La Matrigna Cacciò la Povera Ragazza Disabile di Casa fino a Quando un Milionario Non Le Incrociò il Cammino…

La pioggia serale cadeva a dirotto sulle strade di Napoli, lavando via il rossetto che ancora si aggrappava alle lacrime bagnate di Ginevra Bianchi. Appoggiata al suo bastone, stringeva una borsa di stoffa logora e un fascio di schizzi accartocciati, lultimo tesoro che le restava dopo che la matrigna laveva cacciata fuori casa.

Alle sue spalle riecheggiava la voce acuta di Vittoria: «Fuori! Non darò da mangiare a una parassita invalida». Un lampo squarciò il cielo, rivelando la piccola figura che scivolava sullasfalto scivoloso. Nessun tetto, nessuno che la considerasse più sua figlia, solo una flebile speranza che Dio vegliasse ancora su di lei. Un vetro rotto giaceva sul ciglio della strada, mescolando il sangue al liquido piovoso sul suo ginocchio. Nelle mani tremanti, un disegno bagnato: un abito ricamato di fili doro.

Sussurrò: «Mamma, brilleranno mai di nuovo queste crepe?». Non immaginava che quella notte tempestosa lavrebbe condotta a un incontro che avrebbe cambiato la sua vita e avrebbe inciso il suo nome nella luce che portava. Dove ti nascondi, Napoli, Milano o Firenze? Lascia il nome della tua città nei commenti, così Italia Dream Stories saprà che segui la storia di Ginevra.

Le mattine a Palermo profumavano di cannella, di fiori e di sudore damore. In una piccola casa del quartiere di San Lorenzo, il ronzio ritmico di una macchina da cucire si mescolava al canto sommesso di Rosa di Napoli, una donna siciliana che aveva intrecciato tutta la sua vita con pazienza e fede.

Ogni punto è una preghiera, diceva al suo giovane tesoro, Ginevra, mentre guidava lago attraverso il tessuto: «Così con il cuore, non con la paura». La casa era minuscola ma colma di risate. A otto anni Ginevra già tagliava la stoffa; a nove ricamava il suo nome con filo doro sulle borse che la madre confezionava.

Il padre, Marco Bianchi, camionista a lungo raggio, tornava a casa col profumo di olio di motore, di vento, e con piccoli regali per la sua piccola principessa delle cuciture. La vita era semplice ma fatta di fede.

Una domenica mattina, Rosa cuciva il vestito per la messa, ma le mani tremavano e il sudore le colava sulla fronte. «Mamma, stai bene?», chiese Ginevra posando una mano sul braccio della madre. «Solo un po stanca, cara. Continua a cantare gli inni». Mentre Ginevra intonava, lago scivolò dalla mano di Rosa e cadde a terra. Quel giorno il sole sembrò fermarsi alla finestra. Il dottore diagnosticò a Rosa una malattia cardiaca e le ordinò riposo.

Eppure, anche malata, Rosa continuava a sedersi al tavolo da cucire, ricamando gli abiti sacri. «Il Signore mi ha dato queste mani per servirlo», diceva. Ginevra le portava acqua, medicine, asciugava il sudore. «Mamma, smetti di lavorare», implorava. Rosa sorrise debolmente, appoggiando la mano fragile sulla guancia della figlia. «Devi imparare a lavorare anche nel dolore. A volte la luce passa proprio attraverso le crepe».

Un silenzio innaturale avvolse una mattina immobile. Ginevra corse nella stanza della madre. Rosa giaceva, gli occhi chiusi dolcemente, le labbra curve in un lieve sorriso. Sul tavolo al suo fianco cera un braccialetto di legno spezzato in due. Ginevra rimase in silenzio per ore, stringendo il braccialetto, sussurrando tra le lacrime: «Mamma, ricorderò i tuoi sogni». Da quel giorno la casa parve più grande e più vuota.

Marco si prese un periodo di pausa dal lavoro per stare con la figlia. Ogni mattina preparava caffè, colazione, cercando di colmare un vuoto che non poteva più esistere. Il dolore non scompare, si fa solo più silenzioso. Un anno dopo Marco dovette tornare alla strada. Prima di partire, abbracciò un piccolo specchio e sussurrò: «Papà deve lavorare per tenere questa casa, piccola. Resta forte, ricorda le parole di tua madre». Ginevra annuì, rimase a casa, imparò a disegnare, a ricamare, a tenere vive le lezioni di Rosa. Le musiche della casa si spensero, ma i disegni di Ginevra fiorirono di colori, ogni abito un sogno della madre.

