7 giugno
Le mie mattine iniziano sempre nello stesso modo. Sul fornello metto la moka, due cucchiaini di miscela nel suo serbatoio, quella panciuta che mi accompagna dai tempi in cui i bambini erano piccoli e sembrava che tutto fosse possibile. Mentre lacqua si scalda e il caffè sprigiona il suo profumo, accendo la radio in cucina. I notiziari scivolano tra le piastrelle e i mobili, familiari come voci di vecchi amici. Ormai i visi cambiano, ma le voci restano.
Sul muro ci sono lorologio con le lancette gialle, e sotto, il telefono fisso che squilla sempre meno. Una volta suonava ogni sera: le chiacchiere con la vicina Maria sul nuovo episodio della telenovela, le lamentele sullumidità delle ossa o la pressione che va su e giù. Adesso Maria e le altre chiamano di rado, qualcuna si è trasferita dai figli a Milano o Firenze, qualcuna non chiama più perché se nè andata per sempre. Il telefono, pesante, con la cornetta che si adatta bene alla mano, lo accarezzo passando come si fa con un vecchio gatto: per essere sicura che sia ancora lì, pronto a collegare con il mondo.
I figli invece chiamano solo al cellulare. O meglio, si chiamano tra loro; quando vengono a trovarmi, hanno sempre gli smartphone tra le dita. Mio figlio Alessandro a volte interrompe una conversazione, si fissa nel piccolo schermo, mormora Un attimo e inizia a digitare. Mia nipote Bianca, magrolina con la coda di cavallo, non lo lascia mai; dentro ci sono amici, giochi, lezioni, musica. Ormai tutto succede lì dentro.
Io invece ho un vecchio cellulare a tastiera, comprato quando sono finita in ospedale per la pressione alta per la prima volta.
Così possiamo chiamarti quando serve, aveva detto Alessandro.
Il telefono vive in una custodia grigia, sulla mensola allingresso, ma spesso dimentico di ricaricarlo e se lo metto in borsa finisce sotto i fazzoletti e gli scontrini del supermercato. Quando squilla, di rado, non sempre riesco a premere il tasto giusto e poi mi rimprovero a lungo per la lentezza.
Oggi ho compiuto settantacinque anni. Un numero che non mi appartiene. Dentro mi sento più giovane, forse di dieci anni, magari quindici. Ma il documento dice la verità. La mattina è una carezza di abitudini: caffè, radio, qualche esercizio per le articolazioni che mi ha insegnato la dottoressa dellambulatorio. Dal frigorifero prendo linsalata del giorno prima e preparo la crostata. I figli hanno promesso di arrivare per pranzo alle due.
Mi stupisce ancora il fatto che ora i compleanni si organizzano con i messaggi nei gruppi invece che con il telefono. Una volta Alessandro ha detto:
Noi con Angelica decidiamo tutto nella chat di famiglia. Prima o poi ti insegno.
Non lo ha mai fatto. Chat: parola strana, sembra di un mondo dove la gente vive dentro finestrelle e parla con lettere sullo schermo.
Sono arrivati puntuali alle due. Prima in ingresso è apparso mio nipote Matteo, lo zaino e le cuffie al collo, subito dopo Bianca, silenziosa come un soffio; poi Alessandro e Angelica, carichi di borse. In casa, allimprovviso, il rumore e lodore di cornetti freschi, il profumo di Angelica e uno scentore nuovo, una freschezza che non saprei descrivere.
Auguri, mamma, dice Alessandro abbracciandomi di fretta, come se dovesse correre altrove.
I regali si accumulano sul tavolo, i fiori finiscono in un vaso. Bianca chiede subito la password del Wi-Fi. Alessandro si infila le mani in tasca, sfila un foglietto e gliela detta: una serie di numeri e lettere che mi fanno girare la testa.
Nonna, ma perché non stai mai nella chat di famiglia? chiede Matteo, scalciando via le scarpe e dirigendosi in cucina. Lì succede tutto.
Quale chat, sbuffo spingendogli il piatto della crostata. Il telefono mi basta e avanza.
Mamma, interviene Angelica, in realtà il regalo di oggi centra con questo! si scambiano uno sguardo. Ti abbiamo preso una cosa.
