La lettera che non arrivò mai La nonna sedeva a lungo davanti alla finestra, anche se non c’era quasi nulla da guardare. Nel cortile il buio scendeva presto, il lampione sotto casa si accendeva e si spegneva svogliatamente. Sulla neve solo qualche traccia di cane o di passante, in lontananza una donna delle pulizie raschiava la pala e poi tutto tornava silenzioso. Sul davanzale c’erano i suoi occhiali dalla montatura sottile e il vecchio telefono, lo schermo crepato. Ogni tanto il telefono vibrava per una foto o messaggio vocale nel gruppo di famiglia, oggi però taceva. La casa era quieta. L’orologio alla parete scandiva forte i secondi, più del necessario. Si alzò, andò in cucina, accese la luce. Una lampadina gialla scioglieva un cerchio spento sul soffitto. Sul tavolo una ciotola di ravioli ormai freddi, coperti da un piatto. Li aveva preparati nel pomeriggio, per caso qualcuno fosse passato. Ma nessuno era passato. Si sedette, prese un raviolo, lo assaggiò, poi lo lasciò. La pasta era diventata gommosa. Si poteva mangiare, certo, ma senza gioia. Si versò il tè dal vecchio bollitore smaltato, ascoltò l’acqua che scorreva nel bicchiere e, inaspettatamente, sospirò a voce alta. Fu un sospiro pesante, come se qualcosa le fosse caduto dal petto e seduto accanto, sullo sgabello. Ma perché mi lamento, pensò. Siamo tutti vivi, grazie a Dio. Ho un tetto sulla testa. Eppure… Eppure nella mente riaffioravano pezzi di conversazioni recenti. La voce della figlia, tesa come una corda: «Mamma, io non ce la faccio più con lui così. Lui ha ricominciato…» E quella del genero, un po’ beffarda: «Si lamenta con te, eh? Dille che la vita non è come vuole lei.» E poi il nipote, Sasha, che ormai rispondeva al telefono solo con un “sì”, se lei chiedeva come andasse. E quei “sì” facevano più male di tutto. Prima raccontava ore della scuola e degli amici. Adesso è grande, certo. Però. Non litigavano mai davanti a lei, né sbattevano le porte. Ma tra le parole c’era ormai un muro invisibile. Piccoli sfregi, non detti, rancori che nessuno confessava. E lei, tra i due argini, o dalla figlia, o dal genero, bada a non esagerare. A volte pensava che fosse colpa sua, di averli cresciuti male, di aver suggerito male, di aver taciuto troppo o troppo poco. Fece un sorso di tè, si scottò, e all’improvviso ricordò di quando, tanti anni fa, Sasha era piccolo e insieme scrissero la lettera a Babbo Natale. Lui, di mano incerta: “Portami un gioco di costruzioni e fai che mamma e papà non litighino più”. Allora le era scappato da ridere, gli accarezzava la testa e diceva che Babbo Natale avrebbe sentito. Oggi invece si vergognava un po’ di quella memoria, come se avesse imbrogliato un bambino. Mamma e papà non avevano mai smesso di discutere. Solo, avevano imparato a farlo piano piano. Spinse via il bicchiere, pulì il tavolo con una salvietta, sebbene fosse già pulito. Poi andò in camera, accese la lampada sulla scrivania. La luce cadeva sul vecchio tavolo dove ormai scriveva poco a mano. Più che altro col telefono: messaggi, faccine, audio. Ma la penna stava lì, nel bicchiere coi pastelli, vicino al blocchetto a quadretti. Rimase in piedi, fissandoli, poi pensò: E se… L’idea era assurda, infantile persino, ma la fece sentire più calda dentro. Scrivere una lettera. Una vera, di carta. Non per ricevere qualcosa. Solo per domandare. Non alle persone, che ognuno ha i suoi conti, ma a qualcuno che, in teoria, non deve niente a nessuno. Sorrise di sé. La vecchia è impazzita, si è messa a scrivere a Babbo Natale. Ma la mano già si allungava per prendere il blocchetto. Si sedette, sistemò gli occhiali sul naso, prese la penna. Le prime pagine erano già scarabocchiate, sfogliò finché trovò un foglio bianco. Esitò, poi scrisse: “Caro Babbo Natale”. La mano tremava. Le sembrava una sciocchezza, come se qualcuno la sbirciasse alle spalle. Guardò la stanza vuota, il letto ben fatto, l’armadio chiuso. Nessuno. — Tanto vale, — si disse a mezza voce, e continuò: “So che sei per i bambini e io sono vecchia. Non ti chiedo pellicce, tv o altro. Ho tutto quello che mi serve. Voglio solo chiederti una cosa: porta, per favore, la pace nella mia famiglia. Che mia figlia e mio genero non litighino più, che mio nipote non rimanga muto come un estraneo. Che si possa stare tutti insieme a tavola senza temere parole sbagliate. Lo so, la colpa è nostra, tu non c’entri. Però magari puoi aiutare, anche solo un po’. Forse non avrei diritto a chiederti questo, ma lo chiedo lo stesso. Se puoi, fa’ che impariamo di nuovo ad ascoltarci. Con affetto, nonna Nina.” Rilesse. Le parole le parvero ingenue, storte come i disegni dei bambini. Ma non corresse niente. Le parve che il cuore si fosse alleggerito. La carta frusciava sotto le dita. Piegò il foglio una, due volte. Restò un po’ seduta con quel foglietto tra le mani, senza sapere che farne. Gettarlo? Metterlo nella cassetta postale? Ridicolo. Andò in corridoio per la borsa. Si ricordò che il giorno dopo sarebbe uscita per la spesa e la posta, a pagare le bollette. E allora lo butterò lì dentro, nella casella per le lettere a Babbo Natale, decise. Ormai le mettono dappertutto. Le fu più facile. Non era l’unica, quindi. Mise la lettera in una tasca della borsa, accanto al passaporto e alle ricevute, poi spense la luce. L’orologio scandiva il tempo. Si stese a letto, rimase sveglia a lungo nell’attesa del sonno, immersa nel silenzio. La mattina uscì prima del solito per sbrigare tutto prima di pranzo. Sulla strada c’era ghiaccio, la neve scricchiolava. Vicino al portone, la vicina col cagnolino le fece un cenno, chiese della salute. Si scambiarono due parole e Nina proseguì, stringendo il manico della borsa tra le dita. Alla posta c’era fila. Si mise in coda col pacchetto di ricevute e la lettera. Ma nell’ufficio non c’era nessuna cassetta per le lettere a Babbo Natale. Solo le vecchie cassette sulle pareti e un’esposizione di francobolli. Si sentì spaesata. Ecco, pensò, e ora? Avrebbe potuto buttare la lettera nel cestino, ma non ci riusciva. La rimise nella tasca, pagò le bollette e uscì. Fuori dalla posta c’era un chioschetto di giochi e addobbi. Su una scatola era scritto “Lettere a Babbo Natale”, ma la cassettina era vuota, e la commessa la staccava proprio mentre Nina guardava. — Abbiamo finito ieri, — spiegò, — oggi ormai è tardi, non arrivano più. Nina annuì, anche se non aveva fretta. Ringraziò — anche se non c’era nulla da ringraziare — e tornò a casa. La lettera rimaneva nella borsa, un piccolo e tiepido nodo di ricordi che non si riesce a gettare ma neppure a toccare. A casa si tolse le scarpe nel corridoio, appese il cappotto, lasciò la borsa sulla sedia per svuotarla dopo. Il telefono vibrò brevemente: un messaggio della figlia. “Mamma, ciao. Passiamo sabato sera da te, va bene? Sashka chiede di alcune vecchie cose di scuola, dice che hai dei libri.” Sentì un nodo stringersi e poi sciogliersi nel petto. Allora verranno. Allora forse, non è tutto perduto. Rispose subito: “Certo, vi aspetto. Non vedo l’ora”. Poi andò in cucina, ripose la spesa e mise su il brodo. La lettera rimase là, nella tasca della borsa scordata sulla sedia. Sabato sera risuonarono i passi sulle scale, uno sbattere di porta d’ingresso. Nina guardò dallo “spioncino”, vide le sagome familiari. La figlia con la borsa, il genero con una scatola, Sasha già alto quanto la porta, con il cappuccio e i capelli che sbucavano da sotto. — Ciao nonna — fu il primo, piegandosi imbarazzato a darle un bacio sulla guancia. — Entrate, entrate — si affrettò lei, — toglietevi le scarpe, vi ho preparato le pantofole. Immediatamente il corridoio si riempì di voci, odore di strada, neve, qualcosa di dolce dal sacchetto della figlia. Il genero borbottava che nel palazzo nessuno pulisce, Sasha toglieva le scarpe in silenzio sbattendo lo zaino contro l’appendiabiti. — Mamma, rimaniamo poco — disse la figlia, — domani andiamo dai suoi, ti ricordi? — Sì, sì, — annuì Nina. — Venite in cucina, ho fatto la minestra. In cucina si sedettero un po’ scomposti. Il genero vicino alla finestra, la figlia accanto, Sasha davanti a Nina. Silenzio mentre calava la minestra nei piatti, solo le posate a tintinnare. Poi la conversazione si accese da sé: lavoro, traffico, prezzi. Parole lisce ma sotto si avvertiva ancora la corrente. — Sasha, volevi qualcosa per scuola, ricordi? — lo richiamò la madre, quando le ciotole furono vuote. — Ah, vero — Sasha si riscosse. — Nonna, hai roba di storia, sulla guerra, qualche libro? Il prof ci ha detto di leggere qualcosa in più. — Ce l’ho eccome — si illuminò Nina. — Ho una collezione intera sulla mensola. Vieni, ti mostro. Andarono in camera insieme. Nina accese la lampada, cercò sulla mensola in alto le copertine un po’ logore. — Guarda qua, — disse, — questa parla dell’assedio, questa dei partigiani, questi sono ricordi… Cosa ti interessa? — Non lo so — fece spallucce Sasha. — Qualcosa che non sia noioso. Stava lì vicino, un po’ inclinato nella testa, e Nina improvvisamente vide di nuovo il bimbo piccolo sulle sue ginocchia, quell’interesse che ora lampeggiava negli occhi. — Prendi questa, — allungò il libro dalla copertina scolorita — è scritta bene. La lessi anch’io da ragazza. Lui lo sfogliò. — Grazie, nonna. Parlarono ancora un po’ di scuola, del professore che “sì, è a posto ma ogni tanto esagera”. Nina ascoltava, chiedeva dettagli. Le bastava che raccontasse. Poi la figlia fece capolino: — Sasha, tra mezz’ora andiamo via, inizia a preparare le cose. — Ok — rispose. Mise il libro in borsa e tornò nel corridoio. Al momento dei saluti, ancora confusione tra borse, giacche e raccomandazioni “chiama”, “non dimenticare”, “te lo mando dopo”. Nina li accompagnò alla porta, guardò l’ascensore chiudersi e rientrò. Il silenzio calò subito. Andò a ritirare la tavola della cucina. Sulla sedia in fondo restava la borsa con dentro la lettera. Ci mise la mano quasi per abitudine, ne sentì il foglietto. Per un istante pensò di strapparlo, ma poi lo infilò meglio e chiuse la zip. Non sapeva che nel corridoio, mentre era in cerca dei libri, Sasha, togliendo lo zaino, aveva urtato lievemente la borsa e visto l’angolino bianco del foglio. Per istinto lo rimise a posto, notò la scritta “Caro Babbo Natale” e rimase immobile. Non lo tirò fuori allora. Troppa gente, troppo movimento. Ma quella scritta gli rimase stampata in mente come un lampo. La sera, a casa, la ricordò mentre sfogliava il libro preso dalla nonna. L’idea che la nonna, una donna grande, scrivesse a Babbo Natale, prima gli parve buffa, poi strana, poi tristemente tenera. Il giorno dopo andarono dai parenti. Sasha mangiò insalate, ascoltò chiacchiere degli adulti, trafficò col cellulare. Ma in un angolo della mente tornava l’immagine di quel foglio bianco. Dopo qualche giorno, tornando da scuola, scrisse alla nonna: “Nonna, passo da te? Mi serve ancora roba