Fu allora che entrò nella sua vita Vittoria Brooks, incontrata da Marco in una stazione di servizio di Firenze. Aveva un sorriso caldo, occhi vivaci e una voce gentile. «Sei un camionista solitario?», chiese. Vittoria lavorava in un salone di bellezza e curava la madre malata. Marco intravide in lei leco di Rosa: dolcezza, grazia, parole gentili. Qualche mese dopo si sposarono in una piccola cerimonia con pochi amici.

Ginevra, quattordici anni, indossava labito blu della madre, stringendo un mazzo di fiori appassiti, osservando Vittoria entrare nella loro casa. Allinizio Vittoria sembrava amorevole. «Chiamami mamma V, tesoro», disse, intrecciando le trecce a Ginevra, cucinando, raccontando storie. Marco era felice. «Vedi, cara, Dio ci ama ancora». Ma lamore falsato ha il suo profumo, dolce come miele ma avvelenato.

Una sera Marco partì per un viaggio di tre settimane. Vittoria cambiò in una notte. «Lava i piatti, lava il mio bucato, non toccare il mio trucco». Ginevra obbedì. Ma un giorno dimenticò qualche piatto. Vittoria la colpì forte. «Pensi che la tua disabilità ti renda speciale?». Ginevra cadde, il bastone rimbalzò sul pavimento. «Non volevo», balbettò Vittoria. «Taci! Sei solo un peso. Senza di te tuo padre sarebbe felice». Quella notte Ginevra nascose il braccialetto rotto sotto il cuscino, le lacrime bagnavano il suo viso. Nei giorni seguenti Vittoria si mostrava la perfetta matrigna al telefono. «Ginevra sta benissimo, cara», diceva a Marco. «Studia molto», aggiungeva, poi ordinava alla figlia di pulire, cucinare, fare commissioni. Un giorno Vittoria prese il telefono di Ginevra per chiamare una amica. Quando la restituì, Ginevra scoprì prelievi dal conto di Marco. «Ho usato un po per pagare le spese ospedaliere della tua madre morta», sorrise Vittoria. Ginevra non rispose.

Profondamente credeva che Dio la stesse osservando. Una sera destate, la pioggia batteva contro la finestra. Vittoria fissò lo specchio, osservandola. «Pensi che non sappia dei tuoi disegni? Una paralizzata che sogna di essere stilista. Patetica». Ginevra strinse il suo taccuino, le mani tremanti. «Questo è il sogno di mia madre. Non lo lascerò andare». Vittoria strappò le pagine, le gettò nella spazzatura. «I sogni non comprano pane, ragazza inutile». Ginevra guardò la pioggia che martellava il vetro, il cuore a pezzi. Quella notte recuperò i disegni bagnati, li schiacciò tra due vecchi Vangeli, e giurò: «Possono portare via tutto, ma io ricucirò ancora con fede». Alcune settimane dopo Marco tornò a casa.

Vittoria lo accolse con musica e cibo, un sorriso dipinto sul volto. Ginevra stava silenziosa in un angolo, il suo bastone batteva piano. Marco le batté sulla testa. «Papà è a casa, tesoro. Sei felice?». Ginevra forzò un sorriso. «Sì, papà». Quella notte Vittoria fingeva di dormire sul divano mentre Marco sussurrava a Ginevra: «Starò più a lungo a casa». «Andiamo allesposizione di moda a Milano?», chiese Ginevra, gli occhi illuminati. Ma Vittoria, con gli occhi chiusi, aprì la bocca, la rabbia che bolliva nelloscurità.

Il mattino seguente Marco ricevette una chiamata urgente: una spedizione doveva essere consegnata in anticipo. «Solo tre giorni, va bene?», disse. «Allora andremo a Milano». Ginevra annuì, ma il cuore si raffreddò, come se laria stessa fosse un avvertimento. Quando la porta si chiuse, Vittoria lanciò la sua tazza a terra. «Senza di lui sei nulla». Ginevra abbassò la testa. Vittoria le afferrò il mento. «Non cè spazio per due donne in questa casa». Quella pomeriggio il cielo si aprì in un diluvio.

Ginevra si sedette al tavolo da cucire, ricamando labito con radici e ali che sua madre aveva sognato. Vittoria entrò con una busta. «Ho ritirato i soldi dellassicurazione. Non ti resta nulla». Ginevra rimase immobile. «Non puoi fare questo». Vittoria rise. «Capirai quando sarai fuori da casa». Con un gesto furioso aprì la porta, lanciò la borsa di Ginevra fuori, urlando: «Fuori! Vai a cucire i tuoi sogni per strada». La pioggia scrosciava a dirotto. Ginevra uscì, stretto il bastone, gli occhi rivolti al cielo. Nella sua borsa cerano solo metà del braccialetto e qualche schizzo accartocciato. Non sapeva che, al termine di quella strada, un uomo di nome Lorenzo De Luca laveva osservata.