Alessandro tira fuori una scatolina bianca, liscia, decorata con riflessi argento. Sento subito lansia montare: ho capito cosa contiene.
Uno smartphone, annuncia lui, come sentenziasse una diagnosi. Non costa troppo ma è buono. Ha la telecamera, internet, tutto quello che serve.
Ma perché proprio a me? chiedo cercando di non tremare nella voce.
Mamma, per parlare in video, dice Angelica rapida e decisa. Nel gruppo di famiglia condividiamo foto, notizie. E poi, oramai tutto passa per internet: prenotazioni con il medico, bollette. Ti lamentavi pure delle code allAsl.
Me la cavo anche senza, provo a dire, ma vedo Alessandro sospirare, riservato.
Noi siamo più tranquilli. Se ti serve qualcosa scrivi, oppure noi ti scriviamo. Così non devi cercare il cellulare con i tasti e capire dove sta il verde.
Sorride cercando di essere gentile, ma mi sento pungere. Capire dove sta il verde, come se fossi inutile.
Daccordo, concedo guardando la scatola. Se proprio ci tenete.
Apriamo la scatola tutti insieme, come quando erano piccoli. Ora invece sono grandi, raccolti intorno a me, mentre io mi sento ragazzina davanti a un maestro severo. Nella scatola cè un rettangolo nero e sottile, freddo e liscio. Niente tasti visibili.
Qui è tutto touch, spiega Matteo. Basta sfiorare così.
Passa il dito sul vetro e lo schermo si illumina di icone colorate. Mi spavento: sembra una cosa troppo intelligente, adesso mi chiederà password, login o altre parole che non capisco.
Non temere, dice Bianca dolcemente. Ti sistemiamo tutto noi. Non toccare niente finché non ti spiego.
Quelle parole mi fanno male come un rimprovero a un bambino che rischia di rompere la porcellana.
Dopo pranzo tutta la famiglia si trasferisce in salotto. Alessandro si siede vicino a me sul divano, lo smartphone sulle mie gambe.
Ecco, comincia. Questo è il tasto accensione, tieni premuto. Arriva la schermata, poi il blocco. Per sbloccare, scorri il dito. Così.
Va troppo veloce, e le parole mi si confondono nella mente. Tasto, schermata, blocco. Una lingua straniera.
Piano, lo fermo. Andiamo per gradi, se no dimentico.
Ti abitui presto, ride lui. È semplice.
Annuisco, ma so già che avrò bisogno di tempo. Tempo per farci pace, accettare che il mondo vive qui dentro e che anchio devo imparare a entrare.
Verso sera il telefono è già pieno di numeri: figli, nipoti, vicina Maria e la dottoressa. Alessandro installa WhatsApp, crea laccount, mi aggiunge al gruppo famiglia. Imposta le lettere grandi così non devo strizzarmi gli occhi.
Guarda, mi mostra. Qui scriviamo. Adesso invio qualcosa.
Lo fa in un attimo. Sullo schermo appare il messaggio di Alessandro. Subito sopra, uno di Angelica: Evviva, mamma è con noi! Poi quello di Bianca: una sfilza di emoticon colorate.
E io come faccio? chiedo. Come scrivo?
Tocchi qui, indica lo spazio bianco, si apre la tastiera. Scrivi. Oppure registri la voce, basta toccare il microfono.
Provo. Le dita tremano. Invece di grazie viene fuori gratzie. Alessandro ridacchia, anche Angelica. Bianca manda altre emoticon.
Tranquilla, dice Alessandro vedendo che mi irrigidisco. Allinizio sbagliamo tutti.
Annuisco, ma dentro mi vergogno. Sembra un esame fallito.
Quando se ne vanno, la casa torna silenziosa. Restano la crostata, i fiori e la scatola bianca. Lo smartphone è lì, schermo in giù. Lo rigiro delicatamente. Premo il tasto come insegna mio figlio. Si accende una luce soffusa, appare la foto di famiglia del Capodanno passato. Mi vedo di lato con il vestito blu e il sopracciglio sollevato, come se anche allora avessi avuto dei dubbi su quel posto accanto a loro.
Scorro il dito come mi hanno insegnato. Appaiono le icone. Telefono, messaggi, fotocamera. Mi ricordo che Alessandro diceva Non toccare altro. Ma come distinguo quello che è di troppo?
