«Non osare toccare le cose di mia madre», disse mio marito «Questi vestiti sono proprietà di mia madre. Perché li hai messi via?», mi chiese mio marito con una voce che sembrava quella di uno sconosciuto. «Vanno buttati. A che ci servono, Marco? Occupano metà dell’armadio, e io ho bisogno di spazio per mettere le coperte invernali e i cuscini di ricambio. In casa nostra ormai è tutto un disordine». Con aria pratica, Olga stava continuando a togliere dalle grucce le modeste magliette, gonne e vestitini leggeri della sua defunta suocera, la signora Valentina. Quest’ultima aveva sempre sistemato in modo accurato tutti i suoi abiti, per mantenerli ordinati, e questa abitudine l’aveva trasmessa anche al figlio. Nei cassetti di Olga, invece, regnava il caos: ogni mattina si immergeva fra le pile di indumenti a cercare una maglia o una camicetta, si lamentava di non avere mai niente da mettere e poi si affaccendava a stirare con il ferro a vapore le maglie stropicciate, che sembravano uscite dalla bocca di una mucca. Era passato solo un mese da quando Marco aveva accompagnato la madre al suo ultimo viaggio. Valentina aveva bisogno di cure — ormai, purtroppo, senza speranza — e di riposo. Il cancro al quarto stadio avanzava veloce. Marco l’aveva portata a casa sua. Si era spenta in soli trenta giorni. Ora, rientrando dal lavoro, si era ritrovato davanti i suoi vestiti buttati alla rinfusa, come fossero spazzatura, proprio al centro del corridoio. Rimase impietrito. Possibile che fosse tutto lì? Era forse quello il rispetto per sua mamma? Buttar via tutto — e subito dimenticare? «Perché mi guardi come Garibaldi davanti ai Borboni?», sbottò Olga. «Non toccare queste cose», sibilò Marco tra i denti. Il sangue gli salì alla testa così forte da fargli perdere la sensibilità nelle mani e nei piedi. «Ma che ci facciamo con questa roba vecchia?», ringhiò Olga, iniziando a perdere la pazienza. «Vuoi forse fare un museo in casa nostra? Tua madre non c’è più, accettalo! Avresti dovuto preoccupartene di più quando era viva, magari andarla a trovare più spesso: allora forse sapresti quanto stava male!» Marco fu colpito da quelle parole come con una frusta. «Vai via, prima che faccia qualcosa di cui potrei pentirmi», sussurrò tra i singhiozzi. Olga sbuffò: «Prego. Psicotico…» Per Olga diventava “psicotico” chiunque osasse avere un’opinione diversa dalla sua. Marco, senza togliersi nemmeno le scarpe, andò al grande armadio in corridoio, aprì gli sportelli più in alto, prese uno dei vecchi borsoni a quadretti che avevano usato per il trasloco. Ci mise con cura tutte le cose della madre, piegandole con attenzione, non ammassandole a caso. Sopra ci mise il giaccone e la busta con le sue scarpe. Accanto a lui c’era il più piccolo dei figli, che lo aiutava provando addirittura a infilare nella borsa il suo trattorino giocattolo. Alla fine Marco cercò una chiave nel cassetto dell’ingresso e se la mise in tasca. «Papà, dove vai?» Marco fece un sorriso amaro, con la mano già sulla porta. «Torno presto, tesoro, vai dalla mamma.» «Aspetta!», si allarmò Olga, comparendo sulla soglia del soggiorno. «Te ne vai? Dove? E la cena?» «Grazie, sono sazio… dal tuo atteggiamento verso mia madre.» «Ma dai, su, ti sei agitato per nulla! Smettila. Dove mai vuoi andare a quest’ora?» Senza voltarsi, Marco uscì portando con sé la borsa. Si mise al volante, uscì dal cortile e si diresse verso la tangenziale, la Barriera di Milano. Sfrecciava tra le auto, pensando a tutto fuorché alla strada: il lavoro, le ferie estive, i post divertenti sui social — tutto si riduceva a dettagli insignificanti. L’unico pensiero fisso era sua madre, la sua famiglia: figli, moglie… e mamma. E si sentiva in colpa. Non era stato abbastanza presente, non aveva visto in tempo quanto lei stesse male, sempre preso da mille impegni. Sua madre non voleva disturbare, lui rimandava sempre una visita, una telefonata, una parola in più. Dopo circa un’ora, si fermò alla solita trattoria di provincia per uno spuntino veloce, e per le successive tre ore guidò senza fermarsi. Notò solo una volta il tramonto: il cielo grigio squarciato all’improvviso dalla luce rossa che sembrava aggrapparsi disperatamente all’orizzonte. Arrivò ormai al buio al paesino dove era cresciuto. Cercò fra le vie sterrate fino alla vecchia casa della madre, quella dove aveva trascorso infanzia e adolescenza. Nell’oscurità si intravvedevano a malapena i dettagli. Aprì il cancelletto, illuminando la serratura con il cellulare. Cinque chiamate perse dalla moglie. No, quella sera non avrebbe chiamato nessuno. Lasciò il telefono su silenzioso. Il profumo dolciastro della robinia in fiore ammaliava le farfalle notturne; i fiori bianchi spiccavano nel buio. Nelle finestre, l’ombra sfocata del cielo. Marco prese le chiavi, aprì la porta ed entrò, trovando subito l’interruttore per accendere la lampadina impolverata. Vicino all’ingresso c’erano le ciabatte da casa che la madre calzava per girare in cortile. Accanto all’altra porta, quella delle camere, le sue pantofole blu, consunte, con due coniglietti rossi ricamati sui davanti. Un regalo di Marco di otto anni prima. Si fermò, le fissò a lungo, scosse la testa, poi avanzò. “Ciao mamma, mi aspettavi?” No, in quella casa non lo attendeva più nessuno. L’odore era quello del legno, dei mobili vecchi, di un po’ di umidità. Quella casa richiedeva sempre di essere scaldata un po’, altrimenti prendeva umido e muffa. Sul comò, la spazzola, il piccolo set di trucchi e sulla gruccia un sacchetto trasparente con la scritta “prezzo basso”, pieno di pasta da supermercato. In salotto, l’unico mobile nuovo era il divano, che Marco aveva regalato proprio a lei insieme al televisore. Il frigo, rimasto aperto in cucina, sembrava gridare che ormai lì non viveva più nessuno. La stanza di mamma, proprio di fronte: il letto con la piramide di cuscini e