I parenti si sono offesi perché non li ho fatti dormire nella mia nuova casa: la mia battaglia per difendere la mia indipendenza e la mia tranquillità contro l’assalto della famiglia numerosa

Martina, ma che fai, sei rimasta senza parole? Ti dico che abbiamo già preso i biglietti, il treno arriva sabato alle sei di mattina. Non fare tardi, vienici a prendere, mi raccomando! Siamo pieni di valigie, e poi Silvia con i bambini… lo sai, il taxi ormai costa un capitale, ma tu hai quella macchina enorme, ci stiamo tutti la voce di zia Giulia tuonava dal telefono, sovrastando persino il rumore dellacqua che Martina aveva lasciato scorrere nella vasca.

Martina rimase immobile, con il telefono stretto tra spalla e orecchio, in piedi nellingresso della sua casa nuova, che ancora profumava di vernice e aria pulita. Le chiavi di quellappartamento le aveva avute appena un mese prima. Ventanni di mutuo, tre anni a risparmiare su ogni caffè, su ogni vestito, sei mesi di ristrutturazione, durante i quali aveva imparato di tutto: stuccare i muri, conoscere i tipi di parquet meglio di un architetto. Quella era la sua fortezza, il suo paradiso sudato e candido, dove tutto era al proprio posto, non cera polvere, e sperava di passare il primo weekend in silenzio, godendosi la solitudine e la vista dalle finestre panoramiche.

Aspetta, zia Giulia, riuscì finalmente a dire Martina, chiudendo il rubinetto e spostandosi in cucina, dove una tazza di tisana fredda aspettava ancora di essere finita. Che biglietti? Che treno? Di che state parlando? Io non vi ho invitati.

Dallaltro lato, il silenzio fu così spesso da sembrare concreto. Poi zia Giulia si fece forza, e Martina la sentì incamerare aria come prima di una tempesta.

Come sarebbe a dire non ci hai invitati? Martina, ma stai bene? Guarda che noi abbiamo un motivo: tuo zio Michele fa settantanni, vive lì a Milano, te lo sei scordata? La famiglia si riunisce. E a questo punto, che facciamo, spendiamo per un hotel quando hai una casa nuova con tre camere e ristrutturata? Veniamo tutti: io, zio Carlo, Silvia col marito e i gemelli. Siamo solo in sei, ci stringiamo. Non serve tanto, butti qualche materasso a terra, non siamo gente schizzinosa.

Martina si lasciò cadere sullo sgabello alto, sentiva le tempie pulsare. Sei persone. Zia Giulia, che russava e spadroneggiava in cucina; zio Carlo, amante del vino che poi si fumava una dopo laltra in balcone (che da lei era parte del soggiorno, con la sua poltrona nuova). Silvia, cugina che lasciava fare ai suoi gemelli ogni follia: disegni sui muri, salti sul divano. E suo marito Jacopo, musone e famelico.

Zia Giulia, disse Martina con tono fermo, fissando i mobili color panna mi dispiace, ma non posso ospitarvi. Ho appena finito i lavori, non ho abbastanza mobili, non ci sono letti per tutti. E poi lavoro, ho da finire unimportante relazione nel weekend.

Basta con queste scuse! proruppe la zia Che relazione? È sabato e domenica, mica lavori! E per i mobili, che problema sarà mai, ci portiamo le coperte da casa. Dormiamo sul pavimento, noi non facciamo storie. Vuoi forse lasciare la zia fuori dalla porta? E pensa che ti ho persino regalato la bambola più bella quando avevi cinque anni, te lo sei scordata?

Quella storia della bambola era un tormentone: una volta Martina laveva scoperta mancante di una gamba, comprata in saldo, ma da allora la zia la riciclava ad ogni occasione come se fosse un ricordo dinfanzia preziosissimo.

Zia Giulia, capisco, ma no. Non sono pronta per ospiti, figurati sei persone. Zio Michele abita dallaltra parte della città, da me ci vuole unora e mezza. Vi conviene affittare qualcosa vicino a lui. Posso aiutarvi a cercare, vi mando qualche link.

Senti questa! la zia, ora stridula I link ci manda! Mo è diventata milanese, con la casa nuova e il naso allinsù! Non vuole più sapere dei parenti? Ma se non ci fossimo stati noi col cavolo che adesso…

Zia Giulia, la interruppe Martina, sentendo dentro nascere una freddezza mai avuta Non è questione di naso allinsù, ti sto solo dicendo che non posso. Decido io chi ospitare. Se pensate di dormire da me, non prendete i biglietti, perché non vi apro.