E così la sorte cominciò a girare. Lorenzo, miliardario del settore moda, era un uomo dallaspetto gentile ma dallo sguardo intenso. Lo vide mentre Ginevra attraversava la pioggia, cercando un rifugio. Un SUV nero si fermò davanti a un panificio. Lorenzo scese, prese il foglio che il vento aveva portato via. «Hai perso il sogno», disse. Ginevra, sorpresa, rispose: «Grazie. Non credevo che qualcuno si ricordasse di me». Lorenzo sorrise: «Ti ho visto quella notte, quando tutti scappavano ma tu ti aggrappavi ai disegni invece di al cappotto». Ginevra abbassò lo sguardo, timida. «Questi schizzi sono tutto ciò che ho». Lorenzo chiese: «Hai un posto dove stare?» Ginevra indicò il piccolo appartamento sopra una panetteria di Edgewood. Lorenzo estrasse una carta con un logo dorato: Lorenzo De Luca, CEO di Radici e Ali Atelier. «Se vuoi, vieni domani. Cerco qualcuno che veda il mondo diversamente».

Ginevra si girò e si rigirò per tutta la notte, la speranza che lottava contro la paura. Era una trappola o un dono di Dio? Allalba, raccolse i disegni intatti, si diresse verso il suo riflesso. Il volto che le guardava era sottile, ma gli occhi custodivano una piccola fiamma costante. Andò al Radici e Ali, un edificio di vetro splendente nel centro di Milano. Il guardiano la scrutò, scettico. «Hai un appuntamento?» chiese. Ginevra mostrò la carta doro. Dopo averla vista, il guardiano annuì: «Piano cinque». Il quinto piano odorava di tessuti nuovi, macchine da cucire e lavanda. Sulle pareti pendevano ritratti di donne nere in abiti orgogliosi. Una donna anziana dai capelli dargento, Evelyn Caruso, la veterana stilista, stava vicino al tavolo da taglio. «Sei qui per imparare o per chiedere lavoro?» chiese. Ginevra rispose: «Voglio lavorare. Farò qualsiasi cosa». Evelyn le lanciò una striscia di tessuto: «Cuci questa linea retta. Non essere veloce. Sii onesta». Ginevra, le mani tremanti ma ferme, infilò lago nel tessuto, punto dopo punto. Dopo pochi minuti, Evelyn annuì: «Non male. Le tue mani tremano, ma il tuo cuore è saldo. È raro». Lorenzo entrò, sorpreso. «Sei davvero venuta?» disse, felice. Ginevra rispose: «Voglio provare. Non ho credenziali, ma ho fede». Lorenzo sorrise: «La fede è ciò che assumiamo più di tutti qui». Le assegnò un compito: disegnare un abito che facesse sentire belle le donne imperfette. Con un tocco di oro, Ginevra creò una lunga gonna che coprisse le parti più vulnerabili, un corpetto drappeggiato, bordi in filo doro.

Evelyn osservò e mormorò: «Che bello, stai ricucendo il tuo cuore». Mentre Ginevra ritrovava il suo scopo, Vittoria sfogava la sua rabbia a distanza, sorseggiando vino in un locale malfamato. Una voce amica le riferì: «Ho visto quella ragazza». «Ginevra è al Radici e Ali», disse la voce. Vittoria, furiosa, aprì il telefono e vide la foto di Ginevra accanto a Lorenzo, sorridente in una camicia bianca. Il suo sorriso svanì. «Non può essere più felice di me». Il giorno dopo Vittoria ritrovò i soldi dellassicurazione di Marco e li spostò sul suo conto. Chiamò il suo amante, Gabriele: «Ho il denaro, facciamo fuggire da qui». Nel frattempo Ginevra lavorava con gioia. Lorenzo la visitava spesso. «Dormivi bene?», chiedeva. «Non molto», rispondeva, «ma mi sento in pace». Raccontò a Lorenzo dei ricami sacri di sua madre, del braccialetto rotto e del sogno di creare abiti per donne con disabilità. Un pomeriggio le mostrò un nuovo schizzo: Anima Kinugi. Ricami doro tracciavano le lacrime del tessuto come luce che passa attraverso il dolore. Lorenzo osservò a lungo, poi disse: «Se pensavo che la moda fosse solo da indossare, oggi mi hai fatto vedere che è anche guarigione». Quella notte, Ginevra ricevette una notifica bancària: il suo conto era vuoto. Chiamò suo padre, ma Marco era fuori stato. In disperazione fu da Vittoria. Vittoria aprì la porta con falsa sorpresa: «Oh, di nuovo qui per scusarti? Hai svuotato il mio conto». Ginevra replicò:Con il cuore ricolmo di perdono, Ginevra alzò gli occhi al cielo, sorrise al tramonto che dipingeva Milano doro e disse: Ora la luce è dentro di me, e non cè più ombra che possa spegnerla.

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