la copertina bianca. Marco si sedette piano. Quella, un tempo, era stata la sua camera, prima che i genitori si trasferissero nella più grande. C’era anche la seconda branda vicino al muro per il fratellino, e uno scrittoio davanti alla finestra. Ora lì c’era la macchina da cucire: la mamma adorava cucire e ricamare. Il secondo letto era stato sostituito da una cassettiera con le sue cose. Marco restò seduto, in silenzio, spaesato davanti a quella cassettiera, come se ci fosse il fantasma della madre. Si accasciò, la testa fra le mani, e si piegò in due singhiozzando sulla coperta candida. Piangeva per non esserle riuscito a dire niente quando lei, nell’ultimo giorno, gli aveva stretto la mano. Era rimasto muto come una statua, incapace di trovare le parole giuste mentre la vedeva spegnersi. Migliaia di pensieri non detti gli stringevano la gola. Lei sussurrò: «Non guardarmi così, Marco… Con voi sono stata felice». E lui avrebbe voluto! Avrebbe voluto ringraziarla per l’infanzia serena, per l’amore, i sacrifici, il tepore della famiglia, quella sensazione di essere al sicuro, il porto dove tornare sempre, qualsiasi errore avesse commesso. Ma era rimasto di pietra, incapace di esprimersi. Le parole del cuore gli apparivano sempre troppo solenni, troppo vecchie, da risultare ridicole. Questo tempo nostro ha dimenticato come si parla davvero di sentimenti, ma è bravissimo nella diffidenza e nel cinismo. Spense la luce e si addormentò vestito, cercando di non sgualcire il letto sistemato con ordine. Si trovò una coperta calda, si coprì e sprofondò nel sonno. Nemmeno lui si aspettava che avrebbe dormito così bene. Al risveglio, alle sette, come sempre, uscì a prendere la borsa dalla macchina. Davanti alla casa il filare di betulle, già verdi, sembrava una fila di damigelle di primavera: i primi raggi di sole si irrobustivano tra i loro rami. Marco si fermò a respirare quell’aria pulita, ascoltare il canto degli uccelli. Che fortunato era stato, a crescere fuori città! Si stiracchiò, tornò in casa e sistemò le cose della madre nell’armadio, curando ogni piega, ogni gruccia. I suoi sandali e le scarpe vennero allineati in basso. Quando tutto fu pronto, fece un passo indietro, come a valutare se la mamma avrebbe approvato. Sembrava di rivederla sorridere, con quella tenerezza silenziosa che sapeva trasmettere amore con gli occhi. Marco abbracciò i vestiti, inspirò quel profumo familiare, rimase fermo senza sapere che fare. Poi, finalmente, riprese il telefono. «Buongiorno, dottor Contini. Oggi non riesco a venire in ufficio. È una questione familiare urgente. Se la cavate senza di me? Grazie.» E alla moglie scrisse: «Scusami, sono stato brusco. Torno stasera. Ti bacio». Nel giardino sbocciavano i fiori. I narcisi erano già in piena fioritura, i tulipani solo all’inizio e, in fondo alle siepi di ribes, raccolse anche qualche mughetto. Ne fece tre mazzetti, uno per ciascuno di coloro che lo attendevano al cimitero: il fratello, il padre, la madre. Passando davanti al solito negozietto, si ricordò di non aver ancora mangiato nulla. Entrò, comprò latte e una rosetta, prese pure una tavoletta di cioccolato. «Ehi, Marco! Di nuovo qui?», si stupì la signora Iride, la negoziante. «Eh, sì… Sono venuto a trovare la mamma», disse Marco, abbassando lo sguardo. «Capisco. Vuoi della ricotta fresca? La prendo da un produttore bravissimo. Tua madre la sceglieva sempre.» La guardò, quasi infastidito, ma poi si arrese: «Va bene, mi dia anche quella. E lei, tutto a posto, signora Iride?» «Eh… meglio non chiedere», fece lei con un gesto. Da anni era amica della mamma. «Il mio, di figlio, ormai è un disastro, sempre a bere.» Marco fece colazione direttamente al cimitero, davanti alle tre tombe. I fiori erano ultimi omaggi: narcisi, mughetti e tulipani, uno per ciascuno. Fratello, padre, madre. Il fratello era mancato giovane: un incidente mentre cambiava le tegole del tetto. Poi morì il padre, cinque anni prima. E ora la madre. Marco pose su ciascuna lapide un pezzetto di cioccolato, e sulla tomba della mamma anche un po’ di ricotta. Loro sembravano sorridergli dalle foto incise sul marmo. Marco intratteneva con loro una conversazione muta. Ritrovava nella memoria gli scherzi da bambini con il fratello, le prime uscite col padre per pescare il luccio all’alba, e la mamma… ah, la mamma! Quando chiamava forte dal cortile: «Markus! È pronto!» e lui si vergognava davanti agli amici di sentire la voce rimbombare per tutto il borgo. Come darebbe ora perché lo chiamasse di nuovo così. Marco si alzò e sfiorò la croce provvisoria sulla tomba della madre. La terra era ancora fresca e nera sotto il sole. «Mamma, perdonami… Non sono riuscito a starti davvero vicino. Eravamo indipendenti, eppure senza di te è così vuoto. Quanto avrei da dirti oggi, e a te anche, papà. Siete stati i genitori migliori, vi sono grato… Com’è che ci riuscivate, Maria? E noi, invece, pensiamo solo a noi stessi. Io, io, a me, voglio, il mio… Grazie di tutto. E anche a te, Ale, grazie.» Era ora di ripartire. Marco se ne andava lungo la strada di campagna, strappando i fili d’erba e mordicchiandone la parte tenera. Al primo incrocio incontrò il vecchio amico Sergio, il figlio della negoziante. Era già ubriaco, trascinato dagli eventi. «Oh, Marco! Sempre qui?», biascicò Sergio. «Sì, sono stato un po’ dai miei. E tu sempre a bere, eh?» «Quando mai no?! Oggi poi è festa», balbettò tirando fuori dal pantalone un calendario a strappo in cui era segnato il giorno precedente. Lo girò e trionfante lesse: «La giornata mondiale delle tartarughe!» Marco fece una smorfia: «Capito, Sergio. Ma ricordati di tua madre. È una brava persona. E non durerà per sempre. Ricordatelo.» E proseguì lasciandolo lì, mentre quello, solo dopo un attimo di silenzio, gli gridò dietro: «D’accordo… Stammi bene, Marco!» «Ciao, Sergio», rispose Marco senza voltarsi.

