso. Non era fissazione di carattere, ma prudenza acquisita: la paura di cadere si era piazzata dentro di lei da quando si era rotta il polso, tre anni prima, e mica se nera più andata.
Viveva sola in un appartamento al piano terra in via Mascagni, un tempo affollato di voci, profumi di sugo e porte sbattute. Ora regnava la quiete. Il televisore borbottava in sottofondo, ma spesso lei si accorgeva di non seguire, guardando solo la scritta scorrevole dei notiziari. Il figlio chiamava in video la domenica: sempre di corsa, tra una faccenda e laltra, però chiamava. Il nipotino faceva capolino sullo schermo, salutava con la manina, mostrava qualche dinosauro di plastica. Speranza si rallegrava, ma ogni volta che chiudeva la chiamata sentiva la stanza riempirsi di quel solito immutabile silenzio.
Aveva una sua routine. Di mattina ginnastica, pillole, caffelatte e una ciotolina di biscotti. Poi una breve passeggiata fino al giardino e ritorno giusto per far circolare un po il sangue, come consigliava la dottoressa del consultorio. A pranzo: cucina, tg, qualche cruciverba. Poi la sera tra telenovela e ferri da maglia. Niente di speciale, ma era la sua disciplina dallenamento, come ripeteva ogni tanto alla signora Pina nellandrone.
Oggi, tirava vento, ma per fortuna asciutto. Speranza si avvicinò alla sua panchina vicino allaltalena e si sedette con cautela sullorlo. Sistemò la borsa, controllò che la zip fosse chiusa. Lì vicino due bimbi in tute colorate giocavano urlando, le mamme chiacchieravano allegramente, senza badare ai passanti. Lei si godeva il momento, tanto tra poco sarebbe tornata a casa aveva deciso così.
Dallaltro lato del parchetto, verso la fermata dellautobus, si trascinava lentamente Domenico Rinaldi. Anche lui contava i passi. Fino alledicola settantatré; allambulatorio centoventi; la fermata novantacinque. Contare era più facile che riflettere sul fatto che a casa non laspettava nessuno.
Un tempo faceva il meccanico alle officine Alfa Romeo, partiva per le trasferte, litigava e rideva con i colleghi nella pausa caffè. Poi, la fabbrica chiuse da un pezzo e gli amici li vedeva col contagocce. Qualcuno si era trasferito dai figli, qualcun altro era già al cimitero di Porta Romana. Il figlio stava a Torino, lo visitava una volta allanno, massimo tre giorni, sempre di corsa. La figlia era lì, appena dallaltra parte della città, ma tra lavoro, figli e mutuo aveva già abbastanza grane. Non se la prendeva così almeno raccontava a se stesso ma la sera, quando fuori la Milano sembrava ancora più scura e il calorifero sibilava, a volte si metteva ad ascoltare, come se aspettasse il rumore della chiave nella toppa.
Quel giorno era uscito per comprare il pane e passare in farmacia ci voleva unaltra scatola di pastiglie per la pressione, precauzione della dottoressa. Si trascinava con nella tasca il bigliettino degli acquisti, scritto grosso che così non si sbagliava. Le mani gli tremavano appena ogni volta che rileggeva per non dimenticare nulla.
Arrivato alla fermata, vide che lautobus era appena partito. La gente cominciava a disperdersi. Sulla panchina sedeva una donna con un cappotto grigio chiaro e una cuffia di lana blu. Accanto la borsa. Lei non fissava la strada, ma il parchetto.
Domenico rimase incerto. Stare in piedi era scomodo e la schiena tirava. La panchina era per metà libera, ma non gli piaceva sedersi accanto a donne sconosciute non si sa mai come la prende la gente, oggigiorno. Però tirava freddo, e alla fine cedette.
Permesso, posso? domandò lui, inchinandosi un po in avanti.
Lei voltò la testa. Occhi chiari, rughette despressione tutte intorno.
Ma certo fece lei, scostando la borsa. Si accomodi pure.
Lui si appoggiò bene agli estremi della panchina. Nessuno dei due parlava per un po. Una macchina passò, lasciando limmancabile aroma di gasolio.
Gli autobus ormai fanno come gli pare sbottò lui per rompere il ghiaccio basta girarsi un attimo e spariscono.