di storia”. Lei rispose subito: “Certo, vieni”. Salì da lei dopo le lezioni, lo zaino in spalla, gli auricolari alle orecchie. L’androne odorava di cavolo bollito e detersivo. La porta si aprì quasi subito, come se lei lo aspettasse. — Entra, Sashenka, togli il giubbotto. Ti ho fatto i pancake — gli disse, spostandosi nel corridoio. Lui mise via il giubbotto, appoggiò lo zaino proprio sulla sedia con la borsa. La borsa era semiaperta, l’angolo bianco del foglio di nuovo sporgeva. Qualcosa dentro gli si strinse. Mentre la nonna trafficava in cucina coi pancake, lui si chinò fingendo di allacciarsi la scarpa e tirò fuori quel foglietto. Il cuore batteva forte, capiva di star facendo qualcosa di poco corretto ma non riusciva a fermarsi. Mise la lettera in tasca, si alzò e andò in cucina. — Ah, i pancake — disse cercando di essere normale. — Forti. Mangiavano, chiacchierando di scuola, del tempo, che presto sarebbero state le vacanze. Ogni tanto la nonna chiedeva se aveva freddo, se le scarpe erano buone. Lui svicolava con una battuta. Poi andarono in camera, lui finse di guardare il libro già preso e se ne andò come al solito, per non destare sospetti. Solo a casa, chiuso in stanza, tirò fuori la lettera. Si sedette sul letto, la carta un po’ stropicciata, gli angoli piegati. La calligrafia elegante. Cominciò a leggere. All’inizio provava imbarazzo, come a spiare conversazioni private. Poi il disagio aumentò quando trovò la frase “fa’ che il nipote non resti muto come uno straniero”. Si fermò, rilesse. Un nodo gli salì in gola. Si ricordò di tutte le volte in cui negli ultimi mesi rispondeva a monosillabi, schivando le chiamate. Non per cattiveria, solo stanchezza, svogliatezza, fretta. E lei… Finì di leggere la lettera. Sulla pace, la tavola unica, il sentirsi. Sentì una tenerezza così grande per la nonna che avrebbe voluto andare da lei, abbracciarla, prometterle che sarebbe andato tutto bene. Ma gli parve subito ridicolo. Si sdraiò a letto, la lettera accanto, una chiazza bianca sulla coperta scura. E adesso? pensava. Dirlo alla mamma? Al papà? Avrebbero detto che era una sciocchezza, o si sarebbero offesi, o peggio, litigato ancora. Restituirla alla nonna, fingere d’averla trovata? Capirebbe che l’aveva letta. Si vergognerebbe. Anche lui. Girandosi sul fianco, la faccia nel cuscino, in testa solo frasi spezzate: “fa’ che il nipote non sia muto”, “fa’ che possiamo sederci tutti a tavola”. Sembravano una preghiera non a un Babbo Natale fiabesco, ma proprio a lui. A cena più volte cercò di iniziare: “Mamma, la nonna…” ma non riuscì mai. O il padre lo interrompeva chiedendo dei voti, o la madre parlava del lavoro. Poi tacque, mangiò in silenzio. Di notte non dormì bene. La lettera restava nel cassetto della scrivania, ordinata. Sapere che era lì lo tormentava. Il giorno dopo, all’intervallo, raccontò all’amico d’aver trovato la lettera della nonna a Babbo Natale. L’amico rise: — Che forte. Mio nonno non crede a niente, tranne la pensione. — Non fa ridere, — rispose Sasha, sorpreso lui stesso dal tono serio. L’amico cambiò argomento. Sasha si sentì solo con quel suo strano fardello. La sera compose il numero della nonna, poi chiuse la chiamata senza chiamare. Aprì il gruppo di famiglia: una foto di insalata, una battuta sul traffico, l’invito a una cena di lavoro. Tutto sopra le righe. Niente lettere. Scrisse “Mamma, perché non festeggiamo il Capodanno dalla nonna Nina?” e subito cancellò. Immaginava la risposta: “Ma sei matto? Siamo già d’accordo con i genitori di papà”. E via ancora discussioni, pesantezza. Sedette al tavolo, tirò fuori la lettera, la riaprì. Gli occhi ancora sulla frase della tavola condivisa. Gli venne un’idea che lo fece ridere ma anche tremare. Non Capodanno. Solo una cena, senza motivo. O quasi. Entrò in salotto dalla mamma mentre lei era al portatile. — Mamma, — detto restando sulla soglia. — Senti… andiamo dalla nonna tutti insieme? Solo per cena. Così. Potrei aiutare a cucinare. Lei lo guardò di traverso. — E tu cucini ora? — Sorrise. — Ma non abbiamo mai tempo. Papà torna tardi, io lavoro. — Ma possiamo sabato, — si intestardì lui. — Così non restiamo sempre a casa. Lei sospirò, si appoggiò allo schienale. — Sasha, non so. Tuo padre brontola che vuole riposare il weekend. E poi… — Mamma, — la interruppe, sentendo crescere una strana forza, — tanto la nonna lì sola… L’hai detto anche tu. Solo una volta. Giusto come oggi. Fu la prima volta che la madre lo guardò davvero. — Va bene, — concesse infine. — Ne parlo anche con papà. Ma non prometto. Sasha uscì dalla stanza, le orecchie calde. Era un semplice gesto, ma un primo passo. Più tardi ascoltò in cucina la conversazione dei genitori. — E lui che lo chiede — diceva la madre. — L’ha detto proprio lui. — Ma che andiamo a fare… — sbuffava il padre. — Solite chiacchiere su salute e pensioni. — Eppure è sola, — disse più piano la madre. — E Sasha… gli importa, mi sa. Un silenzio. Poi un sospiro, pesante. — Va bene. Sabato andiamo. Sasha tornò in camera sentendosi vincitore di una piccola battaglia. Ne restava un’altra: convincere la nonna. Il giorno dopo la telefonò lui. — Ciao nonna. Noi… insomma… sabato veniamo da te. Magari vengo prima, ti aiuto a cucinare. Ci fu un attimo di silenzio all’altro capo. — Certo. Cosa vuoi cucinare? — Quello che vuoi. Io posso tagliare l’insalata. O patate. — Insalata ancora mai, — rise lei. — Ti insegno io. Il sabato arrivò da lei con due sacchetti pieni di spesa che aveva fatto con la madre. — Ma quanti siamo, un esercito? — si stupì la nonna. — Meglio di più che di meno, — rispose Sasha. Pulirono patate, tagliarono verdure insieme. Nina lo correggeva quando impugnava male il coltello: — Attento alle dita! — Va bene, va bene, — borbottava lui, ma ascoltava. In cucina odore di cipolla e carne che frigge. La radio in sottofondo. Fuori si faceva sera, nel cortile passava poca gente. — Nonna, — disse lui di colpo, tagliando i cetrioli. — Ma tu… credi a Babbo Natale? Lei sobbalzò tanto che la forchetta le cadde dal tegame. Per un istante anche la radio sembrò spegnersi. — E come mai chiedi? — chiese pianissimo senza voltarsi. Lui fece spallucce, cercando di sembrare disinvolto. — Così, ho litigato a scuola. Lei mescolò la carne, spense il fuoco, si girò verso di lui. C’era uno sguardo vigile nei suoi occhi. — Da piccola sì, poi boh. Chissà. Forse c’è, ma non come in tv. Perché? — Niente, — si affrettò lui. — Sarebbe bello se esistesse. Il silenzio cadde. Tornarono ognuno alle loro cose. Ma dentro Sasha tutto tremava. Anche se non diceva niente sul foglio, sentiva che avevano capito lo stesso. La sera arrivarono anche i genitori. Il padre un po’ stanco ma meno scuro del solito, la madre con una torta. — Caspita, — commentò il padre vedendo la tavola. — Si potrebbe sfamare tutto il palazzo. — È merito di tuo figlio, — fece Nina sorridendo. — Ha aiutato. — Davvero? — il padre guardò Sasha. — Questa è nuova. — Beh, non sono morto — borbottò lui. Sedettero. All’inizio un po’ tesi. Ognuno pesava le parole per non ferire. Ma il cibo sciolse tutto piano. Raccontarono aneddoti di infanzia, il papà divertiva coi colleghi, Nina rideva, mettendosi la mano davanti alla bocca. Sasha pensava alla lettera. Gli pareva che tra quelle frasi, tra le risate e le pause, scorresse un’altra conversazione. Quella della richiesta: imparare a capirsi. A un certo punto, la madre, versando il tè, disse: — Mamma, scusa se veniamo poco. Io… siamo sempre di corsa. Non era una giustificazione, ma un’ammissione. Nina abbassò gli occhi, lisciò il bordo del piattino. — Lo so, — sussurrò. — Avete la vostra vita. Non ce l’ho. Sasha sentì una fitta. Lui però sapeva che in fondo un po’ ce l’aveva. Ma non c’era accusa, solo delicatezza. — Lo so, ma… — si intromise lui, — potremmo anche venire ogni tanto. Senza aspettare la festa. I genitori si voltarono verso di lui. Sasha si confuse, ma continuò: — Così, come oggi. Va bene, no? Il padre sorrise, senza ironia. — Va benissimo, — disse. — Anzi, davvero. La madre annuì. — Ci proveremo, — promise, ma nel tono c’era qualcosa di nuovo: la volontà anche solo di provarci. Poi si passò a parlare del futuro di Sasha, dei suoi studi, se servono o no i tutor. Nina ascoltava, diceva la sua. Non capiva tutto ma cercava di restare al passo. All’addio in corridoio di nuovo strette, giacche, guanti, raccomandazioni. Il padre aiutò Nina a mettere a posto la pentola, la madre sparecchiava il tavolo. — Mamma, la prossima volta anche tu, eh, ci dici prima cosa preparare? — disse la figlia. — Va bene, — Nina annuì. — Mi fa solo piacere. Sasha si trattenne un attimo alla porta della camera. Pose lo sguardo sul quaderno, la penna. La lettera ormai stava nella sua tasca, ben piegata. Aveva deciso di non restituirla. Vi era detto troppo. — Nonna, — disse in un soffio, — se c’è qualcosa che vuoi… che facciamo meglio… dillo. Non scrivere a nessuno. Dillo a noi. Lei lo guardò sorpresa, poi teneramente. — Certo, — disse. — Se serve, vi dico. Lui annuì e uscì. La porta si chiuse, l’ascensore li portò via. Nina restò nel silenzio. Andò in cucina, si sedette. Sul tavolo piatti, tazze, briciole di torta. Nell’aria odore di carne e tè. Passò la mano sulla tovaglia, raccogliendo le briciole. Aveva dentro una sensazione nuova. Non euforia, ma come se qualcuno avesse aperto la finestra e fatto entrare aria fresca. I problemi non erano spariti. Sapeva che la figlia e il genero avrebbero discusso ancora, che Sasha aveva la sua vita. Ma lì, attorno a quel tavolo, erano riusciti a stare un po’ più vicini. Ripensò alla lettera. Non sapeva che fine avesse fatto. Forse era nella borsa, o l’aveva persa, o qualcuno l’aveva trovata. Ma ormai non aveva più importanza. Si avvicinò alla finestra. In cortile, sotto il lampione, alcuni bambini giocavano con la neve. Uno con un berretto rosso rideva forte, il suo grido arrivava chiaro fino al terzo piano. Nina appoggiò la fronte al vetro freddo e sorrise. Non apertamente, ma come a rispondere a un segnale lontano, ma comprensibile. E nella tasca della giacca di Sasha, a casa loro, la lettera stava sempre lì. Ogni tanto la tirava fuori, leggeva una riga, poi la riponeva. Non era più una richiesta a un Babbo Natale, ma il promemoria di ciò che desidera veramente una persona che ti fa la minestra e aspetta una tua telefonata. Non raccontò a nessuno della lettera. Ma, la volta che sua madre disse che era stanca e non voleva andare dalla nonna, lui disse semplicemente: — Allora ci vado io. E ci andò. Non per una festa, non per un evento. Semplicemente così. Un altro piccolo passo verso quella pace che qualcuno, un giorno, aveva scritto a quadretti su un foglio. Nina, aprendogli la porta, fu sorpresa ma non domandò niente. Disse soltanto: — Vieni, Sashenka. Ho appena messo a bollire il tè. E quello bastava, perché in casa tornasse subito un po’ di calore.