«Non osare toccare le cose di mia madre», disse il marito.

Questi vestiti sono proprietà di mia madre. Perché li hai raccolti? La domanda di Marco vibrava di una strana, fredda durezza.

Vanno buttati. Perché tenerli, Marco? Tengono occupato metà dellarmadio e mi serve spazio: voglio metterci le coperte invernali e i cuscini di ricambio. In casa è tutto sparso, non se ne può più.

Giulia, con sguardo pratico, continuava a sfilare dagli appendiabiti le sobrie camicette, gonne e gli abiti leggeri della compianta suocera, Maria Antonietta Bellini. Maria Antonietta era precisa: quasi ogni vestito era steso e ben ordinato; anche suo figlio era cresciuto con questa abitudine. Al contrario, gli armadi di Giulia sembravano zone di guerra: tutte le mattine lei sprofondava tra i piani, cercando quella maglia che proprio non trovava, sbuffando perché non aveva nulla da mettere, stropicciando e stirando frettolosamente abiti che parevano passati sotto a uno schiacciasassi.

Era passato solo un mese da quando Marco aveva accompagnato sua madre nel suo ultimo viaggio. Maria Antonietta aveva bisogno di cure ormai lo sapevano tutti, non cera più speranza e di pace. Il tumore correva troppo veloce. Marco laveva portata a casa da lui. Se nera andata in poco più di trenta giorni. E oggi, tornando dopo una lunga giornata di lavoro, si trovò i suoi vestiti buttati nel mezzo del corridoio, come fossero spazzatura, e si immobilizzò. Tutto qui? Così si chiude quel capitolo? Si getta via e si dimentica?

