«Non osare toccare le cose di mia madre», disse il marito.
Questi vestiti sono proprietà di mia madre. Perché li hai raccolti? La domanda di Marco vibrava di una strana, fredda durezza.
Vanno buttati. Perché tenerli, Marco? Tengono occupato metà dellarmadio e mi serve spazio: voglio metterci le coperte invernali e i cuscini di ricambio. In casa è tutto sparso, non se ne può più.
Giulia, con sguardo pratico, continuava a sfilare dagli appendiabiti le sobrie camicette, gonne e gli abiti leggeri della compianta suocera, Maria Antonietta Bellini. Maria Antonietta era precisa: quasi ogni vestito era steso e ben ordinato; anche suo figlio era cresciuto con questa abitudine. Al contrario, gli armadi di Giulia sembravano zone di guerra: tutte le mattine lei sprofondava tra i piani, cercando quella maglia che proprio non trovava, sbuffando perché non aveva nulla da mettere, stropicciando e stirando frettolosamente abiti che parevano passati sotto a uno schiacciasassi.
Era passato solo un mese da quando Marco aveva accompagnato sua madre nel suo ultimo viaggio. Maria Antonietta aveva bisogno di cure ormai lo sapevano tutti, non cera più speranza e di pace. Il tumore correva troppo veloce. Marco laveva portata a casa da lui. Se nera andata in poco più di trenta giorni. E oggi, tornando dopo una lunga giornata di lavoro, si trovò i suoi vestiti buttati nel mezzo del corridoio, come fossero spazzatura, e si immobilizzò. Tutto qui? Così si chiude quel capitolo? Si getta via e si dimentica?
Cosa mi guardi? Sembri Mazzini davanti ai monarchici si scansò Giulia.
Non azzardarti a toccare quelle cose, sibilò Marco tra i denti. Sentiva il sangue martellare forte, le mani e le gambe per un istante persero sensibilità.
E che ci facciamo con quella roba vecchia? ringhiò Giulia, sullorlo di una crisi, Vuoi trasformare casa in un museo della memoria? Tua madre non cè più, accettalo! Fossi stato più presente quando viveva forse ti saresti accorto che non stava bene!
Quelle parole colpirono Marco come una frustata.
Esci, prima che perda la testa, riuscì a mormorare, scosso.
Giulia alzò le spalle:
Va bene, va bene! Sempre tutti pazzi, qua!
Era il suo modo di liquidare chiunque la contraddicesse.
Con ancora le scarpe ai piedi, Marco si avvicinò allarmadio nel corridoio, spalancò gli sportelli in alto e, salendo su uno sgabello, tirò giù una delle grandi borse a quadri usate allultimo trasloco: ne avevano almeno sei. Rimise dentro tutto di sua madre, con mani attente: piegava ogni camicetta in precisi rettangoli. Per ultima, la giacca di Maria Antonietta e un sacchetto con le sue scarpe. Vicino a lui gironzolava il figlio minore, Tommaso, tre anni appena, che aiutava il papà e vi infilò anche il suo trattore giocattolo. Poi Marco cercò un mazzo di chiavi e se lo mise in tasca.
Papà, dove vai?
Marco gli sorrise amaramente, la mano già sulla porta.
Torno presto, piccolo, vai da mamma intanto.
Aspetta! Giulia comparve sulla soglia del salotto, preoccupata Vai via? Dove? E la cena?
Grazie, sono già sazio. Sazio del tuo rispetto verso mia madre.
Ma smettila! Ti arrabbi per niente! Lascia stare la giacca, dove vai a questora?
Senza voltarsi, Marco uscì stringendo la borsa. Accese la macchina e imboccò la statale per il raccordo di Milano. Guidava tra il rumore delle automobili, senza pensare. Tutto il resto ormai era sullo sfondo i progetti di lavoro, le ferie estive sognate, le pagine ironiche su Instagram che tanto adorava per rilassarsi. Un solo pensiero, lento e durissimo, gli mangiava dentro: tutto si anneriva e bruciava nella memoria, lasciando solo ciò che valeva: i figli, la moglie… e la mamma. Si imputava la sua morte non laveva seguita a dovere, sempre di fretta, sempre altro da fare. E lei, per non pesare, non chiedeva mai aiuto, non voleva disturbare, e lui rimandava sempre una visita, una telefonata, una parola.