La lettera che non arrivò mai

Nonna Ninetta stava seduta da un tempo indefinito vicino alla finestra, anche se cera davvero poco da guardare. Giù nel cortile il buio scendeva presto, il lampione sotto casa a volte si accendeva, a volte decideva di fare sciopero come un impiegato il lunedì mattina. Sul marciapiede si incrociavano rari passi di cani e di gente, in fondo la signora Natalina spazzava via la neve con la pala, e poi di nuovo tutto taceva.

Sul davanzale occhiali dalla montatura sottile e il vecchio cellulare con la pellicola ormai crepata. Il telefono ogni tanto vibrava come un caffettino agitato, di solito quando nella chat di famiglia arrivavano foto o note vocali; oggi, però, silenzio di tomba. In casa il silenzio regnava sovrano, lorologio sulla parete scandiva i secondi con un entusiasmo che nessuno gli aveva chiesto.

Si alzò, andò verso la cucina e accese la luce. La lampadina sotto al soffitto aveva la stessa energia di una giornata di novembre, luce gialla slavata, bastava per non inciampare. Sul tavolo cera una ciotola di tortelli ormai freddi, coperti da un piatto: li aveva fatti a mezzogiorno, nel caso qualcuno fosse venuto. Nessuno era venuto.

Si mise a tavola, prese in mano un tortello, lo assaggiò e subito lo rimise giù. La sfoglia ormai era gommosa, meglio per le gomme da cancellare. Si può mangiare, ma non ci si diverte. Si preparò un po di tè nel vecchio bollitore smaltato, si ascoltò lacqua nel bicchiere, e, senza preavviso, le scappò un sospiro ad alta voce.

Quel sospiro pesava almeno quanto un masso, come se qualcosa dentro fosse scivolato fuori e si fosse seduto lì, accanto, sullo sgabello.

Che sto qui a lamentarmi, pensò. Siamo tutti vivi, grazie al cielo. Un tetto sulla testa, non manca nulla. Eppure

Eppure, le tornavano in testa spezzoni di conversazioni recenti. La voce della figlia, tesa come un violino prima del concerto:

Mamma, non ce la faccio più con lui. Di nuovo

E quella del genero, sempre con quellaria di chi ne sa più degli altri:

Si lamenta, eh? Dille che nella vita non si fa sempre quello che si vuole.

E il nipote, Sandrino: ormai rispondeva con un «sì» tirato, quando lei chiedeva come andava. E quei sì facevano più male delle litigate. Una volta avrebbe parlato per ore della scuola, degli amici. Ora è cresciuto, certo, ma insomma.

Non urlavano mai davanti a lei, porte sbattute niente. Ma tra le parole cera una sorta di muro invisibile. Piccole punture, cose lasciate in sospeso, ferite che nessuno ammette. Lei, nel mezzo, a passare da una parte allaltra del fiume, attenta a non dire troppo. E pensava di essere lei, in fondo, ad aver sbagliato un tempo: non aver educato nel modo giusto, non aver suggerito, non aver taciuto al momento giusto.