Cosa mi guardi? Sembri Mazzini davanti ai monarchici si scansò Giulia.

Non azzardarti a toccare quelle cose, sibilò Marco tra i denti. Sentiva il sangue martellare forte, le mani e le gambe per un istante persero sensibilità.

E che ci facciamo con quella roba vecchia? ringhiò Giulia, sullorlo di una crisi, Vuoi trasformare casa in un museo della memoria? Tua madre non cè più, accettalo! Fossi stato più presente quando viveva forse ti saresti accorto che non stava bene!

Quelle parole colpirono Marco come una frustata.

Esci, prima che perda la testa, riuscì a mormorare, scosso.

Giulia alzò le spalle:
Va bene, va bene! Sempre tutti pazzi, qua!

Era il suo modo di liquidare chiunque la contraddicesse.

Con ancora le scarpe ai piedi, Marco si avvicinò allarmadio nel corridoio, spalancò gli sportelli in alto e, salendo su uno sgabello, tirò giù una delle grandi borse a quadri usate allultimo trasloco: ne avevano almeno sei. Rimise dentro tutto di sua madre, con mani attente: piegava ogni camicetta in precisi rettangoli. Per ultima, la giacca di Maria Antonietta e un sacchetto con le sue scarpe. Vicino a lui gironzolava il figlio minore, Tommaso, tre anni appena, che aiutava il papà e vi infilò anche il suo trattore giocattolo. Poi Marco cercò un mazzo di chiavi e se lo mise in tasca.

Papà, dove vai?

Marco gli sorrise amaramente, la mano già sulla porta.

Torno presto, piccolo, vai da mamma intanto.

Aspetta! Giulia comparve sulla soglia del salotto, preoccupata Vai via? Dove? E la cena?

Grazie, sono già sazio. Sazio del tuo rispetto verso mia madre.

Ma smettila! Ti arrabbi per niente! Lascia stare la giacca, dove vai a questora?

Senza voltarsi, Marco uscì stringendo la borsa. Accese la macchina e imboccò la statale per il raccordo di Milano. Guidava tra il rumore delle automobili, senza pensare. Tutto il resto ormai era sullo sfondo i progetti di lavoro, le ferie estive sognate, le pagine ironiche su Instagram che tanto adorava per rilassarsi. Un solo pensiero, lento e durissimo, gli mangiava dentro: tutto si anneriva e bruciava nella memoria, lasciando solo ciò che valeva: i figli, la moglie… e la mamma. Si imputava la sua morte non laveva seguita a dovere, sempre di fretta, sempre altro da fare. E lei, per non pesare, non chiedeva mai aiuto, non voleva disturbare, e lui rimandava sempre una visita, una telefonata, una parola.

Dopo mezzora si fermò in un autogrill, trangugiò qualcosa al volo, e riprese la corsa per tre ore, senza fermarsi. Una volta sbirciò il tramonto: il cielo, da grigio, si lacerò a ovest in rossi squarci sembrava che il sole si aggrappasse disperatamente allorizzonte. Con loscurità arrivò finalmente a Suzzara, il paese di famiglia. Girò alcune stradine sterrate fino alla casa antica di sua madre, la casa dovera cresciuto.

Nel buio, niente. Marco armeggiò al cancelletto con la luce del telefono. Cinque chiamate perse da Giulia. No, stasera non avrebbe parlato con nessuno. Lasciò il cellulare in modalità silenziosa. Laria profumava di sambuco e richiamava falene notturne, i fiori brillavano pallidi. Nei vetri delle finestre si rifletteva confuso il cielo senza luna. Marco trovò la chiave, aprì la prima porta, cercò linterruttore e accese la vecchia lampadina dellingresso.

Vicino alluscio riposavano le ciabatte che Maria Antonietta usava per andare in giardino; accanto alla seconda porta, che portava alle stanze, un paio di pantofole blu, lise, con due coniglietti rossi un regalo che lui le aveva portato anni prima. Rimase fermo, fissandole, poi scosse la testa e inserì un’altra chiave.

Ciao mamma, mi aspettavi?

No, in quella casa ormai nessuno lo aspettava più.

Lodore di vecchi mobili e un velo di umidità, come se uscisse dalla cantina. La casa senza riscaldamento si impregnava subito di muffa. Sul comò, una spazzola e il solito rossetto, accanto a una busta di pasta a buon mercato, strategica scorta della mamma. In soggiorno un divano nuovo glielo aveva regalato lui, insieme alla TV. La porta del frigo in cucina rimasta appena socchiusa: la prova che nessuno viveva più là. E la stanzetta della mamma: letto con una montagna di cuscini, coperta tirata. Marco si sedette sul bordo.