Eh già, annuì lei. Laltro ieri ho aspettato mezzora. Fortuna almeno che non pioveva.
Lui la osservò meglio. Non la riconosceva, ma ormai in zona cera pieno di nuovi residenti, nuovi palazzi, nuova gente.
Abita qui in zona? chiese circospetto.
Lì, oltre la strada rispose lei con un cenno verso i vecchi palazzi delle Ferrovie. Primo portone, sopra la bottega. E lei?
Dallaltro lato del giardino, nel condominio alto rispose lui. Sempre qua vicino.
Di nuovo silenzio. Speranza pensava che le chiacchiere in fermata fossero la cosa più normale del mondo: due parole, poi ciascuno per conto suo e ci si dimentica. Però questuomo aveva unaria stanca e un po persa, anche se ostentava una certa compostezza.
E stato in ambulatorio? domandò, indicando la busta con il logo della farmacia.
Sì, a prendere le medicine sollevò la busta , la pressione fa i capricci. E lei?
Spesa disse lei. E anche per sgranchirsi. Se no uno si incolla alla poltrona e non si alza più.
E mentre lo diceva, sentì una fitta proprio allaltezza del petto. Quella parola, casa, suonava fin troppo vuota.
Apparve lautobus. La gente si fece avanti verso il ciglio della strada. Domenico si alzò, poi attese.
Io sono Domenico, comunque disse, come se si stesse decidendo solo ora. Rinaldi.
Speranza Bellini, replicò lei alzandosi a sua volta. Piacere.
Saliti sullautobus, la folla li separò. Lei restò davanti aggrappandosi forte al corrimano, sentiva i sobbalzi sulle buche. A un certo punto incrociò lo sguardo di Domenico dallaltra parte lui fece un segno con il capo, lei rispose.
Due giorni dopo si ritrovarono di nuovo stavolta proprio al giardino. Speranza era già seduta sulla panchina quando notò la sagoma conosciuta. Domenico avanzava col bastone. Non ce lo aveva la volta prima, segno che aveva deciso di non rischiare.
Ah, la vicina di fermata! scherzò lui, avvicinandosi. Mi posso sedere?
Ci mancherebbe, si sentì rispondere quasi contenta.
Lui si sedette, poggiando il bastone tra sé e il bordo della panchina.
Si sta bene qui sospirò, guardandosi intorno alberi, marmocchi in corsa, meglio che chiuso in casa con le pareti che ti vengono addosso.
Vive da solo? chiese lei, considerandolo ormai domanda legittima.
Solo annuì lui. Mia moglie è mancata da sette anni. I figli hanno la loro vita, si sa. E lei?
Pure io disse. Mio marito è andato via da anni, mio figlio con famiglia lontano. Sentono, certo, ma…
Alzò le spalle e lui capì.
Le telefonate fanno piacere disse lui. Ma la sera, quando vai a letto, il telefono tace e basta.
Quelle parole semplici inaspettatamente la rincuorarono. Chiacchierarono ancora un po del tempo, dei prezzi al supermercato, della dottoressa nuova che non convinceva nessuno del palazzo. Poi si salutarono, ma il giorno dopo si ritrovarono ancora per caso, stessa ora, stesso tragitto.
Così iniziarono le loro abitudini: prima la fermata, poi il giardino, poi ledicola, infine la sala dattesa della Asl. Speranza si accorse di aver cominciato a tarare la propria giornata sulleventualità di incrociare Domenico. Non che volesse ammetterlo neanche a sé stessa: però la colazione era pronta dieci minuti prima, oppure usciva dieci dopo, a seconda.
Andavano insieme alle visite, commentando le analisi e maledicendo lo sportello elettronico che lei proprio non imparava a usare.
Deve prenotare su internet, signora spiegava la dottoressa giovane dietro il vetro. Dal sito.
Ma quale internet borbottava Speranza uscendo. Ho ancora il telefonino a tasti e per miracolosa grazia funziona.
Domenico annuiva e rideva sotto i baffi.
Se vuole la aiuto io si offrì un giorno. Mio figlio mi ha dato un tablet vecchio, cè lapp per prenotare. Magari ce la facciamo insieme.