Bevve un sorso di tè, fece una smorfia: si era bruciata la lingua. Poi le venne in mente quando, tanti anni fa, Sandrino era piccolo e insieme avevano scritto la letterina a Babbo Natale. Lui aveva scritto con le lettere storte: «Portami, per favore, un set di costruzioni e fai che mamma e papà non litighino più». Allora lei rise, gli accarezzò la testa e disse che Babbo Natale ascolta sempre tutto.

Adesso si sentiva quasi in colpa, come se avesse imbrogliato il bambino. Mamma e papà non avevano mai smesso di discutere. Anzi, avevano solo imparato a farlo sottovoce.

Spinse via il bicchiere, pulì il tavolo con una salvietta anche se era già pulitissimo. Entrò in salotto, accese la lampada. La luce cadeva su una vecchia scrivania dove ormai scriveva raramente a mano. Tutto si faceva col cellulare: messaggi, faccine, vocali. Ma la penna era lì, tra le matite, insieme al blocco a quadretti.

Restò lì un po, con un pensiero balordo che le si formava in testa. E se…

Era una di quelle idee infantili, così assurda che si sentì quasi ridicola. Scrivere una lettera. Proprio una vera, di carta. Non per un regalo. Solo per chiedere, non a delle persone, tutte prese dalle loro questioni, ma a qualcuno che per definizione non deve niente a nessuno.

Si fece una mezza risata. Vecchia che perde colpi, pensa di scrivere a Babbo Natale. Ma la mano già cercava il quaderno.

Si sedette, raddrizzò gli occhiali, prese la penna. La prima pagina ospitava appunti di cui non ricordava lorigine, così ne voltò una e cominciò: «Caro Babbo Natale».

La mano le tremava. Si vergognava, come se qualcuno stesse sbirciando da dietro la porta. Si guardò intorno, nella stanza ordinata, a letto rifatto, allarmadio chiuso. Nessuno.

E va bene, si disse sottovoce, e continuò:

«So che sei per i bambini e io ormai sono anziana. Non ti chiederò nè pellicce, nè televisori né altro. Ho tutto quello che posso desiderare. Voglio solo chiederti una cosa: fai in modo che in famiglia torni la pace.

Che mia figlia e mio genero smettano di litigare. Che mio nipote non resti zitto come uno sconosciuto. Che possiamo sederci tutti a tavola senza paura di dir qualcosa di troppo. Lo so che gli uomini sono artefici dei propri mali e tu non centri, ma magari puoi aiutare un po. Forse non dovrei permettermi di chiederti, eppure lo faccio. Se puoi, fa in modo che ci ascoltiamo un po di più.

Con rispetto, nonna Ninetta».

Rilesse la lettera. Le pareva ingenua, storta come i disegni dei bambini. Però non cancellò niente. Si sentiva più leggera, come se avesse finalmente detto qualcosa nel vuoto che vuoto non era.

La carta frusciava sotto le dita. Piegò il foglio in due, poi ancora una volta. Restò lì a guardarlo in mano, senza sapere cosa farne. Mandarlo giù dalla finestra? Metterlo in una cassetta della posta? Ridicolo.

Si alzò, andò in corridoio a prendere la borsa. Si ricordò che lindomani doveva andare alla Coop e in posta, pagare le bollette. Ma sì, lo butto nella buca delle lettere di Babbo Natale, che adesso sono ovunque, decise. Immediatamente si sentì meno sciocca. Non era la sola, quindi.

Infilò la lettera nella taschina della borsa, accanto alla carta didentità e le bollette, e spense la luce. Il ticchettio dellorologio si faceva sentire. Andò a letto, ci mise un po a prendere sonno, a voler ascoltare quasi il silenzio. Ma alla fine dormì.

Il mattino dopo uscì prima del solito, per tornare per tempo. Fuori era scivoloso, la neve sotto i piedi faceva cric crac. Vicino al portone incontrò la signora Amalia col cagnolino. La salutò, si scambiarono parole di circostanza, poi Ninetta riprese il cammino stringendo il manico della borsa come se fosse un portafortuna.

Allufficio postale cera la folla. La fila era lunga fino allo sportello dei pagamenti, come quando regalano i panettoni al supermercato. Prese il suo posto in fondo, tirò fuori bollette e la lettera. Cercò la buca per Babbo Natale, niente da fare. Solo cassette normali e una vetrina di buste e francobolli.

Si sentì disorientata. Ecco fatto, si era inventata la sua storia. Avrebbe potuto buttare la lettera in un cestino, ma la mano non ce la faceva. La rimise in borsa, pagò le bollette, e uscì.

Davanti alla posta un chioschetto vendeva giocattoli e palline di Natale. Sulla bancarella, una scatola con scritto Lettere a Babbo Natale. Ma era già vuota, e la commessa la stava chiudendo con lo scotch.

Finito tutto ormai, le disse, vedendola guardare. Ieri era lultimo giorno. Adesso arrivano in ritardo, non fanno in tempo.

Ninetta fece cenno di sì, tanto non aveva nessuna fretta. Ringraziò per cortesia e si avviò verso casa. La lettera restava in borsa, piccola e calda come una cosa da non pensare, impossibile da buttare.

Tornata a casa, si tolse le scarpe nellingresso, appese il cappotto. Mise la borsa sullo sgabello, Dopo sistemo la spesa. Il telefono vibrò un messaggio della figlia.

«Ciao, mamma. Passiamo noi nel weekend, va bene? Sandro voleva farti una domanda per la scuola, dice che hai ancora dei vecchi libri.»

Sentì il cuore stringersi e poi rilassarsi come uno yo-yo. Quindi vengono. Quindi tutto sommato male non va. Rispose: «Certo che vi aspetto!»

Poi sbrigò la spesa, mise il brodo sul fuoco. La lettera rimase dimenticata nella tasca della borsa, lì sullo sgabello.

Il sabato sera nel pianerottolo si sentivano passi, una porta che sbatteva. Ninetta spiò dallo spioncino: li vide tutti. La figlia con il sacchetto della Esselunga, il genero con una scatola, Sandro col suo zaino e i capelli arruffati che sbucavano da sotto il berretto.

Ciao nonna, fece lui, entrando per primo e provando a baciarla sulla guancia.

Dai venite, venite, si agitò lei, toglietevi le scarpe, ho preparato le pantofole per tutti!

Dimprovviso il corridoio era affollato e rumoroso. Odore di neve, qualcosa di dolce dalla borsa della figlia. Il genero borbottava sul fatto che il condominio era sporco, Sandro si toglieva le scarpe intralciando la gruccia.

Mamma, stiamo solo unoretta, eh. Domani andiamo dai suoi, lo sai, avvertì la figlia.

Sì sì, ricordo, Ninetta annuì. Dai, venite in cucina, ho preparato il brodo.

In cucina si sedettero un po alla rinfusa. Il genero vicino alla finestra, la figlia accanto, Sandro di fronte a Ninetta. Tutti a servire il brodo in silenzio, solo i cucchiai che battevano nei piatti. Poi, magicamente, si cominciò a parlare di lavoro, del traffico, di quanto costa pure il pane. Le parole filavano dritte, ma si sentiva la tensione come la corrente sotto la superficie dellacqua.

Sandro, volevi dei libri di storia, ricordò la figlia, quando le ciotole furono vuote.

Ah, sì, sembrò svegliarsi il nipote. Nonna, hai dei libri sulla guerra o roba così? Il prof ha detto di portare qualcosa in più.

Ma certo, si illuminò Ninetta. Ne ho una serie intera sullo scaffale, vieni con me che ti faccio vedere.

Andarono in camera insieme. Ninetta accese la lampada e salì su una sedia per raggiungere i libri impolverati.

Guarda qua, tirava giù i tomi uno ad uno. Questo parla dei partigiani, questo della liberazione Ma che ti serve di preciso?

Non lo so, fece lui spallucce, qualcosa da non addormentarsi.

Stava vicino, il capo inclinato, e lei lo rivide piccolo sul suo grembo, sempre curioso. Adesso taceva, ma negli occhi si accendeva linteresse.

Prendi questo, gli diede un libro dalla copertina lisa. È scritto in modo vivace. Io ne ero matta da giovane.

Lui lo sfogliò.

Grazie, nonna.

Scambiarono qualche chiacchiera sulla scuola e sul prof di storia che è simpatico ma ogni tanto esagera. Ninetta ascoltava e faceva domande solo per la gioia di sentirlo raccontare.

La figlia sporse la testa dalla porta:

Sandro, tra mezzora andiamo, prepara lo zaino.

Ok, lui infilò il libro e si mosse in corridoio.

Quando ripartirono di nuovo casino: sacchetti, sciarpe, saluti, ti telefono, non dimenticarti, poi ti mando su WhatsApp. Ninetta li accompagnò fino alla porta, aspettò che lascensore chiudesse, poi tornò al suo silenzio.

La calma tornò subito, come quando si spegne la radio. In cucina rimise a posto. Sotto lo sgabello la sua borsa, la lettera dentro. Ci infilò la mano, la toccò, pensò per un attimo di buttarla, ma la spinse ancora più dentro, chiudendo la zip.