Alla fine appoggio lo smartphone accanto alla scatola, lo lascio lì. Che prenda confidenza con la casa.
Il mattino dopo mi sveglio prima del solito. Il cellulare nuovo è ancora lì, estraneo ma meno minaccioso. È solo una cosa, penso. Ho imparato la microonde, temendo che scoppiasse, posso imparare anche questo.
Preparo il caffè, mi siedo, prendo in mano il telefono. Accendo. La mano mi suda. Riappare la foto di famiglia. Scorro. Trovo la cornetta verde, un simbolo che riconosco, e la tocco.
Si apre la lista contatti: Alessandro, Angelica, Bianca, Matteo, Maria, la dottoressa. Seleziono Alessandro e premo. Il telefono vibra e appaiono linee sullo schermo. Lo accosto allorecchio come facevo col vecchio telefono.
Pronto? la voce di Alessandro, sorpresa. Mamma? Tutto ok?
Sì, rispondo, sentendo una strana fierezza. Volevo solo provare. Funziona.
Lo vedi? ride. Sono contento. Col messaggio però costa meno.
Come faccio? chiedo confusa.
Te lo spiego dopo, sono in ufficio.
Chiudo la chiamata con il tasto rosso. Il cuore batte come dopo una camminata veloce. Però dentro mi sento calda. Ho chiamato da sola. Non ho chiesto aiuto.
Dopo due ore arriva il primo messaggio nel gruppo famiglia. Il telefono squilla leggermente, lo schermo si accende. Sussulto. Sul display cè scritto: Bianca: Nonna, come va? Sotto, lo spazio dove rispondere.
Guardo a lungo quello spazio. Poi premo. E appare la tastiera. Le lettere son piccole, ma distinguibili. Piano digito: Tutto bene. Sto bevendo caffè. Sbarcherò in bene, ma lascio così. Invio.
Subito dopo Bianca risponde: Wooo! Hai scritto da sola? E un cuore.
Mi scopro a sorridere. Sì, da sola. Ho scritto io. Il messaggio appare dove di solito scorrono solo quelli degli altri.
Alla sera passa Maria con un vasetto di marmellata.
Ma allora, ho sentito che ti hanno regalato quel quel telefonino intelligente! dice togliendosi le scarpe.
Smartphone, correggo. Mi sembra strano dirlo alla mia età, ma lo dico con una certa soddisfazione.
E non morde? ride lei.
Per ora squilla solo, sospiro. Niente tasti.
Anche mio nipote insiste. Dice che senza quello non si va avanti. Ma io penso che ormai sia tardi. Lascio che facciano loro.
Tardi mi fa male. Ci ho pensato anchio. Ma ora quel cellulare sembra dirmi il contrario: non troppo tardi. Si può provare.
Dopo qualche giorno Alessandro mi chiama e dice che mi ha fissato la visita dal dottore online.
Via internet? chiedo stupita.
Con lo SPID. Adesso si fa così. Ho scritto login e password sul foglietto nel cassetto, sotto al telefono.
Lo trovo. Un foglio piegato con lettere e numeri. Come una ricetta: chiara ma incomprensibile.
Il giorno dopo provo. Accendo lo smartphone, cerco licona del browser come mi ha spiegato Matteo. Premo. Compare la barra bianca e il campo sopra. Scrivo pianissimo, copiando dal foglio. Ogni lettera unimpresa. Sbaglio due volte, cancello, ricomincio. Finalmente si apre la pagina. Blu e bianca, tante scritte.
Inserisci login, leggo a voce alta. Password.
Il login lo digito a fatica. Il password è peggio: lettere, numeri sfusi. La tastiera appare e scompare. Tocca sbagliare, tutto si cancella. Mi scappa una parolaccia, sorpresa della mia stizza.
Alla fine lascio perdere e prendo la cornetta del telefono fisso. Chiamo Alessandro.
Non ce la faccio, sbotto. I vostri codici sono una tortura.
Non ti arrabbiare, mi rassicura. Stasera passo, ti spiego di nuovo.
Passi, spieghi, poi te ne vai e io resto sempre sola con questa cosa.
Silenzio allaltro capo.