Quella era la stanza che un tempo era la sua. I genitori dormivano di là, nella camera grande, con il fratello che aveva il suo lettino sotto la finestra. Ora in angolo cera la macchina da cucire, passione di Maria Antonietta. Laltro letto era stato sostituito da un vecchio armadio dove ora giacevano le sue cose più care.

Marco rimase nel silenzio assoluto, a fissare quellarmadio come fosse un fantasma. Perse lo sguardo, si prese la testa tra le mani, si piegò sulle ginocchia. Le spalle cominciarono a tremare: si lasciò cadere sulla coperta di lana bianca e pianse.

Pianse per tutto ciò che non aveva fatto in tempo a dirle, per come nellultimo giorno la madre gli aveva stretto la mano e lui, lì accanto muto come una statua, incapace di articolare una parola. Lei gli aveva sussurrato: «Non guardarmi così, Marco Sono stata felice con voi». E lui invece voleva tanto ringraziarla di cuore per linfanzia felice, per lamore, per la casa calda; per quel semplice grazie che mai era arrivato, per lisola sicura dove tornare, per la certezza di essere accolto comunque. Ma di quelle parole non ne usciva nessuna. Tutto gli suonava fuori luogo, pomposo, impacciato. La nostra epoca, pensava Marco, non ha trovato un linguaggio nuovo per la gratitudine, ma è bravissima con cinismo e sarcasmo.

Spense la luce, si sdraiò vestito di traverso per non sgualcire il copriletto. Si rintanò in un plaid trovato su una sedia. Si addormentò profondamente, senza aspettarselo. Come sempre, alle sette era già sveglio: miracoli del corpo umano, si disse, che alle sette si rialza comunque ci si infili a letto.

Uscì a prendere la borsa dalla macchina. I pioppi e i tigli oltre la staccionata erano schierati come damigelle di primavera; sulle fronde si posava il sole. Marco restò qualche minuto sulla soglia: il canto degli uccelli e il profumo dellaria erano un privilegio. Si sentì fortunato di essere cresciuto in un paese, non in mezzo al cemento. Si stiracchiò poi tornò dentro, portando la borsa di sopra.

Uno a uno, tirar fuori gli abiti della madre, piegarli, disporli. Appenderli, come diceva lei, sulle grucce. Scarpe in basso. Quando tutto fu pronto si spostò, osservò se fosse abbastanza ordinato. Continuava a vedere davanti a sé la sua mamma in quei vestiti, sorridente e piena damore. Accarezzò le camicie e i vestiti, poi li abbracciò tutti insieme, inspirandone il profumo, e rimase lì a fissarli nel vuoto. Non sapeva che farci. Alla fine tornò al presente e tirò fuori il cellulare.

Pronto, dottor Rinaldi. Oggi non posso venire. È una questione familiare. Ce la fate senza di me, vero? Grazie mille.

E a Giulia mandò un messaggio: «Scusa se mi sono alterato. Torno stasera. Un bacio».

Nei vialetti del giardino i fiori erano in festa. I narcisi già fiorivano, i tulipani stavano per aprirsi; Marco raccolse un po di tutto, anche mughetti dal fondo dellorto un bouquet particolare. Decise di dividerlo in tre mazzetti: al cimitero lo aspettavano in tre. Prima di andare, si ricordò di non aver ancora mangiato nulla: al negozietto comprò latte, una michetta, anche una tavoletta di cioccolato.

Oh, Marco! Di nuovo qui? sbalordì la signora Carla, la tabaccaia.

Sì Sono venuto a trovare la mamma, Marco abbassò gli occhi.

Capisco. Vuoi della ricotta fresca? Lha sempre presa tua madre.

La guardò. Scherzava? No, era fatta così, semplice.

No, grazie. Anzi sì Prendo anche quella. E tu, zia Carla, tutto bene?

Eh non chiedere. Mio Paolo è sempre più perso, beve e basta.

Marco fece colazione davanti alle tombe: una fila di fiori narcisi, mughetti, tulipani. Il fratello, il padre, e la madre. Il fratello era morto per una disgraziata caduta dal tetto, solo ventanni. Cinque anni dopo era morto il padre. Ora anche Maria Antonietta. Lasciò un pezzo di cioccolato per ciascuno, e alla madre anche un po di ricotta. Sorridevano nelle fotografie sulle lapidi. Marco riviveva aneddoti con il fratello, le levatacce allalba a pesca col padre, labilità da cowboy con lamo. E la mamma! Quando urlava da casa: «Marcooo! Vieni che si mangia!», e lui si vergognava davanti agli amici. Ah, se lo facesse ora, quel richiamo.