Non sapeva che, poco prima, Sandro, togliendosi lo zaino, aveva urtato la borsa; era rimasto un angolo di carta bene in vista. Istintivamente aveva infilato la mano, letto Caro Babbo Natale, e si era bloccato.

Non tirò fuori la lettera allora. Cerano troppi adulti intorno. Ma quella scritta gli restò in testa come un neon.

Quella sera, a casa, Sandro ripensò alla lettera che aveva scovato nella borsa della nonna. Allinizio ci rise su, poi gli sembrò qualcosa di strano, poi be, un po triste.

Domenica, mentre era a pranzo dai parenti, tra insalate russe e discorsi da adulti, la lettera di Ninetta restava lì nellangolo della mente, un pensiero insistente.

Qualche giorno dopo, tornando da scuola, scrisse un messaggio: «Nonna, passo domani da te, ok? Ho un altro dubbio di storia». Risposta quasi immediata: «Certo, che ti aspetto!»

Passò il pomeriggio dalla nonna, zaino in spalla e cuffiette. Nellatrio odore di cavolo bollito e detersivi. La porta si aprì subito, come se Ninetta fosse lì dietro ad ascoltare.

Vieni, Sandrino, togli la giacca. Ho fatto i pancake!

Lui posò lo zaino proprio sullo stesso sgabello con la borsa. La lettera era ancora lì che sbucava, bianca. Gli si strinse lo stomaco.

Mentre la nonna sistemava i pancake lui si chinò come a sistemare i lacci, tirò fuori il foglio. Gli batteva il cuore come un tamburo. Sapeva che non era giusto, ma ormai era fatta.

Infilò la lettera nella felpa, si alzò e andò in cucina come se niente fosse.

Ehi, pancake! disse con tono allegro. Mitici.

Mangiavano, chiacchieravano del più e del meno, la nonna gli chiedeva se aveva i piedi freddi, se le scarpe erano ancora buone. Lui sdrammatizzava, scherzava.

Poi andarono in salotto, diede unocchiata al libro. Salutò come sempre.

A casa, nella sua stanza, decise di leggere la lettera. Si sedette sul letto, carta un po stropicciata. La calligrafia della nonna era ordinata, ricciolina.

Allinizio si vergognava come chi ascolta dietro la porta. Quando trovò la frase «che il nipote non resti zitto come uno sconosciuto», si fermò, la rilesse. Ingollò a fatica. Pensò a tutte le volte che aveva risposto secco, senza slancio. Non era perché non la amasse, ma chissà. E lei lo sentiva come

Letta fino alla fine. Pace, la tavola, ascoltarsi di più. Gli venne un senso di tenerezza mai provato, limpulso di correre dalla nonna e dirle che sarebbe andato tutto a posto. Ma subito si vergognò della propria emotività.

Si sdraiò, la lettera sul letto, un quadratino bianco sul copriletto scuro.

E adesso? Raccontare a mamma e papà? Quelli avrebbero sminuito tutto, magari si sarebbero pure arrabbiati. Darla indietro alla nonna, far finta di averla trovata per caso? Così lei avrebbe capito che lui aveva letto. Nessuno ci avrebbe guadagnato, solo imbarazzo.

Si girò di lato, con la faccia nel cuscino. In testa gli ronzavano quelle frasi: «che il nipote non stia zitto come uno estraneo», «che si possa stare tutti a tavola». Suonavano più come una preghiera a lui, non a un vecchietto simpatico col cappello rosso.

A cena provò a dire: «Ma mamma, la nonna», ma qualcosa si frapponeva sempre. O il padre parlava dei voti, o la mamma delle colleghe. Alla fine tacque, rimangiandosi i pensieri insieme ai maccheroni.

Di notte non dormiva. La lettera ripiegata rimaneva nel cassetto, presente e pesante.

A scuola il giorno dopo confidò a un amico della lettera a Babbo Natale. Lamico rise:

Pazzesco. Mio nonno crede solo nella pensione!

Non fa ridere, tagliò Sandro, persino stupito della propria veemenza.

Laltro cambiò discorso, ma Sandro si scoprì solo con la sua stranezza.

La sera compose il numero della nonna, fece per chiamare ma riagganciò subito. Aprì la chat di famiglia, pure lì solo battutine, foto di piatti e inviti a cene aziendali. Nessuna lettera.

Scrisse: «Mamma, facciamo Capodanno dalla nonna?» e subito cancellò. Simmaginò la risposta: Sei fuori? Siamo già dai tuoi nonni paterni! Polemiche assicurate.

Riprese in mano la lettera e, fermo su quella frase a tavola, gli venne unidea stramba ma rivelatrice.

Non Capodanno. Solo una cena. Senza motivo. O quasi.

Entrò in salotto dove la madre stava col portatile.

Mamma, attaccò, restando sulla soglia. Ma perché non insomma andiamo tutti dalla nonna per cena? Una cena vera, insieme.

Lei lo squadrò sopra gli occhiali.

Ci andiamo sempre!

No, dico davvero. Non di corsa. Prepariamo qualcosa, io aiuto.

Lei rise.

Tu ai fornelli? Voglio vedere! Ma non cè mai tempo, tuo padre rincasa tardi

Almeno il sabato, insistette. Tanto restiamo a casa lo stesso.

Lei sospirò.

Sandro, non so tuo padre poi protesta per la stanchezza

Mamma, si fece sentire, la nonna si annoia, mi hai detto tu stessa. Una volta sola, dai.

Lei per la prima volta lo guardò come se lo vedesse nuovo.

Va bene, concesse. Parlo con lui. Ma non prometto nulla.

Lui usci arrossendo come se avesse fatto una dichiarazione damore. Non era un gesto eroico, ma era qualcosa.

Alla sera sentì i genitori parlare in cucina.

È lui che insiste, diceva la madre. Te ne rendi conto?

Ma cosa dobbiamo fare lì? Di nuovo discorsi sulla salute?

Lei è da sola, sussurrava la madre. E anche a Sandro evidentemente importa.

Silenzio, poi un sospiro del padre.

Va bene. Sabato andiamo.

Sandro si sentiva come dopo aver vinto una partita, anche se sapeva che la sfida non era finita.

Chiamò la nonna il giorno dopo:

Nonna, ciao. Noi cioè, veniamo sabato da te, a mangiare insieme. Se vuoi io arrivo prima, cuciniamo qualcosa io e te.

Dallaltro capo una breve pausa.

Ma certo, disse Ninetta. Che cuciniamo?

Boh, quello che vuoi. Io posso tagliare linsalata o pelare le patate.

Linsalata non te lho mai vista tagliare! Vorrà dire che imparerai!

Quel sabato arrivò con due buste della spesa.

Dove vai con tutta sta roba? rise la nonna. Invitiamo il circolo anziani?

Meglio abbondare.

Pelavano patate, tagliavano il sedano. Ninetta lo correggeva ogni due minuti (Attento con quelle dita!) e lui brontolava, ma stava attento.

In cucina profumo di cipolla e arrosto. La radio sussurrava di sottofondo. Il cortile iniziava a spegnersi per il crepuscolo, pochi passanti.

Nonna, disse Sandro tagliando il cetriolo, ma tu insomma, credi a Babbo Natale?

Lei fece un salto, la cucchiarella picchiò forte sulla pentola. Pure la radio tacque.

Ma che domanda è?

Così, se ne parlava a scuola.

Lei rimestò larrosto, spense i fornelli, lo guardò strano.

Da piccola sì, poi boh, non so. Forse esiste, ma non come lo fanno vedere i film. E tu?

Niente, era solo così, tagliò corto lui. Sarebbe buffo se esistesse davvero.

Rimasero in silenzio qualche minuto. Lei tornò ai fornelli, lui alla verdura. Non riuscì a dirle della lettera, eppure qualcosa si era mosso. Entrambi, in fondo, sapevano.

Arrivarono i genitori verso sera. Il padre stanco ma non troppo, la madre col ciambellone appena sfornato.

Ma che è, fece il padre vedendo il tavolo, sembra una trattoria!

Tutto merito del vostro ragazzo, sorrise Ninetta. Mi dà una mano.

Tu? guardò il figlio. Allora succede davvero di tutto.

Che cè, non sono mica morto, borbottò Sandro.

Si sedettero. Un attimo impacciati. Ognuno pesava le parole, con paura. Ma il cibo, come spesso fa, sciolse le tensioni. Si finì a ridere dei disastri della madre da piccola, delle storie del lavoro del padre. Ninetta sorrideva, con la mano davanti alla bocca.

Sandro li guardava pensando alla lettera. Tra una risata e una pausa, come se tra le frasi ci fosse un discorso segreto. Quello vero, di ascolto.

A un punto, la madre, mentre serviva il tè, disse:

Mamma, scusa se veniamo poco. È che stiamo sempre a rincorrere qualcosa.

Non era una scusa, sembrava un confessione. Ninetta abbassò lo sguardo.

Lo so. La vita è la vita. Non mi offendo.

Sandro sentì una puntura di dolore. Sapeva che invece un po ci restava male. Ma non cera accusa nelle sue parole, solo voglia di non pesare.

Comunque, scappò detto a Sandro, ogni tanto si può. Anche senza feste.

I genitori si girarono sorpresi. Lui, arrossendo, aggiunse:

Come oggi. Non è male.