Capisco, dice infine. Porto Matteo. Lui te lo fa vedere con calma. È più bravo.
Accetto. Ma chiudo con il cuore pesante. Mi sembra di non sapere fare nulla da sola, di essere solo un peso.
Arriva Matteo la sera. Si leva le scarpe da ginnastica, si siede di fianco a me.
Forza nonna, dice. Fammi vedere cosa non funziona.
Riapro il sito, gli mostro lo schermo.
È tutto difficile, confesso. Le parole, i simboli. Ho paura di toccare e fare danni.
Non puoi fare danni, dice lui sereno. Al massimo esci, rientri e si sistema.
Parla tranquillo, muove le dita sicure come se fosse a casa. Mi mostra i tasti, la lingua, la sezione della prenotazione.
Vedi, indica, qui cè la tua visita. Se vuoi cancellare tocchi qui.
Se cancello per sbaglio?
Si rifà da capo, scrolla le spalle. Non è grave.
Annuisco. Per lui non è nulla, per me è un mondo.
Quando se ne va, resto con il telefono tra le mani. Mi sembra che lo schermo mi metta alla prova: ora login, ora password, ora errore di connessione. Prima bastava chiamare, fissare, andare. Ora bisogna anche sapere cosa toccare e dove leggere.
Una settimana dopo, proprio col medico capita il problema. Mi sveglio con la testa pesante, debole. La pressione sale. La visita è tra due giorni. Cerco il promemoria nel sito, come ha insegnato Matteo. Nella sezione appuntamenti, nulla.
Il cuore mi si ferma. Scorro giù e su. Niente. Ieri non ho toccato nulla. O sì? Ricordo che avevo provato a vedere come si cancella la visita. Forse ho premuto a sproposito.
Mi prende il panico. Senza prenotazione dovrò andare allAsl e aspettare ore, tra gente che tossisce. Io sto già male. Istintivamente vorrei chiamare Alessandro, ma so che questa settimana non può. Immagino il suo fastidio, Mamma non capisce ancora. Mi vergogno.
Respiro, mi fermo. Penso a Matteo, ma lui è alluniversità. Non voglio disturbare.
Guardo il cellulare. Quel piccolo rettangolo nero è problema e soluzione insieme. Riapro il sito, entro nellaccount. Le dita tremano ma cerco di essere precisa.
Niente appuntamenti. Ok. Provo a cliccare Prenota visita. Compare la lista dei medici. Seleziono il dottore, la data. La prima libera tra tre giorni, meglio di niente. Lora: mattina. Confermo e mi fermo.
Aspetto che lo schermo finisca di pensare. Appare la scritta: Prenotazione confermata. Sotto il mio cognome, la data, lora. Controllo tre volte. Mi sento più leggera. Ce lho fatta da sola. Senza Alessandro, senza Matteo.
Per sicurezza faccio ancora altro. Apro WhatsApp, trovo il gruppo con la dottoressa (aggiunta da Alessandro). Prendo coraggio, tocco il microfono.
Buongiorno, sono Lucia Rossi, dico piano, ho la pressione alta e ho prenotato una visita con voi tra tre giorni. Se può, ci vediamo.
Invio. Dentro arriva il simbolino. Dopo qualche minuto il telefono squilla. La dottoressa risponde in lettere grandi: OK, LA VEDEVO GIA. SE PEGGIORA CHIAMI SUBITO.
Mi sento positivamente stanca. La prenotazione è a posto, la dottoressa avvisata. Tutto grazie allo smartphone.
Alla sera scrivo nel gruppo: Mi sono prenotata da sola. Online. Sbaglio di nuovo, ma lascio così, limportante è farsi capire.
Risponde subito Bianca: Wow! Sei più brava di me. Poi Angelica: Mamma sei stata super, sono fiera. Alla fine Alessandro: Ecco, te lavevo detto.
Leggo e qualcosa dentro di me si rilassa. Non sono ancora immersa nei loro meme e battute, ma tra me e loro si è formata una linea di collegamento. Ora posso tirarla quando serve e ricevere risposta.
Dopo la visita, va tutto bene e decido che è ora di imparare qualcosaltro. Bianca diceva che con le amiche si scambiano foto di piatti, cani, piante. Mi sembrava sciocco, ma in fondo le invidiavo: loro hanno una piccola finestra condivisa, io solo la radio e il panorama dalla cucina.
