Parente inqueto: una storia di tensioni familiari

Ricordo ancora quel pomeriggio dautunno, quando la madre, Caterina, mi disse con tono preoccupato: «Ilaria, cara, come immagini questa situazione?mi alzò la voce. Devo vivere due settimane con un uomo che non conosco?».

«Perché lo chiami estraneo? È Giorgio, figlio della mia cugina Lidia, nostro parente!».

«Ti ricordi quando da piccola giocavate insieme? Allora eravamo ospiti a casa loro!» replicò la madre.

«Mamma, sto per compiere trentanni! Dove è finita la mia infanzia? Non vorrai forse ancora farmi sposare?» cercai di farle capire.

«Non fare domande sciocche: è un parente, quindi accogli il visitatore, non ti succederà nulla!» concluse con decisione, e chiuse la telefonata.

Mia madre rispettava sempre i legami di sangue: la famiglia è sacra! Così, appena il cugino Giorgio decise di trasferirsi nella capitale, Milano, la città delle opportunità, mi propose di accoglierlo nella nostra modesta dimora di Roma. «Accoglilo come famiglia, non è un ospite, è parente!»

Io, professoressa di lettere e russo nelle scuole superiori, ricordavo bene lavverbio «in maniera familiare», tanto amato da quel famigerato scrittore di racconti grotteschi, Ivo Golfo.

Così mi offrii per buona volontà di ospitare il piccolo cugino, perché nessuno vuole sentirsi un randaccio su un tetto altrui!

La nostra casa era un piccolo appartamento di due vani, ereditato dalla nonna, con cucina minuscola, così stretta che nemmeno un tavolo pieghevole ci starebbe. Non potevamo proprio fare spazio per Giorgio.

Il mio umore si abbatté: avevo già vissuto da sola per anni; un matrimonio lampo non mi interessava più. Lunione universitaria era finita dopo sei mesi, e non avevamo avuto figli.

Avevo una doppia stanza dallo stile depoca, con elettrodomestici ancora funzionanti: la lavatrice girava, il frigo raffreddava, il televisore trasmetteva. Il mio stipendio da insegnante era discreto, e la vita sociale era piena di amiche. Il mio compagno felino, Micio, era lunico a tenere compagnia.

Preparai la stanza per il cugino e lo aspettai con apprensione. La madre aveva detto: «Ti piacerà!» E così fu: Giorgio arrivò, annusò ogni angolo della casa e si avventurò nei corridoi comuni.

«Che cosa cerchi, timido? Oro e diamanti?» chiesi, scherzando.

«Voglio solo sapere dove starò», rispose lui.

«Se qualcosa non ti piacerà, non resterai?», domandai, curiosa.

«Resterò, ma»

«Ma cosa?»

«Niente, è tutto a posto».

Ci sedemmo a bere un tè, e lui tirò fuori una torta che la zia Lidia mi aveva regalato, più un piccolo dolcetto comprato al mercato. Non era un approfittatore, ma un ospite educato.

Nel quotidiano, Giorgio si dimostrò impeccabile: lavava i piatti senza richieste, cucinava decentemente e lasciava il bagno asciutto. Era davvero «addestrato al water».

«Grazie, zia Lidia, e grazie alla prima moglie di Giorgio, chi lo sa», dissi, notando che anche lui era divorziato.

«Davvero?», esclamò la mia amica Lara, che sapeva bene della sua precedente separazione da Levante.

«Ma siamo parenti! E poi non mi piace!» ribellei.

«Siamo parenti come la settima acqua alla gelatina! Come può non piacerti? È un bravo ragazzo», replicò Lara.

Giorgio non era il mio tipo, ma il suo stile di vita era diverso dal mio: io notturna, lui mattiniero. Preferivo una vita lenta, seguendo il detto orientale «affrettati lentamente». Lui era sempre in movimento, con il cuore che sembrava un motore ruggente.

Il primo giorno mi portò al teatro, avendo prenotato i biglietti online. Non amavo il teatro, ma accettai per fare buona figura. Guardavo soltanto spettacoli vecchi su internet, e quella rappresentazione moderna mi deluse: senza sipario, costumi stravaganti, dialoghi incomprensibili.

Giorgio, però, ne rimase entusiasta e, tornando a casa, cercò di convincermi che il nuovo era migliore.