Il padre sorrise, senza ironia.

Verissimo. Anche bello.

La madre annuì.

Proveremo a fare di più, disse, con una sfumatura nuova.

Si ricominciò a parlare del futuro, degli esami, delle università. Ninetta ascoltava, cercando di capire anche parole da moderni. Non sempre ci riusciva.

Quando fu ora di andare, il solito trambusto di cappotti e saluti. La madre promise: La prossima volta organizziamo sempre qui, ti avviso prima.

Felicissima! rispose Ninetta.

Sandro rimase un momento in camera, guardò il tavolo della nonna, il blocco e la penna. La lettera ormai laveva tenuta lui, ripiegata nel taschino. Aveva deciso che non lavrebbe restituita: era troppo importante per farla sparire di nuovo tra le sue borse.

Nonna, disse, se vuoi qualcosa che cambiassimo dillo a noi. Non ti serve scrivere lettere a nessuno.

Lei lo fissò con sorpresa, poi il suo sguardo si addolcì.

Va bene, disse. Se mi viene in mente qualcosa, ve lo dico.

Lui annuì e uscì. Porta chiusa, ascensore giù.

Ninetta rimase. Andò in cucina, sedette. Sul tavolo ancora piatti e avanzi di ciambellone, odore di cena e tè. Passò la mano sulla tovaglia.

Nel petto sentiva qualcosa di nuovo: non felicità vera, non una gioia, ma come una finestra appena aperta, aria fresca dentro casa. Sapeva che avrebbero continuato a discutere, i piccoli misteri non sparivano di colpo. Ma quella sera, attorno a quella tavola, tutti si erano spostati, anche solo di un centimetro, luno verso laltro.

Ripensò alla sua lettera. Che fine aveva fatto? Forse era volata via, poco importava ormai.

Si alzò, si avvicinò alla finestra. Nel cortiletto alcuni bambini costruivano un pupazzo di neve. Uno con il berretto rosso rideva così forte che arrivava fino al suo piano.

Ninetta appoggiò la fronte al vetro e sorrise appena. Come se avesse ricevuto un segnale silenzioso da lontano.

E nella tasca della giacca di Sandro, nella loro casa, la lettera giaceva ben piegata. Ogni tanto lui la tirava fuori, leggeva due righe e la rimetteva via. Non era più una richiesta a un nonno barbuto, ma un promemoria di ciò che conta davvero per chi ti fa il brodo e aspetta una tua telefonata.

Non lo disse a nessuno. Ma la volta dopo, quando la madre disse di non aver voglia di andare dalla nonna, lui rispose pacifico:

Allora ci vado io.

E andò. Non era Natale, né un evento. Solo una visita. Non era un miracolo. Solo un altro piccolo passo verso quella pace di cui qualcuno, tempo fa, aveva scritto su un quaderno a quadretti.

Ninetta, aprendogli la porta, si stupì ma niente domande.

Vieni, Sandrino. Proprio in tempo per il tè.

E bastò quello, perché in quella casa tornasse un po di calore.

