Santa ha girato la chiave e ne è rimasta sbalordita: davanti alla porta c’erano tre soffici ospiti

Ludovica Bianchi inserì la chiave nella serratura e sentì il cuore fermarsi: tre cuccioli di gatto attendevano sullo stipite.
Era il solito pianto monotono della pioggia dautunno, fredda e inesorabile, che bagnava la corte di mattoni di un vecchio palazzo di Torino. Ludovica avanzava nella sua piccola proprietà stringendo lombrello come se potesse proteggere non solo le spalle dal vento, ma anche lanima dal freddo indifferente del mondo. Quando la chiave girò, un flebile miagolio sfuggì alle tenebre alle sue spalle.

Miagoliii sussurrò la voce della pioggia.

Ludovica si fermò, girò la testa. Al battente, stretti luno allaltro, tre minuscoli mucchi di pelliccia tremavano per il gelo. Un rosso focoso, un bianco candido e un nero profondo, come se qualcuno avesse scelto deliberatamente i contrasti più intensi per farli apparire più toccanti.

Signore mio esalò, quasi sussurrando.

I cuccioli alzarono gli occhietti verso di lei. Nessuna richiesta, nessun richiamo: solo uno sguardo che le si impigliò nel cuore.

Perché siete qui? bisbigliò Ludovica, accucciandosi. Andate via, piccolini, andate via.

Il rosso tese cautamente la zampa e toccò le sue dita. Un brivido le percorse la schiena; si alzò di scatto, aprì la porta e varcò la soglia. Si voltò. I gattini ancora lì, immobile.

Scusate mormorò, chiudendo la porta dietro di sé.

Quella notte il sonno fuggì. Il vento ululava tra i rami fuori dal finestrino, e un flebile miagolio sembrava provenire da sotto la porta, come un eco di coscienza.
Al mattino la pioggia si placò. Guardò fuori; il cornicione era vuoto.

Va bene disse a se stessa, come per rassicurarsi. Troveranno qualcuno migliore.

Ma dentro al petto sentì un pungolo acuto, come un ago di speranza perduta.

Ludovica! chiamò una voce familiare dalla strada.

Era la vicina, Valentina Ferrara, con al guinzaglio la sua cagnolina meticcia, Luna.

Scendi, facciamo due chiacchiere! esclamò.

Ludovica afferrò il suo foulard di lana e discese le scale.

Ascolta iniziò Valentina ieri ti sono stati riferiti dei cuccioli sotto la tua porta. Dove sono adesso?
Sono spariti sbuffò Ludovica. Sono arrivati da soli, se ne sono andati da soli.
Ah, stupida sospirò la vicina. I gatti non capitano per caso. Se hanno scelto casa vostra, portano qualcosa di buono. Li hai cacciati via?

Ludovica rimase in silenzio, il dolore di quelle parole affondò come un coltello.

Non li ho cacciati rispose piano. Solo non li ho preso.

Valentina scosse la testa.

Che peccato, Ludovica. È un peccato scacciare chi bussa da solo.

Quelle parole rimase nella sua mente come una ferita. Dopo un attimo di esitazione, Ludovica si voltò con decisione.

Li cercherò.
Finalmente! gridò Valentina, gioiosa.

Con lombrello ormai vecchio in mano, il selciato bagnato sotto i piedi, Ludovica perlustò ogni angolo della corte: dietro i cassonetti, sotto le scale, nei sotterranei. Solo silenzio e il rumore dellacqua nei tombini la accompagnavano.

Il giorno successivo, allalba, senza accendere la radio, indossò il cappotto e uscì di nuovo. Ricercò il proprio cortile, poi quello del vicino, bussò in ogni buca, chiamando a bassa voce:

Mici, dove siete?

Solo una pioggerellina fastidiosa rispose.

Il terzo giorno fu il più duro. Camminò fino al crepuscolo, le gambe doloranti, i vestiti fradici, ma non poteva fermarsi. Alla porta del palazzo la fermò Valentina:

Ludovica, sei tutta inzuppata! Ti ammalerai!
Non posso, Valentina rispose, esausta. Sono venuti da me. E io
Capisco annuì la vicina. Domani andiamo insieme.