Chiuse la chiamata, senza aspettare la prossima raffica di urla. Le mani tremavano. Sapeva che quella non era che la prima battaglia, ora sarebbe arrivata lartiglieria pesante.

Infatti, dieci minuti dopo, chiamò sua madre.

Martina, ma ti sei data di volta il cervello? Giulia mi ha chiamata piangendo, pressione a duecento, sta buttando giù la valeriana. Ma davvero li hai mandati via?

Mamma, li ho solo avvisati che non posso ospitare sei persone. Ho una casa nuova, muri bianchi, parquet costoso. Conosci i figli di Silvia? Lultima volta dalla nonna hanno colorato il gatto col mercurocromo e schiantato la televisione. Silvia rideva: Si sa, sono bambini, esplorano il mondo. Ecco, io non voglio che esplorino il mio soggiorno.

Ma sono la tua famiglia! la voce di sua madre aveva quellinflessione specialista in verità universali Dai, due giorni di sacrificio! Metti una cerata per terra, togli i vasi. Almeno salvi i rapporti. Giulia sta già dicendo a tutti che sei diventata di ghiaccio. Io mi vergogno, sai?

Mamma, non vedo di che vergognarmi. Perché dovrei mettere a rischio la mia casa appena fatta per far risparmiare un po di euro alla zia? Vengono per una festa, avranno istituito un budget: regali, biglietti, e vogliono risparmiare sullaffitto? Troveranno una soluzione.

Sei unegoista, sospirò la madre, amara tutta tuo padre! Anche lui sempre a pensare al proprio riposo… Guarda che poi resti sola in mezzo a quelle pareti bianche e nessuno ti porterà nemmeno un bicchiere dacqua.

Preferisco versarmelo da sola, piuttosto che lavare la casa dalle impronte della famiglia, sbottò Martina mentre spegneva il cellulare.

Per tutta la settimana rimase con i nervi tesi. Silenzio totale dai parenti. Nessun messaggio di Silvia, nessuna chiamata dalla zia. Sperava avessero ascoltato la ragione e trovato un alloggio, o cambiato idea. E si rassicurava pensando che un no rimane un no.

Il sabato iniziò alla grande. Si svegliò tardi, fece un caffè, indossò il suo kimono di seta e si sistemò in soggiorno. Il sole danzava sulle superfici lucide, regnava la quiete. Martina programmava di leggere tutto il giorno, ordinare del sushi a domicilio e magari chiudersi nella vasca la sera.

Alle nove, il campanello del citofono squillò secco e insistente.

Martina trasalì, rischiando di rovesciare il caffè. Si avvicinò al videocitofono, già sapendo chi era. Sullo schermo vide la folla: borsoni a quadri, il viso paonazzo di zia Giulia, zio Carlo con la coppola storta, e i bambini che armeggiavano con i tasti di chiamata.

Martinaaa, apri! Sorpresa! urlò la zia nella telecamera, vedendo la spia accesa. Siamo appena arrivati dalla stazione, siamo sfiniti, facci almeno bere qualcosa!

Martina si appoggiò al muro. Erano venuti lo stesso. Hanno deciso di forzare la mano, convinti che non avrebbe avuto il coraggio di chiudere la porta in faccia a parenti in carne e ossa. Il vecchio trucco: metterti di fronte al fatto compiuto.

Fece un respiro profondo, contò fino a cinque, e premette il tasto.

Salve. Vi avevo chiesto di non venire.

Oh, lascia perdere queste scene! reagi la zia, con la mano come a scacciare una zanzara Sì, hai avuto uno scatto, capita! Noi siamo di famiglia. Dai, fai entrare, i piccoli non ce la fanno più a trattenersi, il bar vicino è chiuso, siamo umani pure noi, non meritiamo di restare sul pianerottolo.

Nel palazzo accanto cè una caffetteria, lì cè il bagno e anche il Wi-Fi, replicò placida Martina. Non vi apro.

Ma scherzi? la faccia della zia aderì quasi al monitor Parli sul serio? Siamo con le borse, sono tua famiglia! Lo sa anche tua madre, che siamo qui! Guarda che se non apri, sveglio tutto il condominio!

Fate pure, rispose Martina. Vi avevo avvertito. Ho già mandato gli indirizzi degli affittacamere via WhatsApp. A presto.