Lei fece finta di niente, ma accettò. Si ritrovarono seduti su una panchina, lui che puntava il dito rugoso sullo schermo, lei che sbatteva via le notifiche pubblicitarie. Spesso sbagliava tasto e imprecare era quasi dobbligo. Speranza rideva di cuore.
Vede? alla fine disse lui Si può scegliere medico e orario. Basta sapere la password.
Quella me la scrivo sulla rubrica, rispose fiera.
In altri momenti era lei a dare una mano. Domenico si presentava con una montagna di bollette, e sospirava.
Prima si pagava tutto alla posta e via. Adesso ci sono venti codici, barcode, terminali diavolo in persona.
Facciamo per gradi, ordinava lei. Questa è la luce, questa lacqua. Limportante è non sbagliare destinatario.
Si sedevano in cucina, con una tazza di tè davanti; lei tirava fuori la confettura di more, lui portava i tarallini. La finestra si affacciava sul cortile, da cui proveniva il vociare dei bambini sulle bici. Speranza si accorgeva che le piaceva guardare lui, scrupoloso, ordinato, a chiedere consiglio, ogni tanto polemico.
Ma non deve pagare lei al mio posto protestò un giorno, vedendo che lei, con agilità da sportellista, digitava al bancomat. Ce la faccio anche da solo.
Ma io mica la mantengo ribatté lei ruvida. Mi dà i soldi, io solo premo i bottoni. Non faccia il mammone.
Lui si confuse, ma accettò. Dentro si agitava un misto di gratitudine e imbarazzo. Non aveva mai amato gravare sugli altri, nemmeno per le sciocchezze.
Ogni tanto, però, litigavano non urlando, ma con una discreta carica di risentimento. Un giorno, tornando dal mercato, venne fuori largomento figli:
Mio figlio mi dice sempre: Papà, vendi la casa, vieni a Torino da noi. Che ci stai a fare lì da solo? Ma io, che faccio, mi piazzo sul loro divano? Che già gli spazi sono quelli che sono. Qui almeno sono padrone.
Il mio invece continua a dirmi: Mamma, trasferisciti che abbiamo posto. Hanno una casa grande sospirò Speranza. Però io qui ho la tomba di mio marito, le amiche… Anche se a volte penso che dovrei andarci.
Ma che dice! si scalda Domenico. Lì dovè che le serve? Quelli rientrano dal lavoro, sono stanchi, hanno i figli e le riunioni di scuola… e lei in disparte. Quante ne ho sentite così!
E qui, invece, a chi servo? domandò lei tranquilla.
Lui tacque, pizzicato da quel qui. Gli sembrò che alludesse anche a lui. Un fastidio sottile gli montò dentro.
Vabbè, scusi borbottò. Pensavo che ormai fossimo…
Ma la parola amici rimase lì, bloccata. A questa età, suona sempre troppo rumorosa.
Non parlavo di lei disse lei piano, notando la sua smorfia. Intendevo in generale. A volte penso: se cambio aria, qui sparisce tutto. Un po mi fa paura.
Lui annuì, e il resto della strada tacquero. Allandrone si salutarono in modo strano, e quella sera Domenico si rigirò a letto a fissare lintonaco, con la sensazione di aver rovinato tutto da solo.
Per giorni non si videro. Il tempo sera imbruttito, pioggia e nevischio fastidioso. Speranza usciva comunque per una breve passeggiata ma Domenico non si vedeva. Si ripeteva che magari aveva da fare, o avrà preso l’influenza. Ma lansia montava, sottile.
Il quarto giorno, tornando dal supermercato, trovò nella cassetta della posta un foglietto scritto a mano: Per Speranza Bellini. Sono in ospedale. Domenico R. Niente stanza, niente reparto. Solo quello.
Le mani cominciarono a tremarle. Entrò in casa, lasciò la borsa su una sedia e fissò il biglietto. Cosa era successo? Collasso? Infarto? Chi lo aveva aiutato? Perché nessuno aveva chiamato?
Poi le tornò in mente che una volta lui aveva nominato il reparto di cardiologia dellOspedale San Luca. Rispolverò la vecchia rubrica, trovò il numero, chiamò, spiegò, la tennero in attesa, la passarono di qua e di là. Alla fine le dettero il numero della stanza e le dissero quando poteva andare.
