«Per questa sciocchezza non mi darò nemmeno il permesso di prendere giorni dal lavoro», mi disse la mamma quando la invitai al mio matrimonio.
Stavo con il cellulare incollato alla mano, convinta di stare per svegliarmi, perché nulla poteva essere così reale. Eppure non era un lampo di emozione: la mamma era davvero offesa.
Il motivo, a mio avviso, era una banalità. Lei sognava un matrimonio enorme, con almeno cento invitati, un ristorante a Roma, musicisti, fotografo, videomaker, un maitre, tre cambi di abito e una fila di parenti, amici e vicini che si accalcavano attorno a lei.
Io, al contrario, volevo soltanto che fossero vicini coloro che amavo, così io e Andrea, il mio sposo, decidemmo di celebrare in un cerchio intimo di persone care.
Mia madre ripeteva che tutta la vita aveva desiderato vedere il mio matrimonio, vedermi eseguire il primo valzer sotto gli applausi, ricevere gioielli doro dalle damigelle, e ascoltare la zia Livia raccontare comero al nido.
Ma quando scorrerei la lista degli invitati, quasi nessun nome mi era riconoscibile.
«Chi è questo zio Stefano?» chiesi.
«Ma dai, è il mio cugino di secondo grado!» sbottò la mamma. «Ti ha portata in braccio quando eri piccolissima.»
«Avevo solo sei mesi, mamma, non lo ricordo.»
«Allora perché? Lui ti ricorda!»
Iniziò a citare zie di tre generazioni, parenti lontani, amici che ti hanno visto crescere che in realtà erano i suoi amici. Io ascoltavo e pensavo: perché un matrimonio dove la metà delle persone è sconosciuta?
Io e Andrea volevamo una festa semplice, senza fronzoli, senza brindisi rumorosi né sguardi estranei. Ventidue persone, i più cari, e basta. Non avevamo nemmeno i soldi per un ristorante: stavamo ancora pagando laffitto di un appartamento e mettendo da parte il primo acconto per lipoteca.
Propusi un format familiare: una piccola sala, fiori freschi, una torta fatta in casa, musica da cassa portatile e un mare di emozioni sincere.
Andrea confermò: «Limportante siamo noi due. Il resto è secondario.»
Anche i genitori di Andrea sbuffarono allinizio, desiderosi di apparire davanti ai parenti:
«Come fai a dire no a un matrimonio? E la famiglia? E i vicini?»
Andrea rispose brevemente: «Se pagate voi tutti i costi, allora organizzate per duecento persone.»
I suoi genitori tacquero, e lui continuò: «Chi paga decide. Se pagate un gran banchetto, saranno duecento invitati. No? Allora facciamo come vogliamo.»
La sua mamma si offese, ma se ne andò in fretta.
Mia madre, invece, non provò nemmeno a capire. Quando le dissi che volevamo una cerimonia piccola, rise per nervosismo, come se fosse una presa in giro:
«Che stai inventando? La gente riderà! Un matrimonio di venti persone? Ma è cosa da pazzi!»
Cercai di spiegare che quello che contava era il nostro benessere, non lopinione altrui, ma lei non mi ascoltava più.
Scoppiò:
«Ti ho cresciuta, ti ho allevata, e ora chiedi dei soldi per i tuoi modesti desideri?»
«Mamma, non chiedo soldi! Solo di capire che vogliamo unaltra cosa.»
Dopo un attimo di silenzio, disse: «Se organizzi una tale farsa, non mi prenderò nemmeno un giorno di permesso dal lavoro.» E chiuse il telefono.
Piangevo da giorni. Non per la mancanza del grande banchetto, ma perché la mamma metteva il suo come deve essere sopra il mio come voglio. Io ero la sua unica figlia e desideravo che fosse al mio fianco quando avrei detto «sì». Ma la mamma si ostinò.
Zia Galia, la sorella della mamma, mi chiamò:
«Non ti preoccupare. Se se ne va è per orgoglio. Vuole far vedere al mondo la sua figlia sposata e tu le hai rovinato lo spettacolo.»
Rimasi in silenzio, senza parole. Avevo ormai la responsabilità di decidere per me stessa, senza che fosse un gesto di disprezzo, ma di vita adulta.
Andrea e io tenemmo ferma la nostra decisione. Il matrimonio fu fissato per sabato, in un piccolo caffè fuori Roma, con fiori, candele, un arco semplice accanto a un laghetto. Indossai un abito leggero, senza velo, delicato come un raggio di sole. Unamica mi sistemò i capelli; la mamma non venne e non chiamò nemmeno.