Riagganciò e azzerò il volume del citofono.

Un minuto dopo, il campanello di casa iniziò a suonare senza tregua. Qualcuno li aveva fatti entrare nel palazzo: ora erano là fuori, a pochi centimetri, separati solo da una porta blindata.

Il campanello continuava a trilla­re. Poi iniziarono a battere con i pugni.

Martina! Apri! Non hai un briciolo di coscienza! urlava Silvia. I bambini sono distrutti! Sei impazzita?

Apri maleducata! brontolava zio Carlo. Ti abbiamo portato pane e salame dalla campagna!

Martina rimaneva nellingresso, braccia incrociate attorno al corpo. Provava paura, imbarazzo, rabbia insieme. Avrebbe voluto cedere, farli entrare solo per fermare quella scenata, quel baccano. Chissà cosa penseranno i vicini, le si infilò un pensiero velenoso. Ma poi guardò il pavimento chiaro, immaginando sei persone con scarpe sporche, sacchi che rigano i muri, lodore di cibo e fumo addosso ai cuscini. Immaginò la casa profanata.

No.

Si avvicinò alla porta e disse chiaro:

Chiamo la polizia. Se non andate via, denuncio per violazione di domicilio e disturbo della quiete.

Dietro la porta scese il silenzio.

Farai venire linfarto a tua madre! ululò la zia. Chiama la polizia, allunga pure la lingua!

Conto fino a tre, disse Martina, cellulare in mano. Uno.

Mamma è matta, andiamo via, borbottò Silvia, ora meno sicura. Questa lo fa davvero, ci espone a una figuraccia.

Due.

Ma vai al diavolo! ringhiò zio Carlo e si sentì un calcio sulla porta. Goditi la tua reggia! Che tu ci marcisca dentro da sola!

Tre.

Ci fu trambusto, grida, borse trascinate, bambini che piangevano.

Andiamo, andiamo! sibilò la zia Non ci metterò mai più piede! Raccontarò a tutti che persona sei! Tutti!

I passi si sfumarono lungo le scale. Quando tornò il silenzio, Martina si accorse di tremare.

Scivolò a terra contro la parete calda e nascose il viso tra le mani. Pianse, non per pietà verso di loro, ma per lenorme tensione. Aveva resistito. Aveva difeso la sua casa.

Il telefono, lasciato in soggiorno, iniziò a squillare. Come previsto: chiamate da mamma, zia, numeri sconosciuti, probabilmente altri parenti mobilitati allo scopo di fargliela pagare.

Spense il cellulare.

Andò in cucina, si versò un bicchiere dacqua e lo bevve tutto dun fiato. Dalla finestra vide gli esiliati che si caricavano su due taxi, scuotendo i pugni verso i suoi vetri.

Le tornò in mente un episodio di cinque anni prima. Da studentessa, era venuta proprio a Milano, dove abitava la zia, per uno stage. Luniversità non dava alloggio, i soldi per laffitto non li aveva. Aveva chiesto ospitalità alla zia e ricevette: Martina, qua cè troppa polvere, stiamo facendo i lavori, non ti conviene. E poi Silvia esce col ragazzo e si sentirebbe a disagio. Arrangiati. Martina dormì tre notti sulla panchina della stazione, abbracciando lo zaino. Solo grazie a una vecchia signora trovò sistemazione in cambio di aiuto in casa.

Allora il sangue di famiglia pareva non contasse. Adesso che Martina aveva una reggia ecco che il sangue bruciava.

Eh no, disse Martina a voce alta. Non con me.

Accese una musica leggera, preparò un nuovo caffè e si sedette in poltrona. La giornata ormai era rovinata, ma, almeno, la casa restava intatta.

La sera, riaccese il cellulare: la tempesta si abbatté su WhatsApp.

Da oggi per noi non sei più figlia, sorella né nipote!, scriveva zia Giulia.

Come hai potuto fare soffrire la mamma? Lei ha il cuore!, scriveva Silvia.

Mi vergogno di averti messa al mondo, arrivò il colpo più duro, da sua madre.

Martina fissò a lungo quelle frasi. Avrebbe voluto spiegare ancora tutto: la stazione, la zia, il diritto ai suoi confini. Ma ormai sapeva: non avrebbero capito. Lei, per loro, era una risorsa che si era ribellata.