Speranza odiava gli ospedali, lodore dantiseptico le dava i brividi. Ma il giorno dopo, allo scattare delle visite, era già davanti allingresso. In mano, sacchetto con mele e biscotti magari non poteva mangiare dolci… Sperava di non aver sbagliato.
Domenico era nella stanza centrale, tre letti. Un signore vicino alla finestra, un ragazzo giovane bendato, e lui nel mezzo, seduto con la Gazzetta srotolata in mano. Quando la vide, parve prima spiazzato, poi sorpreso e contento.
Speranza Bellini! Ma come mi ha trovata? domandò, poggiando il giornale.
A tentoni disse lei, lasciando la busta sul comodino. Che è successo?
Il cuore, sospirò lui. Mi ha fatto passare la notte. Mi hanno portato qui con lambulanza, resto un po in osservazione.
Lei lo fissò. Il volto pallido, occhiaie marcate, ma lo sguardo era quello battagliero.
E i figli? Sanno?
Mia figlia è venuta, mi ha portato la zuppa. Col figlio non ho ancora detto niente. Non lo voglio preoccupare.
Continuò, raccogliendo il coraggio:
Mia figlia, a dire il vero, mi ha chiesto di lei. Chi è questa signora che ti lascia i biglietti? Ho detto che una vicina mi aiuta con le pratiche.
Un colpetto al cuore per Speranza. Vicino che aiuta con le pratiche una tristezza! Si sedette.
Beh, in effetti sono una vicina, abbozzò con voce che sperava risultasse stabile. Do solo una mano.
Lui la guardò e si rese conto quanto fosse ridicolo quel modo di mettere le distanze. Ci rimase male.
Non volevo sminuire aggiunse in fretta. È che… sai comè, se le avessi detto che ho una compagna, quella attaccava: Papà, hai settantanni, mica diciotto! Pensano che da vecchi si diventi scemi.
In effetti non abbiamo diciottanni sorrise lei. Ma restiamo sempre persone.
Lui annuì. In quegli attimi calò il silenzio. Laltro letto cigolò; il letto vicino si voltò, facendo finta di dormire.
Io, stanotte, disse Domenico piano ho capito che non è la morte che mi spaventa di più. Ma lidea che ti portano via di corsa e nessuno si accorge. Stai lì, guardi il soffitto, e nessuno che chiami. I figli lontani, ognuno con la sua vita. Poi mi son ricordato di lei. E mi sono rasserenato. Almeno qualcuno viene a cercarmi.
A Speranza le venne quasi da piangere. Girò la testa, guardando un bicchierino con un rametto avvizzito sul davanzale.
Pure io ho paura, ammise. Solo che faccio finta di niente, per mio figlio, per i vicini. La sera, però, conto quante pastiglie mi rimangono. Sa che risate…
Non cè proprio niente da ridere rispose lui. Anche io le conto.
Si guardarono, e insieme sorridettero. In quello scambio cera la complicità e la leggerezza di chi si capisce.
Entrò in stanza una donna sui quarantacinque, pacco della spesa in mano. Era decisamente imparentata: stesse spalle, stessa mascella.
Papà, disse poggiando la busta. Ti ho preparato il brodo. E questa signora chi è?
Con uno sguardo rapido la scrutò.
È Speranza Bellini rispose lui con calma. Una… cara conoscente. Usciamo insieme per le cose di tutti i giorni. Mi aiuta quando cè da prenotare o pagare le bollette.
Buongiorno salutò lei educata. Grazie di dargli una mano. Lui vorrebbe fare sempre tutto da solo, ma non si può.
Piacere mio, rispose Speranza. Capita di camminare assieme.
La donna annuì con una certa diffidenza, ma senza scortesia. Iniziò a sistemare la roba, controllare coperte, fare domande. Speranza si sentì di troppo e poco dopo salutò.
Passo ancora promise alluscita.
Se può, rispose lui. Fa piacere.
Lo faccio volentieri, assicurò e uscì.
A casa, ci ripensò a lungo. Conoscente era poco, ma andava bene così. A questetà, troppo clamore è ridicolo. Limportante era che, nel momento del bisogno, lui pensasse proprio a lei.