Il quarto mattino, mentre apriva la porta, udì un flebile miagol provenire dal sotto del marciapiede. Si chinò, guardò sotto un vecchio tubo di caldaie. Lì, in un angolino, due cuccioli il rosso e il bianco stavano stretti luno allaltro, tremanti, il bianco quasi senza respiro.

miei tesori sussurrò, allungando le mani. Il rosso accettò subito, il bianco era quasi senza forze.

Li strinse sotto la giacca, sentendo i piccoli cuori battere contro il suo palmo. In cucina li avvolse in un vecchio asciugamano. Il rosso riprese vita, osservando il nuovo ambiente; il bianco, invece, rimaneva immobile.

Non morire, piccolo lo carezzò, massaggiandogli le zampette. Ascolta! Non osare!

Versò del latte tiepido. Il rosso si lanciò sul piattino, il bianco bevve a goccia da una siringa. Dopo unora, emise un flebile miagolio.

Bravo, sei un campione sorrise Ludovica, per la prima volta in giorni.

Ma il terzo, il nero, non era ancora stato trovato.

Uscì di nuovo, cercando fino al tramonto, finché non udì un piccolo lamento provenire da una vecchia baracca. Tra le assi bloccate, un minuscolo gattino nero era incastrato.

Come sei finito lì, sciocco? lo rimproverò, tirandolo fuori con laiuto di un piccolo martello.

Il negro era il più debole di tutti. Lo posò accanto agli altri sul vecchio plaid davanti al termosifone. Il rosso correva già per la cucina, il bianco respirava più regolarmente, ma il nero

Tieni duro, piccolino gli cantò, offrendogli latte. Non mollare.

Alle mezzanotte fece i primi sorsi da solo.

Le prime settimane furono un susseguirsi di diarrea, febbre e preoccupazioni. Ludovica non chiuse più gli occhi di notte, accudiva, nutriva, portava i cuccioli dal veterinario.

Li dai via? suggerì Valentina un pomeriggio.
No replicò ferma Ludovica. Sono miei.

Quella parola, miei, non era uscita dalla sua bocca da tempo. Il rosso fu ribattezzato Ruggiero, furioso e curioso, sempre con il naso in giro. Il bianco divenne Neve, tranquillo osservatore, amante dei davanzali. Il nero fu chiamato Tenebra, silenzioso, ma più legato a lei di tutti: appena si sedeva, si accucciava subito sulle sue ginocchia.

La casa si riempì di suoni: fusa, passi di zampette, il tintinnio delle ciotole. Tornarono gli odori di latte, shampoo, pane caldo. Tornò la vita.

Ogni mattina Ludovica si alzava presto per riempire le ciotole dacqua, misurare il cibo, cambiare la lettiera. La sua giornata era scandita da colazione, giochi, pranzo, passeggiate in casa, coccole serali e sonno. E, per la prima volta dopo tanto, lo trovava piacevole. Si era ritrovata uno scopo, un motivo per alzarsi.

Due mesi più tardi i cuccioli erano diventati piccoli monelli. Ruggiero, coraggioso e iperattivo, lanciava tende, rovesciava vasi, si nascondeva negli armadi creando piccoli disastri.

Che combinazione, piccolino! lo rimproverava Ludovica, ma con un sorriso.

Ruggiero, capendo che era perdonato, si strofinava contro le sue gambe, miagolando: Sto solo giocando, mamma!.

Neve, al contrario, era regale, seduto per ore al davanzale, guardando il cortile. A volte miagolava verso gli uccellini, come se confidasse loro segreti.

Tenebra, infine, era la sua ombra costante: in bagno, in cucina, sul divano, sul letto. Ogni volta che si sdraiava, Tenebra si accovacciava sul cuscino, avvolgendo la testa nella sua pelliccia nera.

Che appiccicatura! rideva Ludovica, accarezzandolo lorecchio.

Una mattina, tuttavia, qualcosa non andava. Neve era al suo solito posto, Ruggiero correva nel corridoio, ma Tenebra era sparito.

Tenebra! chiamò, il cuore che batteva allimpazzata. Dove sei, piccolo?