Dopo mezzora si fermò in un autogrill, trangugiò qualcosa al volo, e riprese la corsa per tre ore, senza fermarsi. Una volta sbirciò il tramonto: il cielo, da grigio, si lacerò a ovest in rossi squarci sembrava che il sole si aggrappasse disperatamente allorizzonte. Con loscurità arrivò finalmente a Suzzara, il paese di famiglia. Girò alcune stradine sterrate fino alla casa antica di sua madre, la casa dovera cresciuto.
Nel buio, niente. Marco armeggiò al cancelletto con la luce del telefono. Cinque chiamate perse da Giulia. No, stasera non avrebbe parlato con nessuno. Lasciò il cellulare in modalità silenziosa. Laria profumava di sambuco e richiamava falene notturne, i fiori brillavano pallidi. Nei vetri delle finestre si rifletteva confuso il cielo senza luna. Marco trovò la chiave, aprì la prima porta, cercò linterruttore e accese la vecchia lampadina dellingresso.
Vicino alluscio riposavano le ciabatte che Maria Antonietta usava per andare in giardino; accanto alla seconda porta, che portava alle stanze, un paio di pantofole blu, lise, con due coniglietti rossi un regalo che lui le aveva portato anni prima. Rimase fermo, fissandole, poi scosse la testa e inserì un’altra chiave.
Ciao mamma, mi aspettavi?
No, in quella casa ormai nessuno lo aspettava più.
Lodore di vecchi mobili e un velo di umidità, come se uscisse dalla cantina. La casa senza riscaldamento si impregnava subito di muffa. Sul comò, una spazzola e il solito rossetto, accanto a una busta di pasta a buon mercato, strategica scorta della mamma. In soggiorno un divano nuovo glielo aveva regalato lui, insieme alla TV. La porta del frigo in cucina rimasta appena socchiusa: la prova che nessuno viveva più là. E la stanzetta della mamma: letto con una montagna di cuscini, coperta tirata. Marco si sedette sul bordo.
Quella era la stanza che un tempo era la sua. I genitori dormivano di là, nella camera grande, con il fratello che aveva il suo lettino sotto la finestra. Ora in angolo cera la macchina da cucire, passione di Maria Antonietta. Laltro letto era stato sostituito da un vecchio armadio dove ora giacevano le sue cose più care.
Marco rimase nel silenzio assoluto, a fissare quellarmadio come fosse un fantasma. Perse lo sguardo, si prese la testa tra le mani, si piegò sulle ginocchia. Le spalle cominciarono a tremare: si lasciò cadere sulla coperta di lana bianca e pianse.
Pianse per tutto ciò che non aveva fatto in tempo a dirle, per come nellultimo giorno la madre gli aveva stretto la mano e lui, lì accanto muto come una statua, incapace di articolare una parola. Lei gli aveva sussurrato: «Non guardarmi così, Marco Sono stata felice con voi». E lui invece voleva tanto ringraziarla di cuore per linfanzia felice, per lamore, per la casa calda; per quel semplice grazie che mai era arrivato, per lisola sicura dove tornare, per la certezza di essere accolto comunque. Ma di quelle parole non ne usciva nessuna. Tutto gli suonava fuori luogo, pomposo, impacciato. La nostra epoca, pensava Marco, non ha trovato un linguaggio nuovo per la gratitudine, ma è bravissima con cinismo e sarcasmo.
Spense la luce, si sdraiò vestito di traverso per non sgualcire il copriletto. Si rintanò in un plaid trovato su una sedia. Si addormentò profondamente, senza aspettarselo. Come sempre, alle sette era già sveglio: miracoli del corpo umano, si disse, che alle sette si rialza comunque ci si infili a letto.
Uscì a prendere la borsa dalla macchina. I pioppi e i tigli oltre la staccionata erano schierati come damigelle di primavera; sulle fronde si posava il sole. Marco restò qualche minuto sulla soglia: il canto degli uccelli e il profumo dellaria erano un privilegio. Si sentì fortunato di essere cresciuto in un paese, non in mezzo al cemento. Si stiracchiò poi tornò dentro, portando la borsa di sopra.