Si alzò, accarezzò la croce sulla tomba della madre, terreno ancora fresco, una piccola collina scura con la luce che la colpiva.

«Mamma, perdonami Non ti sono stato abbastanza vicino. Siamo cresciuti e ognuno per la sua strada, eppure senza di te è tutto vuoto. Avrei così tanto da raccontarti, e anche a te, papà. Siete stati genitori magnifici. Comera possibile? Noi, io e Giulia, siamo egoisti. Io voglio, io ho bisogno Grazie, grazie per tutto. E a te, Lorenzo, fratellone mio, grazie anche a te».

Era ora di andare. Marco attraversava la campagna assaporando steli derba novella. Nella prima via del paese incrociò Paolo, il figlio di Carla, già ubriaco alle nove del mattino, disfatto.

Oh, Marco! Ancora qui? biascicò Paolo.

Sì un saluto ai miei. E tu, ancora a bere?

Eh, in festa oggi.

Che festa sarebbe?

Paolo tirò fuori di tasca un vecchio calendario strappato, controllò.

La Giornata mondiale delle tartarughe! Come no! annunciò soddisfatto.

Già sorrise amaramente Marco Senti Paolo, tieniti stretta tua mamma. È una donna doro. Ma non è eterna. Ricordalo.

E si allontanò, lasciando lex amico imbambolato. Quello borbottò:

Va bene, Marco Stammi bene.

Sì, addio rispose Marco, senza voltarsi.

