Quando la nonna Giulia scopre di essere malata, accoglie la notizia con una serenità che a molti sembra stranissima. Si siede in cucina, si versa una tazza di tè, guarda fuori dalla finestra e dice: «Non resterò a casa a spettare la morte. Voglio vivere finché posso».
Ha sessantanni. È bassa, sempre sorridente, con quella scintilla interiore che gli anni, le preoccupazioni, la vita di tutti i giorni e le perdite non sono riusciti a spegnere. Dentro di lei arde sempre la fame di vita: silenziosa, ma tenace, come un germoglio primaverile che rompe la pietra.
Ha vissuto tutta la sua esistenza in una sola casa, vecchia ma accogliente, dove laria profuma di mele, menta e pane appena sfornato. Lì ha cresciuto i cinque figli, ha aiutato i nipoti, ha ricevuto gli ospiti e ha trascorso gli inverni. La casa è il suo universo, ma non vuole che sia lì che la sua storia si concluda.
Un mese dopo la diagnosi, vende labitazione. Non ne dice nulla a nessuno, se non a Zia Carla, la sorella più giovane, che la accompagna dal notaio. Tutti gli altri lo scoprono per caso. Il mio cugino Matteo, passando di lì, entra e trova le pareti vuote: senza mobili, senza tende, senza lodore delle crostate che un tempo accoglievano chiunque varcasse la soglia. Sulla porta pende un cartello: «Proprietà privata».
Qualche giorno dopo, tutti ricevono un messaggio vocale di Giulia. La sua voce è ferma, sicura, quasi sorridente: «Non ho intenzione di scusarmi. È la mia decisione. Ho lavorato tutta la vita ora voglio vivere finché posso».
Con i soldi della vendita, la nonna parte per un viaggio. Non va allestero né in hotel di lusso: gira lItalia, il suo paese che, come ammette più tardi, conosceva solo in parte. Va al mare della Riviera Adriatica, alle Dolomiti, a antichi monasteri come Montecassino, a piccoli borghi dove la gente ancora si saluta per strada.
Ci manda cartoline, brevi messaggi, foto: sorridente, abbronzata, con nuovi amici. A volte sparisce per settimane e ricompare: tranquilla, ispirata, come dopo una lunga conversazione con se stessa.
Qualcuno della famiglia non capisce la sua scelta. «Come ha potuto? È la casa, i ricordi, i figli, i nipoti!». Altri, al contrario, ammirano il suo coraggio. Lei risponde semplicemente: «Non voglio abbandonare le pareti. Voglio lasciare il ricordo di aver vissuto».
E davvero vive. Nellultimo anno forse per la prima volta davvero nei suoi occhi ritorna quella lucentezza che vedevamo solo nelle vecchie foto. Impara a gioire di ogni mattina, senza rimandare la felicità a «domani».
Quando non cè più, apriamo la sua piccola valigia. Dentro troviamo decine di biglietti, mappe turistiche, vecchie cartoline, appunti con i nomi dei caffè visitati, e più di cento fotografie: sorridente, sullo sfondo del mare, delle montagne, di case antiche e di strade. In ognuna cè vita, movimento, luce.
La casa non esiste più. I soldi anche. Ma rimane la libertà il bene più prezioso che aveva. Libertà di essere sé stessa, di vivere come vuole, senza chiedere permessi e senza voltarsi indietro.
E spesso mi chiedo: se sapessimo che il tempo ci è poco, cosa faremmo? Rimarremmo tra quattro mura, tra le solite cose e le paure? O, forse, avremmo finalmente il coraggio di vivere non «un giorno», non «dopo», ma adesso?
Forse è proprio lì che risiede la saggezza più autentica: non aspettare la morte, ma accogliere la vita a occhi aperti, come ha fatto lei.