Il giorno del matrimonio speravo ancora che arrivasse, magari allultimo istante, per vedermi in bianco. Pubblicai foto sui social fin dal mattino, ma lei non le guardò. Durante la cerimonia cercai di non piangere; quando tutti si scambiavano abbracci, la suocera piangeva di gioia e mio padre, separato da anni dalla mamma, disse:
«Sei splendida, figlia mia, sono fiero di te», e io non lo reggii più.
Sapevo che da qualche parte la mamma sedeva, forse ignara, forse piangendo per non averla ascoltata. Dopo il ricevimento le mandai qualche foto con un breve messaggio: «Mamma, avrei voluto che fossi qui. Grazie per avermi insegnato a essere forte. Ti voglio bene, anche se non sei venuta.» Nessuna risposta.
Passò un mese, poi un altro. La mamma non ci chiamò più, né rispose alle mie chiamate. Ci trasferimmo, vivemmo tranquilli, pianificammo il futuro, ma dentro di me rimaneva un vuoto non rabbia, non risentimento, ma delusione.
Capii allora che la mamma non aveva rifiutato il matrimonio, ma me, se non avessi seguito le sue regole.
Una sera, zia Galia mi telefonò:
«Lho vista nelle foto. Ti ho mostrata. È rimasta in silenzio, poi ha detto che sei bella, ma non può vantarsi perché non è un matrimonio, è una cena.»
Il cuore si fece amaro; anche dopo tante settimane la mamma non poteva semplicemente dire: «Mi sei mancata».
Un anno dopo aspettavamo un figlio. Dubbiai se dirlo alla mamma; non mi chiamava né chiedeva, così decisi di non rompere il silenzio per prima. Quando nacque la nostra bambina, presi il suo numero e chiamai.
La voce tremò:
«Mamma è una bambina, tua nipote.»
Lei tacque, poi rispose freddamente:
«Sono contenta. Saluta Andrea.»
«Verrai a visitarci?» chiesi piano.
«Non lo so, dipende dal lavoro», rispose, e il silenzio tornò.
Chiusi il telefono, realizzando che la mamma non era cambiata.
Il mese dopo fece il battesimo. Lo organizzammo in modo intimo, con i più cari. Tenni un posto a tavola per la mamma, sperando che potesse comparire allimprovviso. Il posto rimase vuoto.
Quella sera non riuscivo a dormire. Guardavo la piccola che russava nel lettino e mi chiedevo se un giorno avrei potuto arrabbiarmi così con la mia stessa figlia da non venire al giorno più importante della sua vita. Capii di no, mai.
Passò ancora un semestre. Un giorno la mamma chiamò:
«Ciao, ho visto le foto della nipotina su Internet. È già grande e bella.»
«Sì, somiglia ad Andrea», risposi sorridendo.
«Vuoi venire a trovarci? Ho preparato dei pasticcini.»
«Io? O io e la bambina?» chiesi.
«Come vuoi», rispose, e per la prima volta la sua voce mostrò una dolcezza inattesa.
Andammo da lei. Indossava un grembiule, con i pasticcini appena sfornati, e prese subito la piccola in braccio:
«Guarda che bellezza! È tutta sua!»
Ci sedemmo al tavolo, il silenzio rotto solo dal crepitio del forno. Allora la mamma disse:
«Sai, allora ero sciocca.»
«Mamma basta», sussurrai.
«No, è necessario», interruppe. « Credevo che un grande matrimonio fosse il simbolo del mio orgoglio. Quando hai fatto a modo tuo, mi sono sentita umiliata.»
Le asciugò una lacrima e aggiunse:
«Solo ora capisco che la felicità non sta nel numero di commensali, ma in chi è seduto accanto a te.»
Io ascoltavo, il ghiaccio tra noi si scioglieva.
«Temevo che non mi perdoneresti», confessò.
«Mamma, ti ho già perdonata da tempo. Volevo solo che lo dicessi tu», risposi.
Mi abbracciò, senza mai lasciarmi andare.
Quella sera, mentre tornavamo a casa, guardai lo specchietto retrovisore. La mamma stava alla porta, con la nipotina in braccio, salutandoci con unonda. Per la prima volta, dopo tanto tempo, sembrava davvero felice.
Ora, se qualcuno mi chiede del matrimonio, rispondo:
«È stato silenzioso, ma vero.»
Perché ciò che conta non è il numero di ospiti, la musica o le foto da sfoggiare, ma la presenza di chi ti ama davvero.
La mamma ha capito, tardi, ma ha capito.
E quando mi preparo per il compleanno della bambina, lei è la prima a chiamarmi:
«Che regaliamo? Facciamo una piccola festa a casa, solo per noi?»
E io sorrido, perché ora ha imparato a gioire non a gran voce, ma con il cuore.






