La lettera che non è mai arrivata

Lettera che non è mai arrivata

Era una sera come tante altre a Bologna; linverno aveva già tinto il cielo di un blu opaco e nei cortili tra i palazzi la luce dei lampioni sembrava incerta, come se si stancasse in fretta. Appoggiato al davanzale, osservavo mia madre, la signora Gina, seduta davanti alla finestra, con i suoi occhiali sottilissimi e lantico cellulare dal vetro incrinato poggiato accanto a una tazza di tè ormai fredda. A volte quel telefono vibrava quando i messaggi della famiglia spuntavano nel gruppo, magari una foto di mio nipote Lorenzo, oppure una nota vocale della figlia, mia sorella Claudia. Ma quella sera, nemmeno un segnale.

Il tempo sembrava fermo anche dentro casa. Le lancette dellorologio scandivano i secondi come colpi di martello in una stanza che era tutta silenzio.

Mia madre si era alzata piano per andare in cucina, aveva acceso la luce fioca sopra il tavolo e sollevato il piattino che copriva i tortellini cotti nel pomeriggio, sperando forse che qualcuno passasse a trovarla. Erano diventati gommosi e tristi. Diede un piccolo morso, poi li rimise giù e si versò una tazza di tè dallantica teiera smaltata, respirando rumorosamente, come se un pensiero le si fosse seduto accanto.

Sto qui a lamentarmi, pensava fra sé e sé. Abbiamo la salute, un tetto sopra la testa, che altro dovrei volere? Eppure

Nel silenzio riemergevano frammenti di conversazioni recenti. La voce tesa di Claudia: Mamma, non ce la faccio più con lui, ha ricominciato

E il genero Maurizio, con il tono ironico di chi vuole aver ragione: Ti viene a raccontare le sue lamentele, eh? Diglielo che nella vita non tutto può andare come vuole lei.

E poi Lorenzo, il nipote, un tempo chiacchierone e sempre pronto a raccontare ogni avventura a scuola, che oggi invece rispondeva con un secco sì o va bene, come se fosse diventato improvvisamente lo sconosciuto di casa.

Non gridavano mai fra loro, non di fronte a lei, almeno. Ma quelle frasi lasciavano nellaria una barriera invisibile, una distanza che nessuno osava nominare. Piccoli silenzi, frasi lasciate a metà, dispetti accumulati in anni; lei lì in mezzo, come una barca che cerca sempre di non andare contro le correnti. E ogni tanto la paura che ci fosse una colpa sua, in qualche antico consiglio sbagliato o attenzione mancata.

Fece un altro sorso di tè e, come spesso accade, i ricordi si affollarono. Di quando, anni prima, Lorenzo aveva scritto insieme a lei la tradizionale lettera a Babbo Natale, con le lettere storte e grandi: Portami una pista di macchinine. E fai che mamma e papà smettano di litigare. Allepoca ci aveva riso sopra, aveva scompigliato i capelli del bambino e assicurato che Babbo Natale avrebbe ascoltato tutto. Ora invece sentivo nel suo respiro il rimorso, come se avesse promesso limpossibile.

Sospirò, sistemò il tavolo lasciato già pulito per abitudine e si rifugiò nello studio. Sulla scrivania, accanto a un bicchiere pieno di penne e matite, il suo taccuino a quadretti aspettava del tutto inutilizzato: il mondo dei messaggi digitali aveva preso il sopravvento. Ma quella sera, la tentazione fu irresistibile. Scrivere una lettera vera. A chi però? Non a sua figlia, non al genero, che sono presi dai conti della vita. Forse a quellentità lontana, Babbo Natale, che non deve niente a nessuno.

Sorrise piano alla stranezza di quel pensiero e tirò il blocco verso di sé. Regolò gli occhiali, trovò una pagina non scritta e cominciò: Caro Babbo Natale

Esitò un momento, come colta in fallo. Si guardò intorno, in una stanza tutta in ordine, senza nessun testimone. Allora continuò, sussurrando appena:

So che sei per i bambini e io tanto bambina non sono più. Ma non voglio un cappotto o una tv nuova. Ho tutto ciò di cui ho davvero bisogno. Chiedo solo una cosa: per favore, porta un po di pace nella nostra famiglia.