Nessuna risposta. Ludovica ispezionò ogni stanza: sotto il divano, nellarmadio, nella lavatrice. Nulla. Il panico le stringeva lo stomaco. Forse era saltato sulle scale? Ma la porta era chiusa, la finestra sbarrata. Corse fuori, nel cortile, nelle cantine, nei pressi del muro di cinta, chiedendo disperatamente:

Tenebra! Tenebra!

Valentina sbirciò dalla finestra.

Ludovica, che succede?
Tenebra è sparito! rispose, quasi in lacrime. Non so dove sia!
Aspetta, scendo! Andiamo a cercarlo!

Insieme perlustrarono ogni angolo del cortile, i bagni, il seminterrato. Ludovica stava per piangere quando, dallalto, udì un flebile miagol. Si fermò, alzò lo sguardo e vide una piccola figura nera nascosta in alto su una mensola, dietro alcune scatole.

Tenebra! esclamò, gli occhi lucidi di sollievo. Come sei arrivato lassù, furbetto?

Il gattino, spaventato, emise un miagolio debole. Ludovica mise una sedia, si arrampicò e lo risalì delicatamente. Lo strinse al petto, accarezzandogli la schiena.

Che spavento mi hai dato, sciocco sussurrò.

Tenebra fece le fusa, sfregandosi contro il suo viso, come per chiedere perdono.

In quel momento Ludovica capì che non temeva solo di perdere un animale. Temeva di ritrovarsi di nuovo sola. Quei piccoli esseri erano diventati la sua famiglia, il suo cuore, il suo senso di appartenenza. Ruggiero miagolò, Neve ronronò, Tenebra si affacciò contro di lei.

Quella sera, per la prima volta in molto tempo, sentì di essere davvero necessaria.

Grazie a tutti voi sussurrò, disponendo le ciotole dacqua. Grazie per essere venuti da me.

Da quel giorno Ruggiero la salutava alla porta ogni volta che tornava dal negozio, saltellando, facendo rumore, strofinandosi contro i piedi. Neve vigilava dal davanzale, come un vero guardiano, osservando il mondo con i suoi occhi verdi. Tenebra rimaneva sempre al suo fianco, fedele, con gli occhi gialli pieni di tenerezza.

Quando Ludovica era triste, Tenebra si posava accanto a lei, scaldandola con il suo calore. Quando era felice, ruggiva più forte, condividendo la gioia.

La casa era rinata. Non si alzava più perché dovevo, ma perché voleva per nutrire i suoi maschietti, per giocare, per parlare. E parlare con i gatti non le era più imbarazzante; loro rispondevano a modo loro, con fusa, con movimenti delicati della coda, con un semplice miagol.

Un anno dopo, Ludovica stava alla finestra, osservando il cortile dove una volta aveva accolto i tre piccoli bagnati.

Neve, guarda, di nuovo piove disse al gatto bianco, accomodato sul davanzale.

Neve miagolò, senza distogliere lo sguardo dal vetro. Era diventato un maestoso felino dagli occhi verdi, saggio come un professore. Dal corridoio si udì il fruscio di Ruggiero, che correva con un topo di peluche tra i denti, ancora scatenato ma ormai più grande, soffice come unarancia dautunno.

Hai messo di nuovo tutto sottosopra? rise Ludovica.

Tenebra, nero come il carbone, ronzava pigro ai suoi piedi, le sue pupille riflettevano il passato e il presente. Non si allontanava mai più di un passo.

Miei tesori sussurrò, accarezzandolo.

Il cancello del cortile sbatté; Valentina rientrò con Luna al guinzaglio.

Ludovica! chiamò, sorridendo. Esci!

Ludovica rise, guardando i suoi compagni.

Valentina, avevi ragione mormorò a mezza voce. Loro mi hanno salvata.

Poi alzò lo sguardo al cielo e aggiunse sottovoce:

Grazie, caro destino forse sei stato tu a mandarli da me.

Fuori, la pioggia batteva regolare sul davanzale, ma dentro la casa regnava un caldo silenzio. Ludovica chiuse gli occhi, ascoltando il dolce ronzio dei gatti, il suono con cui era iniziata la sua nuova vita.

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