Uno a uno, tirar fuori gli abiti della madre, piegarli, disporli. Appenderli, come diceva lei, sulle grucce. Scarpe in basso. Quando tutto fu pronto si spostò, osservò se fosse abbastanza ordinato. Continuava a vedere davanti a sé la sua mamma in quei vestiti, sorridente e piena damore. Accarezzò le camicie e i vestiti, poi li abbracciò tutti insieme, inspirandone il profumo, e rimase lì a fissarli nel vuoto. Non sapeva che farci. Alla fine tornò al presente e tirò fuori il cellulare.
Pronto, dottor Rinaldi. Oggi non posso venire. È una questione familiare. Ce la fate senza di me, vero? Grazie mille.
E a Giulia mandò un messaggio: «Scusa se mi sono alterato. Torno stasera. Un bacio».
Nei vialetti del giardino i fiori erano in festa. I narcisi già fiorivano, i tulipani stavano per aprirsi; Marco raccolse un po di tutto, anche mughetti dal fondo dellorto un bouquet particolare. Decise di dividerlo in tre mazzetti: al cimitero lo aspettavano in tre. Prima di andare, si ricordò di non aver ancora mangiato nulla: al negozietto comprò latte, una michetta, anche una tavoletta di cioccolato.
Oh, Marco! Di nuovo qui? sbalordì la signora Carla, la tabaccaia.
Sì Sono venuto a trovare la mamma, Marco abbassò gli occhi.
Capisco. Vuoi della ricotta fresca? Lha sempre presa tua madre.
La guardò. Scherzava? No, era fatta così, semplice.
No, grazie. Anzi sì Prendo anche quella. E tu, zia Carla, tutto bene?
Eh non chiedere. Mio Paolo è sempre più perso, beve e basta.
Marco fece colazione davanti alle tombe: una fila di fiori narcisi, mughetti, tulipani. Il fratello, il padre, e la madre. Il fratello era morto per una disgraziata caduta dal tetto, solo ventanni. Cinque anni dopo era morto il padre. Ora anche Maria Antonietta. Lasciò un pezzo di cioccolato per ciascuno, e alla madre anche un po di ricotta. Sorridevano nelle fotografie sulle lapidi. Marco riviveva aneddoti con il fratello, le levatacce allalba a pesca col padre, labilità da cowboy con lamo. E la mamma! Quando urlava da casa: «Marcooo! Vieni che si mangia!», e lui si vergognava davanti agli amici. Ah, se lo facesse ora, quel richiamo.
Si alzò, accarezzò la croce sulla tomba della madre, terreno ancora fresco, una piccola collina scura con la luce che la colpiva.
«Mamma, perdonami Non ti sono stato abbastanza vicino. Siamo cresciuti e ognuno per la sua strada, eppure senza di te è tutto vuoto. Avrei così tanto da raccontarti, e anche a te, papà. Siete stati genitori magnifici. Comera possibile? Noi, io e Giulia, siamo egoisti. Io voglio, io ho bisogno Grazie, grazie per tutto. E a te, Lorenzo, fratellone mio, grazie anche a te».
Era ora di andare. Marco attraversava la campagna assaporando steli derba novella. Nella prima via del paese incrociò Paolo, il figlio di Carla, già ubriaco alle nove del mattino, disfatto.
Oh, Marco! Ancora qui? biascicò Paolo.
Sì un saluto ai miei. E tu, ancora a bere?
Eh, in festa oggi.
Che festa sarebbe?
Paolo tirò fuori di tasca un vecchio calendario strappato, controllò.
La Giornata mondiale delle tartarughe! Come no! annunciò soddisfatto.
Già sorrise amaramente Marco Senti Paolo, tieniti stretta tua mamma. È una donna doro. Ma non è eterna. Ricordalo.
E si allontanò, lasciando lex amico imbambolato. Quello borbottò:
Va bene, Marco Stammi bene.
Sì, addio rispose Marco, senza voltarsi.