Fai che mia figlia e mio genero smettano di litigare, che mio nipote non sia più chiuso come uno sconosciuto. Che possiamo sederci a tavola insieme senza paura che una parola sbagliata rovini tutto. Lo so che non dipende da te, che sono gli uomini a fare i danni. Ma se puoi anche solo un po, aiuta a sentirci meglio gli uni con gli altri.

Con affetto, Gina.

Rilesse la lettera; le sembrava infantile e storta, come un disegnino fatto male. Eppure non la cancellò. Si sentì un po più leggera, come se finalmente avesse parlato con qualcuno.

Piegò con cura il foglio e lo lasciò sul tavolo per poi infilarlo nella borsa, accanto alla tessera sanitaria e alle bollette da pagare. Decise che lindomani, uscendo per andare alla posta, avrebbe visto dove lasciarla: nei negozi allestivano spesso una scatola rossa per le lettere a Babbo Natale.

Quella notte dormì poco, ascoltando il ticchettio dellorologio e quella presenza silenziosa del suo desiderio affidato al foglio.

La mattina seguente uscì presto, camminando piano per non scivolare sui marciapiedi ghiacciati di Via Saragozza. Salutò con un cenno la signora Delia, vicina di casa, col suo piccolo cane di nome Poldo. Alla posta il via vai era movimentato; la solita coda davanti alla cassa dei pagamenti. La Gina si cercò con le dita le vecchie bollette, il foglietto della lettera ben piegato. Ma non trovò nessuna scatola rossa nella filiale, solo normali cassette e vetrine di francobolli.

Esitò. Gettare quella lettera nel cestino della carta pareva un sacrilegio. Così la ripose nella borsa e, come sempre, si limitò a pagare il gas e la luce con i suoi euro.

Proprio accanto alla posta, però, un chioschetto vendeva decorazioni natalizie: sulla bancarella, una scatola con la scritta Lettere per Babbo Natale. Ma la cassiera la stava appena togliendo.

Abbiamo finito ieri, disse gentile vedendo il suo sguardo. Adesso ormai è tardi, non arrivano più.

Gina ringraziò comunque, anche se non cera niente di cui essere grati. Tornò a casa con la lettera ancora nella borsa, come qualcosa di caldo che non si poteva abbandonare, seppur imbarazzante.

A casa sistemò la spesa sulla sedia accanto al banco da cucina. Il telefono le vibrò in tasca: era messaggio di Claudia.

Mamma, ciao. Sabato passiamo da te, va bene? Lorenzo vorrebbe chiederti una cosa sulla scuola, dice che da te trova dei libri vecchi.

Sentì il cuore stringersi, poi allargarsi. Sarebbero passati a trovarla; significa che non tutto era perso. Rispose subito: Certo, vi aspetto.

Per il resto della giornata cucinò brodo di carne, dimenticandosi della lettera rimasta nascosta nella borsa sopra la sedia.

Sabato sera i passi nel corridoio annunciarono larrivo della famiglia. Sbirciando dallo spioncino, vide la sagoma di Claudia, il genero Maurizio con una scatola, Lorenzo con lo zaino e i capelli scompigliati che gli spuntavano dalla cuffia.

Ciao nonna! disse Lorenzo inciampando mentre la abbracciava goffamente e le dava un bacio.

Dai, entrate, toglietevi le scarpe che ho preparato le pantofole! Si affollarono tutti nel corridoio tra profumo di strada, freddo e odore di biscotti. Claudia disse che sarebbero rimasti poco, il giorno dopo dovevano andare anche dai suoceri.

Si sedettero in cucina, un po ognuno al suo posto. Maurizio vicino alla finestra, Claudia accanto a lui, Lorenzo di fronte a Gina. Il brodo fumava nelle ciotole ma il silenzio era denso; solo il rumore dei cucchiai.

Poi, con naturalezza, il discorso scivolò sulle difficoltà della vita: traffico, lavoro, prezzi. Sotto le parole però continuava quel solito fiume sotterraneo di tensioni.