«È un progresso», insisteva.

«Perché dovrei cambiare? Mi bastano le cose vecchie», rispondevo.

«È il futuro, la spinta verso Milano!», proclamava.

Micio si rifugiò sotto il letto, forse anche lui non gradiva il nuovo arrivato.

Nei giorni seguenti, Giorgio si immerse nella vita di casa: comprò un tappeto nuovo, sostituì il vecchio sul pianerottolo, introdusse una casseruola più adatta alla cottura della minestra. Nulla ci fu di cui lamentarsi, anzi, sembrava volesse contribuire.

Propuse anche di pagare le utenze: acqua, luce, gas, ma io rifiutai, temendo fosse unintrusione sul mio spazio.

«Pagherò solo se non ruberò il mio posto», ribatté lui, mentre io dicevo: «Sei davvero un uomo ideale, ma non è così».

Intanto inviava curriculum in tutta la capitale, partecipava a colloqui, sperando in unopportunità. Quando la sua permanenza di due settimane stava per terminare, cominciò a starnutire, il naso colava e la pelle si irritava.

Era il giorno del diciottesimo, e il suo atteggiamento divenne più irritante: mi rimproverava di indossare gli stivali in cucina, di aver comprato un detersivo che non si lava via dal bucato. Mi sentii una «rotonda di schifo», come se la casa fosse sua e io fosse lospite.

Micio, nel frattempo, continuava a ignorarlo, nascondendosi finché non se ne andava.

Allora arrivò la chiamata: «Giorgio, ti hanno assunto!», mi dissero. Fu la diciottesima notte di ospitalità, e io cominciai a contare i giorni, mentre lui mi stancava sempre di più.

Il lavoro era buono, ben pagato in euro, ma lui non ne parlò. Decisi di affrontarlo: «Ti sei stancato di noi, caro?».

Lui doveva fare un visita medica il giorno seguente. Il giorno dopo, tornando dal lavoro, trovai la tavola imbandita per una cena daddio.

«Un addio? Grazie a Dio», pensai, sperando di non dover parlare di più.

Giorgio si versò del vino e cominciò a parlare. Improvvisamente, annunciò che voleva chiedermi la mano!

«Credo potremmo fare una bella coppia, nonostante il legame di sangue. A questa età il matrimonio va pensato con serietà, abbiamo casa, lavoro, rispetto reciproco!»

Io rimasi senza parole, mentre Micio, dal sotto il letto, uscì con fare indifferente.

«Hai un gatto?», chiedette, sorpreso.

«Sì», risposi, confusa.

«È la prima volta che lo vedo! Ah, ah, ho allergia ai peli di gatto! Oggi al medico mi hanno diagnosticato lallergia!»

«Hai notato il lettino per il gatto? Non ti accorgi di nulla!»

«Devo curare la causa, non i sintomi», spiegò il dottore. «Non posso convivere con un gatto».

«Chi ti obbliga? Non viviamo più insieme, è un matrimonio?», chiesi.

«È nostro! Il gatto è un ostacolo!»

«Mi vuoi far uccidere il gatto?», screditai.

«Posso pagare per farlo», propose.

«Allora lo farò io!», risposi, dopo un attimo di silenzio. «Via da qui, e basta!».

Giorgio bevve il suo vino, si alzò e, allontanandosi, mi lanciò: «Non pensavo fossi così primitiva».

«Addio», risposi sollevata.

Quando se ne andò, il nuovo casseruolo sparì dalla cucina, ma il tappeto nuovo rimase, forse troppo pesante per essere portato via.

La madre mi chiamò: «Come hai potuto cacciarlo? Anche il cugino si è lamentato».

«Voleva sposarmi! Se sei così buona, sposati tu stessa! Io lo trovo disgustoso!» chiusi. Nessuno richiamò, il tema era chiuso.

Forse, un giorno, qualche parente avrà unallergia verso di me, come successe a un marito che soffriva di allergia alle forfora della moglie. La storia insegna che certi abbinamenti non finiscono mai bene.

E tu, mamma, la prossima volta che vuoi aiutare, ospita i parenti a casa tua: chi semina, raccoglie. Io e Micio, almeno, siamo sopravvissuti.

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