Ricordo quel vecchio palazzo che mi restituì la vita.
Mi chiamo Andrea Bianchi, mi diplomai in architettura con lode e sognavo di aprire il mio studio, di disegnare progetti che avrebbero cambiato il volto di Firenze. Ma i sogni furono messa da parte. Mia madre, Maria, aveva lavorato trentanni in una fabbrica di acciaio dove laria era velenosa, e la malattia lavvolse come una nebbia. I medici, con le mani incrociate, consigliarono una cura costosa allestero, ma non avevamo nemmeno un euro da spendere.
Così trovai lavoro in un comune studio di progettazione. Disegnavo solite scatole, odiavo ogni tratto. I soldi volavano per le medicine e per lassistente che vegliava su di lei. Giorno dopo giorno, la madre si spegneva, e con lei il mio futuro sembrava svanire.
La sera, una volta terminato il disegno, mi sedevo accanto al suo letto. Con gli occhi velati mi sussurrava:
Perdona, figlio, se ti gravo ancora.
Basta, mamma. Andrà tutto bene, le rispondevo, ma guardavo fuori dalla finestra e sentivo una morsa stringersi dentro di me.
Diventai più chiuso, irritabile. Per distrarmi, tornavo a piedi dal lavoro lungo sentieri che attraversavano quartieri dimenticati di Firenze. Fu in una di quelle stradine, dietro un alto muro scrostato, che lo vidi.
Tra i rami secchi di un vecchio giardino, spuntava un palazzo. Non era semplicemente un edificio abbandonato: era il fantasma di una bellezza perduta. Intonacatura a pezzi lasciava intravedere mattoni, i davanzali intagliati erano anneriti dal tempo, ma il frontone, le grate di ferro battuto del balcone, tradivano un progetto unico, ormai dimenticato. Non era una costruzione tipica della città, ma una canzone di pietra che nessuno aveva voluto ascoltare.
Rimasi ipnotizzato. Il mio occhio da architetto iniziò subito a ricostruire proporzioni, a immaginare i dettagli scomparsi. Presi il mio taccuino, sempre al fianco, e feci qualche schizzo frettoloso, quasi febbrile, temendo che la visione svanisse.
Da quel giorno il percorso delle mie passeggiate non cambiò più. Tornai al palazzo più e più volte, fermandomi a lungo davanti a esso per disegnare nuovi schizzi. Era una follia, una fuga dalla realtà, ma lunica cosa che mi faceva sentire non più un disegnatore da ufficio, ma un vero architetto.
Una sera, incapace di resistere al richiamo, spinsi la pesante porta cigolante e entrai nel cortile. Il sentiero era invaso da erbacce e ortiche. Girai intorno alledificio in cerca di un ingresso; una porta di servizio era socchiusa, forse usata da senzatetto o ragazzi.
Il cuore mi rimbombava mentre varcavo la soglia. Dentro cera umidità, polvere e silenzio. Una luce fioca filtrava dalle finestre sbarrate, illuminando frammenti di unantica magnificenza: un pezzo di cornice intagliata, una piastrella dipinta a terra, una porta di quercia scolpita.
Accesi la torcia del cellulare e mi addentrai più in profondità. Nella grande stanza con il camino crollato, trovai una vecchia cartella sotto un mucchio di intonaco rotto. La raccattai; la copertina di cuoio era incrinata, le pagine ingiallite, ma vi erano disegni. Era il progetto originale del palazzo, la mano del suo costruttore.
Mi misi a terra, ignorando la sporcizia, e cominciai a sfogliare. Il tempo svanì. Cerano non solo schemi e calcoli, ma anche bozzetti di facciate da diverse angolazioni e persino un ritratto a matita di un giovane ingegnere in berretto, probabilmente colui che aveva infuso vita a quelle mura.
Il cellulare vibrò in tasca. Era lassistente: “Mia madre è peggiorata, dobbiamo andare in farmacia”. Un brivido mi attraversò. Con estrema cura, come se fosse un reliquiario, nascosi la cartella sotto la giacca e corsi via, sentendo un peso nuovo sul cuore: non solo la notizia tragica, ma anche la responsabilità improvvisa che mi gravava.