Lorenzo, non volevi chiedere alla nonna qualcosa per la scuola? chiese Claudia quando sparecchiarono.

Lorenzo sembrò risvegliarsi dai pensieri suoi. Ah sì, nonna, hai qualche libro sulla storia, tipo la Seconda Guerra? Il professore dice che possiamo portare materiale extra.

Certo che ho dei libri! disse Gina tutta un tratto allegra. Vieni, vieni con me.

Andarono insieme nello studio. Lei accese la lampada da tavolo, salì su una sedia per prendere con mani sicure una vecchia serie di libri dalla libreria.

Prendi questa, è scritta bene. Io lho letta da ragazza, disse Gina mentre porgeva un volume a Lorenzo.

Lui la ringraziò e infilò il libro nello zaino mentre parlavano ancora un po di scuola. A Gina bastava ascoltarlo: la faceva sentire, almeno per un po, necessaria.

Claudia li chiamò. Dovevano andare. I saluti di sempre Scrivi, Ricordati di portare quel libro, Fammi sapere quando arrivi si incrociarono tra le giacche e i borsoni nellingresso.

Tornata sola, Gina ripose le stoviglie in cucina. In un angolo stava la sua borsa con la lettera. Istintivamente ci infilò una mano, toccò il foglio. Per un momento pensò di strapparlo, poi invece lo nascose ancora di più.

Non sapeva che proprio in quellistante Lorenzo, in corridoio, aveva urtato la borsa coi piedi prendendosi lo zainetto. Il foglio era scivolato appena fuori. Vide la scritta Caro Babbo Natale e si immobilizzò. Non lo raccolse subito cera troppa gente, tutto troppo rapido ma quella frase gli rimase in testa come unimmagine impressa.

A casa, la sera stessa, Lorenzo tolse dal suo zaino il libro di storia e ripesò alla lettera. Che la nonna scrivesse a Babbo Natale a quelletà prima gli venne da ridere, poi la cosa gli sembrò malinconica.

Quella domenica la passò con i genitori a Modena dai nonni paterni. Tra insalate e chiacchiere degli adulti restò a fissare il telefono, con il pensiero fisso alla lettera della nonna.

Dopo qualche giorno, tornato da scuola, scrisse a Gina: Nonna, passo da te? Mi serve ancora una cosa di storia. Lei rispose subito: Certo, ti aspetto.

Quando arrivò suonò, la nonna gli aprì quasi subito.

Dai, dai che oggi ho fatto le crespelle, lo accolse felice.

Mentre Gina sistemava in cucina, lui si abbassò vicino alla borsa appoggiata sulla sedia. Il foglietto bianco era di nuovo semi-sbucato. Con il cuore in gola, Lorenzo lo tirò fuori e se lo infilò nel giaccone. Sentiva di fare qualcosa di sbagliato, ma non ebbe il coraggio di fermarsi.

A tavola mangiarono e risero parlando del nulla: del tempo, della scuola, delle vacanze che stavano per arrivare. Poi Lorenzo se ne andò a casa senza mai tirare fuori la lettera. Solo, in camera, la lesse.

Allinizio si sentì in colpa, come se avesse origliato dietro una porta chiusa. Ma, arrivato alla riga fa che il nipote non sia muto come uno sconosciuto, gli si chiuse la gola. Si vide riflesso in quelle parole: lui non era mai stato freddo con la nonna per mancanza daffetto, ma per il peso delle sue stesse giornate, per la stanchezza. E ora capiva che quei silenzi pesavano anche su di lei.

Si sdraiò a letto la lettera come un fazzoletto bianco sulla coperta. Idee confuse che si accavallavano: raccontarlo alla madre? Al padre? No, si sarebbero offesi o avrebbero minimizzato. Restituirlo alla nonna? Le avrebbe fatto capire di essere stata letta. Troppo imbarazzo.

Nella confusione, il pensiero più forte era: quelle parole non erano per Babbo Natale. Erano per loro.

Il giorno dopo a scuola ne accennò a un amico, che dapprima rise, così, di cuore: La mia di nonna crede solo alla pensione, altro che Babbo Natale!. A Lorenzo non fece ridere. Capì che la fatica di capirsi tra generazioni poteva lasciare ognuno nel suo angolo.