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La lettera che non arrivò mai La nonna sedeva a lungo davanti alla finestra, anche se non c’era quasi nulla da guardare. Nel cortile il buio scendeva presto, il lampione sotto casa si accendeva e si spegneva svogliatamente. Sulla neve solo qualche traccia di cane o di passante, in lontananza una donna delle pulizie raschiava la pala e poi tutto tornava silenzioso. Sul davanzale c’erano i suoi occhiali dalla montatura sottile e il vecchio telefono, lo schermo crepato. Ogni tanto il telefono vibrava per una foto o messaggio vocale nel gruppo di famiglia, oggi però taceva. La casa era quieta. L’orologio alla parete scandiva forte i secondi, più del necessario. Si alzò, andò in cucina, accese la luce. Una lampadina gialla scioglieva un cerchio spento sul soffitto. Sul tavolo una ciotola di ravioli ormai freddi, coperti da un piatto. Li aveva preparati nel pomeriggio, per caso qualcuno fosse passato. Ma nessuno era passato. Si sedette, prese un raviolo, lo assaggiò, poi lo lasciò. La pasta era diventata gommosa. Si poteva mangiare, certo, ma senza gioia. Si versò il tè dal vecchio bollitore smaltato, ascoltò l’acqua che scorreva nel bicchiere e, inaspettatamente, sospirò a voce alta. Fu un sospiro pesante, come se qualcosa le fosse caduto dal petto e seduto accanto, sullo sgabello. Ma perché mi lamento, pensò. Siamo tutti vivi, grazie a Dio. Ho un tetto sulla testa. Eppure… Eppure nella mente riaffioravano pezzi di conversazioni recenti. La voce della figlia, tesa come una corda: «Mamma, io non ce la faccio più con lui così. Lui ha ricominciato…» E quella del genero, un po’ beffarda: «Si lamenta con te, eh? Dille che la vita non è come vuole lei.» E poi il nipote, Sasha, che ormai rispondeva al telefono solo con un “sì”, se lei chiedeva come andasse. E quei “sì” facevano più male di tutto. Prima raccontava ore della scuola e degli amici. Adesso è grande, certo. Però. Non litigavano mai davanti a lei, né sbattevano le porte. Ma tra le parole c’era ormai un muro invisibile. Piccoli sfregi, non detti, rancori che nessuno confessava. E lei, tra i due argini, o dalla figlia, o dal genero, bada a non esagerare. A volte pensava che fosse colpa sua, di averli cresciuti male, di aver suggerito male, di aver taciuto troppo o troppo poco. Fece un sorso di tè, si scottò, e all’improvviso ricordò di quando, tanti anni fa, Sasha era piccolo e insieme scrissero la lettera a Babbo Natale. Lui, di mano incerta: “Portami un gioco di costruzioni e fai che mamma e papà non litighino più”. Allora le era scappato da ridere, gli accarezzava la testa e diceva che Babbo Natale avrebbe sentito. Oggi invece si vergognava un po’ di quella memoria, come se avesse imbrogliato un bambino. Mamma e papà non avevano mai smesso di discutere. Solo, avevano imparato a farlo piano piano. Spinse via il bicchiere, pulì il tavolo con una salvietta, sebbene fosse già pulito. Poi andò in camera, accese la lampada sulla scrivania. La luce cadeva sul vecchio tavolo dove ormai scriveva poco a mano. Più che altro col telefono: messaggi, faccine, audio. Ma la penna stava lì, nel bicchiere coi pastelli, vicino al blocchetto a quadretti. Rimase in piedi, fissandoli, poi pensò: E se… L’idea era assurda, infantile persino, ma la fece sentire più calda dentro. Scrivere una lettera. Una vera, di carta. Non per ricevere qualcosa. Solo per domandare. Non alle persone, che ognuno ha i suoi conti, ma a qualcuno che, in teoria, non deve niente a nessuno. Sorrise di sé. La vecchia è impazzita, si è messa a scrivere a Babbo Natale. Ma la mano già si allungava per prendere il blocchetto. Si sedette, sistemò gli occhiali sul naso, prese la penna. Le prime pagine erano già scarabocchiate, sfogliò finché trovò un foglio bianco. Esitò, poi scrisse: “Caro Babbo Natale”. La mano tremava. Le sembrava una sciocchezza, come se qualcuno la sbirciasse alle spalle. Guardò la stanza vuota, il letto ben fatto, l’armadio chiuso. Nessuno. — Tanto vale, — si disse a mezza voce, e continuò: “So che sei per i bambini e io sono vecchia. Non ti chiedo pellicce, tv o altro. Ho tutto quello che mi serve. Voglio solo chiederti una cosa: porta, per favore, la pace nella mia famiglia. Che mia figlia e mio genero non litighino più, che mio nipote non rimanga muto come un estraneo. Che si possa stare tutti insieme a tavola senza temere parole sbagliate. Lo so, la colpa è nostra, tu non c’entri. Però magari puoi aiutare, anche solo un po’. Forse non avrei diritto a chiederti questo, ma lo chiedo lo stesso. Se puoi, fa’ che impariamo di nuovo ad ascoltarci. Con affetto, nonna Nina.” Rilesse. Le parole le parvero ingenue, storte come i disegni dei bambini. Ma non corresse niente. Le parve che il cuore si fosse alleggerito. La carta frusciava sotto le dita. Piegò il foglio una, due volte. Restò un po’ seduta con quel foglietto tra le mani, senza sapere che farne. Gettarlo? Metterlo nella cassetta postale? Ridicolo. Andò in corridoio per la borsa. Si ricordò che il giorno dopo sarebbe uscita per la spesa e la posta, a pagare le bollette. E allora lo butterò lì dentro, nella casella per le lettere a Babbo Natale, decise. Ormai le mettono dappertutto. Le fu più facile. Non era l’unica, quindi. Mise la lettera in una tasca della borsa, accanto al passaporto e alle ricevute, poi spense la luce. L’orologio scandiva il tempo. Si stese a letto, rimase sveglia a lungo nell’attesa del sonno, immersa nel silenzio. La mattina uscì prima del solito per sbrigare tutto prima di pranzo. Sulla strada c’era ghiaccio, la neve scricchiolava. Vicino al portone, la vicina col cagnolino le fece un cenno, chiese della salute. Si scambiarono due parole e Nina proseguì, stringendo il manico della borsa tra le dita. Alla posta c’era fila. Si mise in coda col pacchetto di ricevute e la lettera. Ma nell’ufficio non c’era nessuna cassetta per le lettere a Babbo Natale. Solo le vecchie cassette sulle pareti e un’esposizione di francobolli. Si sentì spaesata. Ecco, pensò, e ora? Avrebbe potuto buttare la lettera nel cestino, ma non ci riusciva. La rimise nella tasca, pagò le bollette e uscì. Fuori dalla posta c’era un chioschetto di giochi e addobbi. Su una scatola era scritto “Lettere a Babbo Natale”, ma la cassettina era vuota, e la commessa la staccava proprio mentre Nina guardava. — Abbiamo finito ieri, — spiegò, — oggi ormai è tardi, non arrivano più. Nina annuì, anche se non aveva fretta. Ringraziò — anche se non c’era nulla da ringraziare — e tornò a casa. La lettera rimaneva nella borsa, un piccolo e tiepido nodo di ricordi che non si riesce a gettare ma neppure a toccare. A casa si tolse le scarpe nel corridoio, appese il cappotto, lasciò la borsa sulla sedia per svuotarla dopo. Il telefono vibrò brevemente: un messaggio della figlia. “Mamma, ciao. Passiamo sabato sera da te, va bene? Sashka chiede di alcune vecchie cose di scuola, dice che hai dei libri.” Sentì un nodo stringersi e poi sciogliersi nel petto. Allora verranno. Allora forse, non è tutto perduto. Rispose subito: “Certo, vi aspetto. Non vedo l’ora”. Poi andò in cucina, ripose la spesa e mise su il brodo. La lettera rimase là, nella tasca della borsa scordata sulla sedia. Sabato sera risuonarono i passi sulle scale, uno sbattere di porta d’ingresso. Nina guardò dallo “spioncino”, vide le sagome familiari. La figlia con la borsa, il genero con una scatola, Sasha già alto quanto la porta, con il cappuccio e i capelli che sbucavano da sotto. — Ciao nonna — fu il primo, piegandosi imbarazzato a darle un bacio sulla guancia. — Entrate, entrate — si affrettò lei, — toglietevi le scarpe, vi ho preparato le pantofole. Immediatamente il corridoio si riempì di voci, odore di strada, neve, qualcosa di dolce dal sacchetto della figlia. Il genero borbottava che nel palazzo nessuno pulisce, Sasha toglieva le scarpe in silenzio sbattendo lo zaino contro l’appendiabiti. — Mamma, rimaniamo poco — disse la figlia, — domani andiamo dai suoi, ti ricordi? — Sì, sì, — annuì Nina. — Venite in cucina, ho fatto la minestra. In cucina si sedettero un po’ scomposti. Il genero vicino alla finestra, la figlia accanto, Sasha davanti a Nina. Silenzio mentre calava la minestra nei piatti, solo le posate a tintinnare. Poi la conversazione si accese da sé: lavoro, traffico, prezzi. Parole lisce ma sotto si avvertiva ancora la corrente. — Sasha, volevi qualcosa per scuola, ricordi? — lo richiamò la madre, quando le ciotole furono vuote. — Ah, vero — Sasha si riscosse. — Nonna, hai roba di storia, sulla guerra, qualche libro? Il prof ci ha detto di leggere qualcosa in più. — Ce l’ho eccome — si illuminò Nina. — Ho una collezione intera sulla mensola. Vieni, ti mostro. Andarono in camera insieme. Nina accese la lampada, cercò sulla mensola in alto le copertine un po’ logore. — Guarda qua, — disse, — questa parla dell’assedio, questa dei partigiani, questi sono ricordi… Cosa ti interessa? — Non lo so — fece spallucce Sasha. — Qualcosa che non sia noioso. Stava lì vicino, un po’ inclinato nella testa, e Nina improvvisamente vide di nuovo il bimbo piccolo sulle sue ginocchia, quell’interesse che ora lampeggiava negli occhi. — Prendi questa, — allungò il libro dalla copertina scolorita — è scritta bene. La lessi anch’io da ragazza. Lui lo sfogliò. — Grazie, nonna. Parlarono ancora un po’ di scuola, del professore che “sì, è a posto ma ogni tanto esagera”. Nina ascoltava, chiedeva dettagli. Le bastava che raccontasse. Poi la figlia fece capolino: — Sasha, tra mezz’ora andiamo via, inizia a preparare le cose. — Ok — rispose. Mise il libro in borsa e tornò nel corridoio. Al momento dei saluti, ancora confusione tra borse, giacche e raccomandazioni “chiama”, “non dimenticare”, “te lo mando dopo”. Nina li accompagnò alla porta, guardò l’ascensore chiudersi e rientrò. Il silenzio calò subito. Andò a ritirare la tavola della cucina. Sulla sedia in fondo restava la borsa con dentro la lettera. Ci mise la mano quasi per abitudine, ne sentì il foglietto. Per un istante pensò di strapparlo, ma poi lo infilò meglio e chiuse la zip. Non sapeva che nel corridoio, mentre era in cerca dei libri, Sasha, togliendo lo zaino, aveva urtato lievemente la borsa e visto l’angolino bianco del foglio. Per istinto lo rimise a posto, notò la scritta “Caro Babbo Natale” e rimase immobile. Non lo tirò fuori allora. Troppa gente, troppo movimento. Ma quella scritta gli rimase stampata in mente come un lampo. La sera, a casa, la ricordò mentre sfogliava il libro preso dalla nonna. L’idea che la nonna, una donna grande, scrivesse a Babbo Natale, prima gli parve buffa, poi strana, poi tristemente tenera. Il giorno dopo andarono dai parenti. Sasha mangiò insalate, ascoltò chiacchiere degli adulti, trafficò col cellulare. Ma in un angolo della mente tornava l’immagine di quel foglio bianco. Dopo qualche giorno, tornando da scuola, scrisse alla nonna: “Nonna, passo