Quella sera, dopo averle somministrato le medicine, mi sedei al tavolo. Invece dei consueti disegni per il lavoro, dispersi davanti a me cerano gli schizzi salvati. Non progettavo più, ma quasi scavavo, indovinavo, ricostruivo. Una volta larco. Unaltra volta la finestra più alta. Un vitraletto. Disegnai fino allalba, senza sentire la stanchezza, e lanima si alleggerì più di quanto fosse accaduta in mesi. Avevo trovato non solo fogli antichi, ma me stesso.
Un giorno, vedendomi assorto al tavolo, mia madre mi chiese:
Che cosa è questo?
Un vecchio palazzo, lo sto restaurando, risposi a malincuore.
Mostramelo.
Le mostravo gli schizzi, le narravo comera e com avrebbe potuto diventare. Lei, che raramente si interessava a nulla, ascoltava con attenzione, ponendo domande. Nei suoi occhi, per un attimo, tornò la luce di un tempo.
È bellissimo, sussurrò. Molto bello. Peccato che morirà.
Quella notte la sua condizione peggiorò. Lambulanza la portò in ospedale, le pareti bianche sembravano un labirinto. Un medico, uscito dalla stanza, mi disse:
La crisi è superata, ma le sue forze sono poche. Tenetevi pronti.
Uscii dallospedale con un vuoto dentro. Il frastuono della città mi pareva estraneo e privo di senso. Camminai meccanicamente verso il mio vecchio palazzo, come un animale ferito che cerca un rifugio familiare. Appoggiai la fronte al muro ruvido e freddo e chiusi gli occhi.
Peccato che morirà, riecheggiavano le parole di mia madre nella mia mente.
No. Non potevo permettere né a lei né a quel palazzo di soccombere. Ma cosa potevo fare? Solo, senza soldi, senza contatti?
Allora mi venne unidea. Una settimana prima, curiosando tra le notizie locali, avevo letto di uniniziativa per la salvaguardia del patrimonio storico. Lautrice, la giornalista Eleonora Ricci, denunciava la demolizione di una villa antica per far spazio a un centro commerciale.
Presi il suo numero e, con le mani tremanti, chiamai.
Pronto? rispose una voce femminile giovane.
Buongiorno, Eleonora? Sono Andrea Bianchi. Sono un architetto e ho trovato un palazzo unico che rischia di scomparire. Non so a chi rivolgermi
Dopo un silenzio, mi fece una domanda calma:
Dovè? Può mostrarmelo?
Unora dopo, Eleonora era qui, con macchina fotografica e registratore. Le feci visita nel giardino invaso, le mostrò la cartella, i dettagli dellintonaco, i frammenti di decorazione. Lei ascoltava, gli occhi brillanti come quelli di un cacciatore di tesori.
È una vera drammaturgia, disse, inquadrando la colonna crollata. Bellezza abbandonata, giovane architetto che lotta da solo Posso raccontare la sua storia?
Due giorni dopo, il portale della città pubblicò un articolo intitolato: Architetto da solo salva un capolavoro: la storia di un palazzo che rischiava di svanire. Eleonora mise in luce non solo ledificio, ma anche il suo custode, un giovane talento che, tra la cura della madre malata e la difesa del patrimonio, lottava in solitudine.
Larticolo esplose sui social, commentato nei gruppi di Firenze, condiviso su WhatsApp. Il giorno successivo, un compagno di università, ora impiegato in una grande studio, mi scrisse: Andrea, è davvero la tua storia? Ho parlato con il capo, è scioccato, vuole aiutarci!
La sera, il telefono squillò da un numero sconosciuto mentre ero dallospedale.
Buongiorno, sono Arsenio Venturi, rappresentante del Fondo Patrimonio. Abbiamo letto larticolo, la sua dedizione ci ha colpito. Finanziamo interamente il restauro del palazzo sotto la sua direzione. E vogliamo aiutarla anche con la madre: abbiamo cliniche partner, anche allestero. Incontriamoci per i dettagli.
Mi trovai seduto accanto al letto di mia madre, incapace di parlare. Guardai il suo volto addormentato.
Non ero più solo. La mia lotta silenziosa era stata udita. Ora avevo tutto ciò che serviva per salvare i due tesori della mia vita: la madre e il sogno.