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«Non osare toccare le cose di mia madre», disse mio marito «Questi vestiti sono proprietà di mia madre. Perché li hai messi via?», mi chiese mio marito con una voce che sembrava quella di uno sconosciuto. «Vanno buttati. A che ci servono, Marco? Occupano metà dell’armadio, e io ho bisogno di spazio per mettere le coperte invernali e i cuscini di ricambio. In casa nostra ormai è tutto un disordine». Con aria pratica, Olga stava continuando a togliere dalle grucce le modeste magliette, gonne e vestitini leggeri della sua defunta suocera, la signora Valentina. Quest’ultima aveva sempre sistemato in modo accurato tutti i suoi abiti, per mantenerli ordinati, e questa abitudine l’aveva trasmessa anche al figlio. Nei cassetti di Olga, invece, regnava il caos: ogni mattina si immergeva fra le pile di indumenti a cercare una maglia o una camicetta, si lamentava di non avere mai niente da mettere e poi si affaccendava a stirare con il ferro a vapore le maglie stropicciate, che sembravano uscite dalla bocca di una mucca. Era passato solo un mese da quando Marco aveva accompagnato la madre al suo ultimo viaggio. Valentina aveva bisogno di cure — ormai, purtroppo, senza speranza — e di riposo. Il cancro al quarto stadio avanzava veloce. Marco l’aveva portata a casa sua. Si era spenta in soli trenta giorni. Ora, rientrando dal lavoro, si era ritrovato davanti i suoi vestiti buttati alla rinfusa, come fossero spazzatura, proprio al centro del corridoio. Rimase impietrito. Possibile che fosse tutto lì? Era forse quello il rispetto per sua mamma? Buttar via tutto — e subito dimenticare? «Perché mi guardi come Garibaldi davanti ai Borboni?», sbottò Olga. «Non toccare queste cose», sibilò Marco tra i denti. Il sangue gli salì alla testa così forte da fargli perdere la sensibilità nelle mani e nei piedi. «Ma che ci facciamo con questa roba vecchia?», ringhiò Olga, iniziando a perdere la pazienza. «Vuoi forse fare un museo in casa nostra? Tua madre non c’è più, accettalo! Avresti dovuto preoccupartene di più quando era viva, magari andarla a trovare più spesso: allora forse sapresti quanto stava male!» Marco fu colpito da quelle parole come con una frusta. «Vai via, prima che faccia qualcosa di cui potrei pentirmi», sussurrò tra i singhiozzi. Olga sbuffò: «Prego. Psicotico…» Per Olga diventava “psicotico” chiunque osasse avere un’opinione diversa dalla sua. Marco, senza togliersi nemmeno le scarpe, andò al grande armadio in corridoio, aprì gli sportelli più in alto, prese uno dei vecchi borsoni a quadretti che avevano usato per il trasloco. Ci mise con cura tutte le cose della madre, piegandole con attenzione, non ammassandole a caso. Sopra ci mise il giaccone e la busta con le sue scarpe. Accanto a lui c’era il più piccolo dei figli, che lo aiutava provando addirittura a infilare nella borsa il suo trattorino giocattolo. Alla fine Marco cercò una chiave nel cassetto dell’ingresso e se la mise in tasca. «Papà, dove vai?» Marco fece un sorriso amaro, con la mano già sulla porta. «Torno presto, tesoro, vai dalla mamma.» «Aspetta!», si allarmò Olga, comparendo sulla soglia del soggiorno. «Te ne vai? Dove? E la cena?» «Grazie, sono sazio… dal tuo atteggiamento verso mia madre.» «Ma dai, su, ti sei agitato per nulla! Smettila. Dove mai vuoi andare a quest’ora?» Senza voltarsi, Marco uscì portando con sé la borsa. Si mise al volante, uscì dal cortile e si diresse verso la tangenziale, la Barriera di Milano. Sfrecciava tra le auto, pensando a tutto fuorché alla strada: il lavoro, le ferie estive, i post divertenti sui social — tutto si riduceva a dettagli insignificanti. L’unico pensiero fisso era sua madre, la sua famiglia: figli, moglie… e mamma. E si sentiva in colpa. Non era stato abbastanza presente, non aveva visto in tempo quanto lei stesse male, sempre preso da mille impegni. Sua madre non voleva disturbare, lui rimandava sempre una visita, una telefonata, una parola in più. Dopo circa un’ora, si fermò alla solita trattoria di provincia per uno spuntino veloce, e per le successive tre ore guidò senza fermarsi. Notò solo una volta il tramonto: il cielo grigio squarciato all’improvviso dalla luce rossa che sembrava aggrapparsi disperatamente all’orizzonte. Arrivò ormai al buio al paesino dove era cresciuto. Cercò fra le vie sterrate fino alla vecchia casa della madre, quella dove aveva trascorso infanzia e adolescenza. Nell’oscurità si intravvedevano a malapena i dettagli. Aprì il cancelletto, illuminando la serratura con il cellulare. Cinque chiamate perse dalla moglie. No, quella sera non avrebbe chiamato nessuno. Lasciò il telefono su silenzioso. Il profumo dolciastro della robinia in fiore ammaliava le farfalle notturne; i fiori bianchi spiccavano nel buio. Nelle finestre, l’ombra sfocata del cielo. Marco prese le chiavi, aprì la porta ed entrò, trovando subito l’interruttore per accendere la lampadina impolverata. Vicino all’ingresso c’erano le ciabatte da casa che la madre calzava per girare in cortile. Accanto all’altra porta, quella delle camere, le sue pantofole blu, consunte, con due coniglietti rossi ricamati sui davanti. Un regalo di Marco di otto anni prima. Si fermò, le fissò a lungo, scosse la testa, poi avanzò. “Ciao mamma, mi aspettavi?” No, in quella casa non lo attendeva più nessuno. L’odore era quello del legno, dei mobili vecchi, di un po’ di umidità. Quella casa richiedeva sempre di essere scaldata un po’, altrimenti prendeva umido e muffa. Sul comò, la spazzola, il piccolo set di trucchi e sulla gruccia un sacchetto trasparente con la scritta “prezzo basso”, pieno di pasta da supermercato. In salotto, l’unico mobile nuovo era il divano, che Marco aveva regalato proprio a lei insieme al televisore. Il frigo, rimasto aperto in cucina, sembrava gridare che ormai lì non viveva più nessuno. La stanza di mamma, proprio di fronte: il letto con