Domenico rimase ricoverato due settimane. Speranza andava a giorni alterni, portava frutta, biancheria, giornali freschi. Talvolta stavano zitti ad ascoltare le ruote delle carrozzine nei corridoi. Altre volte si raccontavano storielle di gioventù, la fabbrica, le gite in riviera, la casa in campagna venduta da anni.
La figlia di lui si abituò piano alla sua presenza. Un giorno, finito il tempo delle visite, la accompagnò allascensore:
Grazie davvero. Io lavoro tutto il giorno, non riesco a venire sempre. Meno male che cè qualcuno con cui papà può parlare. Ma per favore non si carichi tutto addosso. Per cose serie chiami me.
Non si preoccupi rispose Speranza. Ognuno ha la vita sua. Se posso dare una mano, lo faccio.
Domenico venne dimesso a fine aprile. Il medico fu categorico: camminare, poche arrabbiature e pastiglie regolari. La figlia lo riportò a casa in macchina, lo aiutò a sistemarsi. Il giorno dopo, con il bastone, uscì nel cortile e puntò verso la panchina.
Speranza era già lì che laspettava. Quando lo vide, si alzò tutta dritta.
Come va? domandò avvicinandosi per scrutarlo in faccia.
Vivo, ridacchiò lui. E non è poco.
Si sedettero vicini, senza dire nulla per parecchi minuti, ascoltando il rumore del quartiere. Poi lui:
Sa cosa ho pensato in ospedale? disse rigirandosi il cappello tra le mani. Che non voglio diventare un peso. Da una parte sono contento che venisse a trovarmi, dallaltra mi sentivo pure in colpa: magari lasciava da parte i suoi affari per stare dietro a me.
Ma quali affari sospirò lei. La spesa, lambulatorio, la tv. Non si faccia idee.
Ad ogni modo, non voglio che prenda tutto sulle spalle. Sono ancora un uomo pieno, non un bambino.
Lei lo fissò seria.
E secondo lei io vorrei diventare un peso? ribatté. E la paura di tutti. Perciò si va sempre avanti da soli. Ma sa che ho capito? Che si può stare chiusi ognuno nel proprio appartamento, con la paura di disturbare oppure si può trovare un accordo. Non promesse impossibili, solo presenza quando si può.
Lui meditò.
Cioè?
Facciamo così, elencò lei sulle dita. Niente telefonate notturne per chiacchiere: non sono la guardia medica. Se serve andare insieme dal dottore perché ha paura, mi chiama. Se deve pagare una bolletta e si incasina, venga. Ma per la spesa, se può vada da solo non sono una pony express.
Lui rise.
Dura, eh?
Realista, lo corresse lei. E valga anche per me: se sto male, posso chiamarla, ma non pretendo lei molli tutto. Ha figli, nipoti: rispetto il suo tempo. Anche mio figlio, poveretto, esiste ancora.
Lui annuì. Era liberatorio. Bastava recitare la parte del bisognoso o delleroe.
Intesa allora dichiarò lui. Ci aiutiamo, ma niente scenate da infermieri.
Esatto, brindò lei con il termos di tè immaginario.
La loro amicizia prese ritmi più comodi. Si ritrovavano nel giardino, visitavano lambulatorio, a volte si ospitavano a merenda. Ma entrambi sapevano dove iniziava la privacy.
Se un giorno il miscelatore della cucina di Speranza fece le bizze, chiamò Domenico.
Può darle unocchiata? Ho paura che mi allaghi tutto
Dare unocchiata vabbè accettò lui ma se cè da mettere mano seriamente, chiamiamo lidraulico. Ormai non sono più quello di una volta!
Lui fece due giri di rubinetto, concluse che serviva ricambio e le aiutò a telefonare al tecnico. Nellattesa, raccontava di quanto, da giovane, sarebbe riuscito persino a smontare una Panda. Lei sorrideva rendendosi conto che linvecchiare non era solo questione di acciacchi, ma di ammettere che, a volte, si ha bisogno daiuto.