Rispose solo alla madre: Mamma, ti voglio bene. Sono adulta, vivo a casa mia seguendo le mie regole. Quando vorrai venire da sola, avvisami per tempo, mi farà piacere. Ma non accetto ricatti affettivi. La zia Giulia, anni fa, mi lasciò senza aiuto in una città sconosciuta. Io ho solo reso il favore.

Nessuna risposta.

Passò una settimana. Martina continuò a vivere nella sua casa perfetta. I vicini che incontrava in ascensore la scrutavano con curiosità, ma nessuno disse nulla. Una ragazza col cane, anzi, le ammiccò: Auguri per la casa nuova! Porte davvero resistenti, eh.

Dopo un mese, chiamò la madre. Voce fredda, ma senza nervosismo. Chiese come andava al lavoro, se il mutuo era in ordine. Della zia, neppure una parola. Anche Martina evitò largomento.

I rapporti con i parenti rimasero congelati. Non la invitarono più alle feste di famiglia, la cancellarono dalla chat di gruppo su WhatsApp. Ma Martina si accorse che la sua vita non era più povera. Anzi, non doveva più comprare regali inutili, ascoltare consigli non richiesti tipo è ora di sposarsi e fare figli, o tollerare domande indiscrete sullo stipendio.

Sei mesi dopo, proprio prima di Capodanno, suonò il campanello. Martina guardò dallo spioncino. Era Silvia, da sola, senza figli né marito, gli occhi gonfi.

Martina aprì.

Ciao, sussurrò Silvia. Posso entrare?

Martina esitò, poi fece spazio.

Vieni. Lascia le scarpe sullo zerbino.

Silvia andò in cucina, si sedette sul bordo di una sedia.

Ho lasciato Jacopo, sbottò e scoppiò a piangere. Lui ha cominciato a bere, mi ha persino messo le mani addosso. I bambini stanno da mamma, io non so dove andare. Mamma mi urla addosso che è colpa mia, la zia Giulia dice di tener duro perché i bambini hanno bisogno di un padre. Ma io non ce la faccio più.

Alzò lo sguardo, pieno di lacrime.

Martina, posso dormire qui? Solo qualche giorno. Cerco una stanza e me ne vado davvero. Farò la brava, anche sul pavimento.

Martina fissò la cugina. La mente tornò a quella faccia vista sei mesi prima, distorta dallodio sulla videocamera: Non hai coscienza!.

Ma adesso, davanti a lei, cera solo una donna disperata. E Martina capì la differenza. Quella era una richiesta daiuto, non una pretesa arrogante.

Sul pavimento no, sospirò Martina. Il divano in soggiorno è a tua disposizione.

Silvia si irrigidì, incredula.

Mi ospiti davvero? Dopo tutto quello che è successo?

Sì. Ma con delle regole. Martina le versò una tisana. Primo: niente bambini qui, la casa non è a prova di piccoli. Secondo: massimo una settimana, il tempo che trovi sistemazione. Ti aiuto con unagenzia. Terzo: nessun commento sulla mia vita, né chiacchiere con la zia Giulia. Se scopro qualcosa, sei fuori.

Grazie, sussurrò Silvia. Martina, grazie davvero. Siamo stati stupidi. Ti abbiamo invidiata: sei riuscita a costruirti qualcosa di tuo, e noi siamo rimasti fermi…

Linvidia è veleno, disse Martina. Distrugge tutto. Bevi tranquilla, preparo le lenzuola.

Silvia rimase da lei cinque giorni: silenziosa, attenta, quasi invisibile. Appena trovò una stanza in una casa condivisa, se ne andò.

Quellesperienza fu una svolta. Silvia, avendo visto con i suoi occhi una vita dignitosa e rispettosa, cambiò: chiese il divorzio, trovò lavoro, si allontanò dalla madre e dalla zia. Con Martina ora ogni tanto si sentivano, andavano al cinema.

Zia Giulia non perdonò mai. Ma ormai, a Martina non importava. La sera, seduta sul divano con un libro e un bicchiere di Sangiovese, guardava le luci della città e pensava: Casa mia è il mio castello non è solo un modo di dire. È una dichiarazione di sopravvivenza. E per tenere il proprio rifugio al sicuro, il ponte levatoio bisogna saperlo tenere alzato. Anche se, fuori, si agita chi porta il tuo stesso cognome.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

3 × 4 =

I parenti si sono offesi perché non li ho fatti dormire nella mia nuova casa: la mia battaglia per difendere la mia indipendenza e la mia tranquillità contro l’assalto della famiglia numerosa