la piramide di cuscini e la copertina bianca. Marco si sedette piano. Quella, un tempo, era stata la sua camera, prima che i genitori si trasferissero nella più grande. C’era anche la seconda branda vicino al muro per il fratellino, e uno scrittoio davanti alla finestra. Ora lì c’era la macchina da cucire: la mamma adorava cucire e ricamare. Il secondo letto era stato sostituito da una cassettiera con le sue cose. Marco restò seduto, in silenzio, spaesato davanti a quella cassettiera, come se ci fosse il fantasma della madre. Si accasciò, la testa fra le mani, e si piegò in due singhiozzando sulla coperta candida. Piangeva per non esserle riuscito a dire niente quando lei, nell’ultimo giorno, gli aveva stretto la mano. Era rimasto muto come una statua, incapace di trovare le parole giuste mentre la vedeva spegnersi. Migliaia di pensieri non detti gli stringevano la gola. Lei sussurrò: «Non guardarmi così, Marco… Con voi sono stata felice». E lui avrebbe voluto! Avrebbe voluto ringraziarla per l’infanzia serena, per l’amore, i sacrifici, il tepore della famiglia, quella sensazione di essere al sicuro, il porto dove tornare sempre, qualsiasi errore avesse commesso. Ma era rimasto di pietra, incapace di esprimersi. Le parole del cuore gli apparivano sempre troppo solenni, troppo vecchie, da risultare ridicole. Questo tempo nostro ha dimenticato come si parla davvero di sentimenti, ma è bravissimo nella diffidenza e nel cinismo. Spense la luce e si addormentò vestito, cercando di non sgualcire il letto sistemato con ordine. Si trovò una coperta calda, si coprì e sprofondò nel sonno. Nemmeno lui si aspettava che avrebbe dormito così bene. Al risveglio, alle sette, come sempre, uscì a prendere la borsa dalla macchina. Davanti alla casa il filare di betulle, già verdi, sembrava una fila di damigelle di primavera: i primi raggi di sole si irrobustivano tra i loro rami. Marco si fermò a respirare quell’aria pulita, ascoltare il canto degli uccelli. Che fortunato era stato, a crescere fuori città! Si stiracchiò, tornò in casa e sistemò le cose della madre nell’armadio, curando ogni piega, ogni gruccia. I suoi sandali e le scarpe vennero allineati in basso. Quando tutto fu pronto, fece un passo indietro, come a valutare se la mamma avrebbe approvato. Sembrava di rivederla sorridere, con quella tenerezza silenziosa che sapeva trasmettere amore con gli occhi. Marco abbracciò i vestiti, inspirò quel profumo familiare, rimase fermo senza sapere che fare. Poi, finalmente, riprese il telefono. «Buongiorno, dottor Contini. Oggi non riesco a venire in ufficio. È una questione familiare urgente. Se la cavate senza di me? Grazie.» E alla moglie scrisse: «Scusami, sono stato brusco. Torno stasera. Ti bacio». Nel giardino sbocciavano i fiori. I narcisi erano già in piena fioritura, i tulipani solo all’inizio e, in fondo alle siepi di ribes, raccolse anche qualche mughetto. Ne fece tre mazzetti, uno per ciascuno di coloro che lo attendevano al cimitero: il fratello, il padre, la madre. Passando davanti al solito negozietto, si ricordò di non aver ancora mangiato nulla. Entrò, comprò latte e una rosetta, prese pure una tavoletta di cioccolato. «Ehi, Marco! Di nuovo qui?», si stupì la signora Iride, la negoziante. «Eh, sì… Sono venuto a trovare la mamma», disse Marco, abbassando lo sguardo. «Capisco. Vuoi della ricotta fresca? La prendo da un produttore bravissimo. Tua madre la sceglieva sempre.» La guardò, quasi infastidito, ma poi si arrese: «Va bene, mi dia anche quella. E lei, tutto a posto, signora Iride?» «Eh… meglio non chiedere», fece lei con un gesto. Da anni era amica della mamma. «Il mio, di figlio, ormai è un disastro, sempre a bere.» Marco fece colazione direttamente al cimitero, davanti alle tre tombe. I fiori erano ultimi omaggi: narcisi, mughetti e tulipani, uno per ciascuno. Fratello, padre, madre. Il fratello era mancato giovane: un incidente mentre cambiava le tegole del tetto. Poi morì il padre, cinque anni prima. E ora la madre. Marco pose su ciascuna lapide un pezzetto di cioccolato, e sulla tomba della mamma anche un po’ di ricotta. Loro sembravano sorridergli dalle foto incise sul marmo. Marco intratteneva con loro una conversazione muta. Ritrovava nella memoria gli scherzi da bambini con il fratello, le prime uscite col padre per pescare il luccio all’alba, e la mamma… ah, la mamma! Quando chiamava forte dal cortile: «Markus! È pronto!» e lui si vergognava davanti agli amici di sentire la voce rimbombare per tutto il borgo. Come darebbe ora perché lo chiamasse di nuovo così. Marco si alzò e sfiorò la croce provvisoria sulla tomba della madre. La terra era ancora fresca e nera sotto il sole. «Mamma, perdonami… Non sono riuscito a starti davvero vicino. Eravamo indipendenti, eppure senza di te è così vuoto. Quanto avrei da dirti oggi, e a te anche, papà. Siete stati i genitori migliori, vi sono grato… Com’è che ci riuscivate, Maria? E noi, invece, pensiamo solo a noi stessi. Io, io, a me, voglio, il mio… Grazie di tutto. E anche a te, Ale, grazie.» Era ora di ripartire. Marco se ne andava lungo la strada di campagna, strappando i fili d’erba e mordicchiandone la parte tenera. Al primo incrocio incontrò il vecchio amico Sergio, il figlio della negoziante. Era già ubriaco, trascinato dagli eventi. «Oh, Marco! Sempre qui?», biascicò Sergio. «Sì, sono stato un po’ dai miei. E tu sempre a bere, eh?» «Quando mai no?! Oggi poi è festa», balbettò tirando fuori dal pantalone un calendario a strappo in cui era segnato il giorno precedente. Lo girò e trionfante lesse: «La giornata mondiale delle tartarughe!» Marco fece una smorfia: «Capito, Sergio. Ma ricordati di tua madre. È una brava persona. E non durerà per sempre. Ricordatelo.» E proseguì lasciandolo lì, mentre quello, solo dopo un attimo di silenzio, gli gridò dietro: «D’accordo… Stammi bene, Marco!» «Ciao, Sergio», rispose Marco senza voltarsi.