Quella sera provò a chiamare la nonna, poi chiuse subito senza far squillare. Nel gruppo famiglia su WhatsApp scorrevano immagini di cibo, battute leggere, convenevoli. Nessuna vera condivisione.

Scrisse: Mamma, facciamo il cenone di Capodanno dalla nonna? Poi cancellò il messaggio prima di inviarlo; già si sentiva il litigio. Fantasie che si scontravano con la realtà.

Alla fine decise: nessuna festa, nessuna grande occasione. Propose alla madre una semplice cena a casa della nonna, niente di speciale, solo per stare insieme.

Fu la sua prima richiesta fuori dai suoi soliti mugugni adolescenziali. Insistette finché la madre, stanca ma sorpresa, accettò di parlarne con suo marito. Vinta una piccola battaglia.

Chiamò la nonna: Nonna, sabato veniamo da te, va bene? Io posso anche arrivare prima a darti una mano.

Sentì la sorpresa da come esitò: Va bene, rispose. Ci inventiamo qualcosa da cucinare, va bene?

Il sabato portarono i sacchetti pieni dal supermercato. Che dobbiamo fare, aprire un ristorante? lo prese in giro Gina. Ma tra una patata sbucciata, un taglio di sedano, lei commentava come sempre: Così ti tagli attento ai polpastrelli! Lui rideva, ma le ubbidiva.

Lappartamento profumava di cipolla e spezzatino mentre fuori il buio cresceva. Poi, quasi con nonchalance, Lorenzo chiese: Nonna, tu credi ancora in Babbo Natale?

Gina si fermò, il cucchiaio batté leggero nel tegame. Da piccola ci credevo Poi non lo so, il mondo è strano; forse esiste, ma non come nei film. Restò così, sospesa, mescolando il ragù.

Quando i miei genitori arrivarono, trovammo la tavola imbandita. Cera tensione, certo. Ma piano, tra battute vecchie e storie dellinfanzia, tutto si sciolse un poco. Mia madre sussurrò: Scusa se veniamo così poco. Sappiamo che ti senti sola. Non preoccuparti, rispose Gina. Avete la vostra vita. Qui la porta è sempre aperta.

Mi intromisi, a bassa voce: Anche io posso venire così, ogni tanto, anche senza festa. Papà sorrise di lato, quasi commosso. Va bene, disse. È proprio una bella cosa.

Parlarono ancora di scuola, di prove e ripetizioni. Gina ascoltava e cercava di capirci qualcosa, stupita dalle nuove parole e dalle strane abitudini di noi giovani.

Quando ci vestimmo per tornare a casa, lei rimase nel corridoio a guardarci andar via, le mani raccolte sul grembiule.

Prima di uscire, mi avvicinai alla scrivania, dove il taccuino era ancora lì, e mi limitai a dire: Nonna, se vuoi che facciamo qualcosa insieme, parlacene. Non serve che scrivi lettere; basta la tua voce.

Lei mi scrutò per qualche secondo, poi sorrise. Ci proverò. Una promessa semplice, ma pesante come la nebbia fitta dei nostri cortili dinverno.

Tornato a casa, la lettera era ancora al sicuro nella mia giacca. La lessi altre volte, qualche riga per volta, finché il senso di colpa lasciò spazio a una specie di gratitudine: che fortuna avere qualcuno a cui importi ancora se a tavola ci si ascolta.

Quando la mamma, stanca o arrabbiata, diceva che non aveva voglia di andare da Gina, rispondevo sereno: Vado io. E spesso, davvero ci andavo. Non per la festa, per la presenza. Era un piccolo passo, il mio modo di accogliere la preghiera silenziosa scritta a mano.

Mia madre, la signora Gina, quando mi apriva la porta, non chiedeva niente. Diceva: Vieni, ti aspettavo, ho messo su il bollitore. E bastava quello, perché ogni volta la casa ritrovasse un po di quel calore che avevo temuto di perdere.

E ho capito che le lettere che non arrivano forse servono solo a farci muovere, un po più vicini, soprattutto quando ci sembra già troppo tardi.

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