Un pomeriggio di sole, con le piantine di pomodoro sul davanzale che brillano, apro la fotocamera. Sullo schermo compare la cucina, racchiusa in una cornice. Avvicino il cellulare alle piantine. Premo il cerchio. Un clic.
La foto è un po sfocata, ma va bene: i germogli verdi si vedono, il riflesso di luce sul tavolo. Mi sembra che quei germogli abbiano qualcosa in comune con me, si fanno strada verso il sole sulla terra ancora pesante.
Apro il gruppo famiglia, allego la foto. Scrivo: I miei pomodori crescono. Invio.
Le risposte arrivano subito. Bianca mostra la stanza piena di libri. Angelica una ciotola di insalata con la scritta Imparo da te. Alessandro un selfie in ufficio, in faccia la stanchezza, ma scrive: Mamma fa pomodori, io faccio scartoffie, chi sta meglio?
Rido davvero. La cucina non sembra più vuota. È come se fossimo tutti lì, sparsi per lItalia, ma vicini.
A volte vanno storte: mando un vocale di prova nel gruppo e si sente il mio commento acidulo al telegiornale. I nipoti ridono, Alessandro fa: Mamma, sembri la conduttrice! Mi imbarazzo, poi rido anche io. In fondo, una voce vale più di mille emoji.
Qualche messaggio finisce nel gruppo invece che privato. Una volta chiedo a tutti come si elimina una foto. Arriva la spiegazione puntuale di Matteo, un anchio non so! di Bianca, Angelica invia una gif: Mamma, sei una pioniera!
Mi inciampo ancora nei tasti, ho paura degli aggiornamenti che il cellulare propone. Aggiorna il sistema mi suona come una minaccia: chi mi garantisce che non cambi tutto proprio adesso che sto imparando?
Ma ogni giorno la paura si riduce. Scopro che posso vedere gli orari degli autobus, il meteo non solo alla radio ma anche sullo schermo. Trovo persino la ricetta di una crostata come quella che faceva la mia mamma. Faticoso cercare, ma quando leggo gli ingredienti mi viene il magone agli occhi.
Non lo scrivo nel gruppo. Cucino la crostata, la fotografo, mando la foto: Ho ricordato la ricetta di nonna. Piovono cuori, esclamazioni, e mi chiedono la ricetta. Fotografo il foglio scritto a mano e lo mando.
A un certo punto mi accorgo che il telefono fisso lo guardo meno. È sempre lì, ma non è più il mio unico filo col mondo. Ora ho un altro legame, invisibile ma resistente.
Una sera, quando fuori le luci dei palazzi si accendono piano, sto in poltrona col telefono in mano a rileggere il gruppo famiglia. Ci sono foto di Alessandro dal lavoro, selfie di Bianca con le amiche, le battute di Matteo, i messaggi di Angelica sulle cose di casa. In mezzo, anche i miei: foto di pomodori, audio con la ricetta, domande sui farmaci.
Mi accorgo che non sono più uno spettatore dietro il vetro. Non capisco metà delle sigle che scrivono, non sono capace di mettere le faccine come loro, però leggono ciò che scrivo. Mi rispondono. Le mie foto le mettono il cuore, come dice Bianca.
Squilla il telefono. Messaggio nuovo. Da Bianca: Nonna, domani ho la verifica di matematica. Posso chiamarti dopo per sfogarmi?
Sorrido. Scrivo piano: Certo. Io ti ascolto sempre. Invio.
Appoggio il telefono vicino alla tazza di caffè. In casa cè silenzio, ma stavolta non è più vuoto. Da qualche parte, tra palazzi e regioni, ci sono messaggi che mi stanno aspettando. Non faccio parte della movida giovane come dice Matteo, ma ho il mio angolo in questo mondo di schermi.
Mi alzo, preparo per la notte, spengo la luce e rifletto: ho imparato a non aver paura di cambiare. Qualcosa resta uguale il caffè nella moka, la voce di Maria ma ora so che posso prendermi il mio posto anche nel presente, un passo dopo laltro.
E questo mi basta.