Qualche volta andavano insieme al mercato del quartiere. Confusione, urla, signora la cipolla, signore le zucchine!, lui impassibile a contrattare le patate, lei che tastava i polli in esposizione. Tornando, criticavano i prezzi ma sapevano che la vera insidia era la giornata passata ognuno per conto suo, senza laltro.
I figli, ognuno a modo loro, avevano da ridire. Il figlio di Speranza, un giorno, le telefonò con aria circospetta:
Mamma, sto Domenico Rinaldi che citi sempre chi sarebbe?
Un vicino, rispose lei. Facciamo due passi, mi dà una mano col tablet, io lo aiuto con le bollette.
Ok, ma attenta ai soldi e ai documenti. Oggi ce ne sono di truffatori borbottò lui.
Speranza strizzò locchio al telefono.
Non sono una sprovveduta lo liquidò. Dai retta a tua madre.
Anche la figlia di Domenico si preoccupava.
Papà, con sta vicina non esagerare eh. Mica ti deve fare da badante. E poi, vai a fidarti
Abbiamo un patto, replicava lui. Niente sfruttamenti reciproci.
Che patto sarebbe? rideva lei.
Roba nostra da vecchietti chiudeva lui scherzando.
Arrivò lestate, silenziosa e calda. Il verde dei platani copriva le vecchie panchine, affollate ora di tutto il quartiere: ragazzini con la musica, mamme col passeggino, pensionati con i giornali. Ma Speranza e Domenico avevano ormai occupato la loro quasi un diritto acquisito.
Una sera, col sole basso, seduti lì a guardare la partita improvvisata di calcio dei ragazzi, laria profumata di terra secca e taglio derba, Domenico sistemò il bastone.
Sa cosa ho capito? osservò, senza staccare gli occhi dal prato. Pensavo che la vecchiaia fosse la fine di tutto: lavoro, amici, affetto. Ti restano le pasticche e la tv. Ora invece mi accorgo che qualche inizio ce nè. Non come prima, ma comunque.
Dice per noi? chiese lei con una luce di complicità.
Anche per noi annuì. Non so bene se chiamarla amicizia, compagnia, o società per code alle poste. Però con lei mi sento meno solo. Ecco.
Speranza fissò le sue mani un po’ tremanti, venose. Poi le proprie, segnate dagli anni. Erano simili, stesse storie scritte.
Anche io sto meglio ammise. Prima mi chiedevo: se domani non mi sveglio, chi se ne accorge? Ora so che almeno una persona si chiederà dovè finita la vecchia col cappotto blu.
Lui rise piano.
Non solo me lo chiederei disse. Scatenerei una rivolta in condominio.
E fa bene rispose lei.
Rimasero seduti ancora un poco, poi si avviarono insieme, ognuno sul proprio lato del viale. Arrivati allangolo si salutarono.
Domani in ambulatorio? domandò lui.
Ho da fare le analisi confermò lei. Mi tiene compagnia?
Fino alla porta, poi basta. Sa che le divoro tutti i risultati coi miei commenti.
Lei rise.
Intesa.
Si salutarono e ciascuno rientrò nel proprio portone. Speranza salì in casa, accese il bollitore in cucina, prese il pane fresco. Poi s’affacciò alla finestra che dava sul cortile.
Di sotto, Domenico era ancora alla porta che trafficava con le chiavi. Sentì lo sguardo su di sé, si voltò e fece un cenno. Lei rispose muovendo la mano.
Il bollitore fischiò. Si preparò la tisana, tirò fuori una fetta di pane. Sullo sgabello di fronte, il suo scialle di lana. Lo accarezzò distrattamente e si rese conto che quella quiete non era poi così vuota. Da qualche parte, magari dallaltro lato del cortile, cera una persona che lindomani sarebbe venuta con lei a far fila per le analisi, avrebbe criticato i medici e si sarebbe sincerato della sua pressione.
Lidea che la vecchiaia non si ferma per nessuno restava. Le caviglie facevano male, le pastiglie aspettavano precise, i prezzi aumentavano. Ma ora, dentro a tutto ciò, cera una piccola certezza. Non un miracolo, non una salvezza. Semplicemente, ancora una panchina nella vita, dove sedersi in due, recuperare fiato e poi riprendere ognuno col suo passo, ma insieme.