da te? Mi serve ancora roba di storia”. Lei rispose subito: “Certo, vieni”. Salì da lei dopo le lezioni, lo zaino in spalla, gli auricolari alle orecchie. L’androne odorava di cavolo bollito e detersivo. La porta si aprì quasi subito, come se lei lo aspettasse. — Entra, Sashenka, togli il giubbotto. Ti ho fatto i pancake — gli disse, spostandosi nel corridoio. Lui mise via il giubbotto, appoggiò lo zaino proprio sulla sedia con la borsa. La borsa era semiaperta, l’angolo bianco del foglio di nuovo sporgeva. Qualcosa dentro gli si strinse. Mentre la nonna trafficava in cucina coi pancake, lui si chinò fingendo di allacciarsi la scarpa e tirò fuori quel foglietto. Il cuore batteva forte, capiva di star facendo qualcosa di poco corretto ma non riusciva a fermarsi. Mise la lettera in tasca, si alzò e andò in cucina. — Ah, i pancake — disse cercando di essere normale. — Forti. Mangiavano, chiacchierando di scuola, del tempo, che presto sarebbero state le vacanze. Ogni tanto la nonna chiedeva se aveva freddo, se le scarpe erano buone. Lui svicolava con una battuta. Poi andarono in camera, lui finse di guardare il libro già preso e se ne andò come al solito, per non destare sospetti. Solo a casa, chiuso in stanza, tirò fuori la lettera. Si sedette sul letto, la carta un po’ stropicciata, gli angoli piegati. La calligrafia elegante. Cominciò a leggere. All’inizio provava imbarazzo, come a spiare conversazioni private. Poi il disagio aumentò quando trovò la frase “fa’ che il nipote non resti muto come uno straniero”. Si fermò, rilesse. Un nodo gli salì in gola. Si ricordò di tutte le volte in cui negli ultimi mesi rispondeva a monosillabi, schivando le chiamate. Non per cattiveria, solo stanchezza, svogliatezza, fretta. E lei… Finì di leggere la lettera. Sulla pace, la tavola unica, il sentirsi. Sentì una tenerezza così grande per la nonna che avrebbe voluto andare da lei, abbracciarla, prometterle che sarebbe andato tutto bene. Ma gli parve subito ridicolo. Si sdraiò a letto, la lettera accanto, una chiazza bianca sulla coperta scura. E adesso? pensava. Dirlo alla mamma? Al papà? Avrebbero detto che era una sciocchezza, o si sarebbero offesi, o peggio, litigato ancora. Restituirla alla nonna, fingere d’averla trovata? Capirebbe che l’aveva letta. Si vergognerebbe. Anche lui. Girandosi sul fianco, la faccia nel cuscino, in testa solo frasi spezzate: “fa’ che il nipote non sia muto”, “fa’ che possiamo sederci tutti a tavola”. Sembravano una preghiera non a un Babbo Natale fiabesco, ma proprio a lui. A cena più volte cercò di iniziare: “Mamma, la nonna…” ma non riuscì mai. O il padre lo interrompeva chiedendo dei voti, o la madre parlava del lavoro. Poi tacque, mangiò in silenzio. Di notte non dormì bene. La lettera restava nel cassetto della scrivania, ordinata. Sapere che era lì lo tormentava. Il giorno dopo, all’intervallo, raccontò all’amico d’aver trovato la lettera della nonna a Babbo Natale. L’amico rise: — Che forte. Mio nonno non crede a niente, tranne la pensione. — Non fa ridere, — rispose Sasha, sorpreso lui stesso dal tono serio. L’amico cambiò argomento. Sasha si sentì solo con quel suo strano fardello. La sera compose il numero della nonna, poi chiuse la chiamata senza chiamare. Aprì il gruppo di famiglia: una foto di insalata, una battuta sul traffico, l’invito a una cena di lavoro. Tutto sopra le righe. Niente lettere. Scrisse “Mamma, perché non festeggiamo il Capodanno dalla nonna Nina?” e subito cancellò. Immaginava la risposta: “Ma sei matto? Siamo già d’accordo con i genitori di papà”. E via ancora discussioni, pesantezza. Sedette al tavolo, tirò fuori la lettera, la riaprì. Gli occhi ancora sulla frase della tavola condivisa. Gli venne un’idea che lo fece ridere ma anche tremare. Non Capodanno. Solo una cena, senza motivo. O quasi. Entrò in salotto dalla mamma mentre lei era al portatile. — Mamma, — detto restando sulla soglia. — Senti… andiamo dalla nonna tutti insieme? Solo per cena. Così. Potrei aiutare a cucinare. Lei lo guardò di traverso. — E tu cucini ora? — Sorrise. — Ma non abbiamo mai tempo. Papà torna tardi, io lavoro. — Ma possiamo sabato, — si intestardì lui. — Così non restiamo sempre a casa. Lei sospirò, si appoggiò allo schienale. — Sasha, non so. Tuo padre brontola che vuole riposare il weekend. E poi… — Mamma, — la interruppe, sentendo crescere una strana forza, — tanto la nonna lì sola… L’hai detto anche tu. Solo una volta. Giusto come oggi. Fu la prima volta che la madre lo guardò davvero. — Va bene, — concesse infine. — Ne parlo anche con papà. Ma non prometto. Sasha uscì dalla stanza, le orecchie calde. Era un semplice gesto, ma un primo passo. Più tardi ascoltò in cucina la conversazione dei genitori. — E lui che lo chiede — diceva la madre. — L’ha detto proprio lui. — Ma che andiamo a fare… — sbuffava il padre. — Solite chiacchiere su salute e pensioni. — Eppure è sola, — disse più piano la madre. — E Sasha… gli importa, mi sa. Un silenzio. Poi un sospiro, pesante. — Va bene. Sabato andiamo. Sasha tornò in camera sentendosi vincitore di una piccola battaglia. Ne restava un’altra: convincere la nonna. Il giorno dopo la telefonò lui. — Ciao nonna. Noi… insomma… sabato veniamo da te. Magari vengo prima, ti aiuto a cucinare. Ci fu un attimo di silenzio all’altro capo. — Certo. Cosa vuoi cucinare? — Quello che vuoi. Io posso tagliare l’insalata. O patate. — Insalata ancora mai, — rise lei. — Ti insegno io. Il sabato arrivò da lei con due sacchetti pieni di spesa che aveva fatto con la madre. — Ma quanti siamo, un esercito? — si stupì la nonna. — Meglio di più che di meno, — rispose Sasha. Pulirono patate, tagliarono verdure insieme. Nina lo correggeva quando impugnava male il coltello: — Attento alle dita! — Va bene, va bene, — borbottava lui, ma ascoltava. In cucina odore di cipolla e carne che frigge. La radio in sottofondo. Fuori si faceva sera, nel cortile passava poca gente. — Nonna, — disse lui di colpo, tagliando i cetrioli. — Ma tu… credi a Babbo Natale? Lei sobbalzò tanto che la forchetta le cadde dal tegame. Per un istante anche la radio sembrò spegnersi. — E come mai chiedi? — chiese pianissimo senza voltarsi. Lui fece spallucce, cercando di sembrare disinvolto. — Così, ho litigato a scuola. Lei mescolò la carne, spense il fuoco, si girò verso di lui. C’era uno sguardo vigile nei suoi occhi. — Da piccola sì, poi boh. Chissà. Forse c’è, ma non come in tv. Perché? — Niente, — si affrettò lui. — Sarebbe bello se esistesse. Il silenzio cadde. Tornarono ognuno alle loro cose. Ma dentro Sasha tutto tremava. Anche se non diceva niente sul foglio, sentiva che avevano capito lo stesso. La sera arrivarono anche i genitori. Il padre un po’ stanco ma meno scuro del solito, la madre con una torta. — Caspita, — commentò il padre vedendo la tavola. — Si potrebbe sfamare tutto il palazzo. — È merito di tuo figlio, — fece Nina sorridendo. — Ha aiutato. — Davvero? — il padre guardò Sasha. — Questa è nuova. — Beh, non sono morto — borbottò lui. Sedettero. All’inizio un po’ tesi. Ognuno pesava le parole per non ferire. Ma il cibo sciolse tutto piano. Raccontarono aneddoti di infanzia, il papà divertiva coi colleghi, Nina rideva, mettendosi la mano davanti alla bocca. Sasha pensava alla lettera. Gli pareva che tra quelle frasi, tra le risate e le pause, scorresse un’altra conversazione. Quella della richiesta: imparare a capirsi. A un certo punto, la madre, versando il tè, disse: — Mamma, scusa se veniamo poco. Io… siamo sempre di corsa. Non era una giustificazione, ma un’ammissione. Nina abbassò gli occhi, lisciò il bordo del piattino. — Lo so, — sussurrò. — Avete la vostra vita. Non ce l’ho. Sasha sentì una fitta. Lui però sapeva che in fondo un po’ ce l’aveva. Ma non c’era accusa, solo delicatezza. — Lo so, ma… — si intromise lui, — potremmo anche venire ogni tanto. Senza aspettare la festa. I genitori si voltarono verso di lui. Sasha si confuse, ma continuò: — Così, come oggi. Va bene, no? Il padre sorrise, senza ironia. — Va benissimo, — disse. — Anzi, davvero. La madre annuì. — Ci proveremo, — promise, ma nel tono c’era qualcosa di nuovo: la volontà anche solo di provarci. Poi si passò a parlare del futuro di Sasha, dei suoi studi, se servono o no i tutor. Nina ascoltava, diceva la sua. Non capiva tutto ma cercava di restare al passo. All’addio in corridoio di nuovo strette, giacche, guanti, raccomandazioni. Il padre aiutò Nina a mettere a posto la pentola, la madre sparecchiava il tavolo. — Mamma, la prossima volta anche tu, eh, ci dici prima cosa preparare? — disse la figlia. — Va bene, — Nina annuì. — Mi fa solo piacere. Sasha si trattenne un attimo alla porta della camera. Pose lo sguardo sul quaderno, la penna. La lettera ormai stava nella sua tasca, ben piegata. Aveva deciso di non restituirla. Vi era detto troppo. — Nonna, — disse in un soffio, — se c’è qualcosa che vuoi… che facciamo meglio… dillo. Non scrivere a nessuno. Dillo a noi. Lei lo guardò sorpresa, poi teneramente. — Certo, — disse. — Se serve, vi dico. Lui annuì e uscì. La porta si chiuse, l’ascensore li portò via. Nina restò nel silenzio. Andò in cucina, si sedette. Sul tavolo piatti, tazze, briciole di torta. Nell’aria odore di carne e tè. Passò la mano sulla tovaglia, raccogliendo le briciole. Aveva dentro una sensazione nuova. Non euforia, ma come se qualcuno avesse aperto la finestra e fatto entrare aria fresca. I problemi non erano spariti. Sapeva che la figlia e il genero avrebbero discusso ancora, che Sasha aveva la sua vita. Ma lì, attorno a quel tavolo, erano riusciti a stare un po’ più vicini. Ripensò alla lettera. Non sapeva che fine avesse fatto. Forse era nella borsa, o l’aveva persa, o qualcuno l’aveva trovata. Ma ormai non aveva più importanza. Si avvicinò alla finestra. In cortile, sotto il lampione, alcuni bambini giocavano con la neve. Uno con un berretto rosso rideva forte, il suo grido arrivava chiaro fino al terzo piano. Nina appoggiò la fronte al vetro freddo e sorrise. Non apertamente, ma come a rispondere a un segnale lontano, ma comprensibile. E nella tasca della giacca di Sasha, a casa loro, la lettera stava sempre lì. Ogni tanto la tirava fuori, leggeva una riga, poi la riponeva. Non era più una richiesta a un Babbo Natale, ma il promemoria di ciò che desidera veramente una persona che ti fa la minestra e aspetta una tua telefonata. Non raccontò a nessuno della lettera. Ma, la volta che sua madre disse che era stanca e non voleva andare dalla nonna, lui disse semplicemente: — Allora ci vado io. E ci andò. Non per una festa, non per un evento. Semplicemente così. Un altro piccolo passo verso quella pace che qualcuno, un giorno, aveva scritto a quadretti su un foglio. Nina, aprendogli la porta, fu sorpresa ma non domandò niente. Disse soltanto: — Vieni, Sashenka. Ho appena messo a bollire il tè. E quello bastava, perché in casa tornasse subito un po’ di calore.